venerdì 13 aprile 2018

Pensieri


Prendo un giornale, accendo la televisione. Sono le otto, sullo schermo appaiono e si sovrappongono volti, macerie, calciatori e parolai, tutto in un guazzabuglio di immagini che hanno il solo scopo di confondere. Mi siedo sul divano ed inforco gli occhiali. Scorro i titoli del quotidiano con poca attenzione e meno curiosità. In casa c’è un velo di polvere dove prima tutto brillava di pulito e nell’aria resta sempre l’odore delle sigarette al posto del profumo che mi piaceva tanto. Ormai è così da tempo e così lo voglio lasciare, nessuno mi rimprovererà. Aggiusto i cuscini, lascio da parte il giornale e stendo le gambe sul tavolino basso. Nel bicchiere si scioglie lentamente il ghiaccio rompendosi con piccoli schiocchi. Chiudo gli occhi.
-E tu che ci fai qui?
-Anche se sembri dimenticarlo, ci sono anch’io oltre alla tua donna.
-Va bene, fammi compagnia. Bevi qualcosa?
-Dai, ho solo vent’anni, non mi tentare. E poi non mi va il whisky.
-Ok, come sei morigerato…
-Almeno uno di noi due deve restare lucido.
-Com’è andata all’università?
-Oh, beh, economia e commercio: una palla! Te l’avevo detto che non ci capisco niente di matematica e statistica. Invece con i diritti vado come un treno. Avrei dovuto fare Giurisprudenza.
-Già, i primi ripensamenti. Ma sei ancora in tempo per cambiare.
-Ma che dici? Ho i miei binari ben chiari davanti. Laurea e poi il lavoro, una famiglia e soldi in tasca.
-E la motocicletta?
-La venderò con la nascita della prima figlia.
-Il coast to coast negli Stati Uniti?
-Lo farò. A cinquant’anni, forse.
-Quella smania di avventura di cui mi parlavi?
-Adesso non ho tempo. Più in là, si vedrà.
-No, caro, non ci siamo. Bisogna avere il coraggio di scommettere, innanzi tutto su se stessi, e poi prendere la vita per le corna, come un toro a Pamplona.
-Tu l’hai fatto?
-Sto parlando di te. Riempimi il bicchiere e ascolta. E’ vero che si può trovare sempre una Harley che ti aspetta a Chicago pronta per lanciarsi sulla route 66, ma bisogna decidere di prenderla. Il giubbotto di pelle con le frange sta bene su un ragazzo o su un giovane uomo, ma un vecchio cow boy improvvisato è spesso solo una maschera patetica di perdute illusioni. Lo stesso vale per qualsiasi altro sogno. La giovinezza è un alibi che giustifica la pazzia, ma la pazzia non è un alibi per la perduta giovinezza.
-Che vuoi dire?
-Voglio dire che ogni epoca della vita ha una cornice ben definita che delimita i comportamenti e rinchiude in un quadro di doveri. Solo quando si è giovani la tela è ancora bianca e si può sporcarla con qualsiasi colore. Dopo: si deve, bisogna, tocca e qualsiasi altro verbo abbia a che fare con il concetto di responsabilità ti tarperà le ali creando una sorta di ragnatela dalla quale non sarà possibile districarti. E, ti dirò di più, ne sarai contento.
-Sarò contento di essere prigioniero?
-Si, caro. Sarà una gabbia fatta da tante cose a cui terrai con affetto, amore o addirittura passione, ma comunque resterà una gabbia. Come nella sindrome di Stoccolma, t’innamorerai di quelle cose che ti imprigionano e ti sembrerà assurdo solo il pensiero di poterne fare a meno.
-Non capisco. Se sei felice di quello che hai, perché rimpiangi quello che non hai? Mi sembra un atteggiamento sciocco e, soprattutto, ansiogeno.
-No, chiariamoci: nessun rimpianto o, tantomeno, rimorso. Solo qualche sogno che è rimasto nell’aria e la rabbia di non poter fermare questo treno del quale incomincio ad intravedere la stazione.  
-Quindi che mi consigli?
-Consigli? Nessuno, non ne sono in grado. Anzi, solo uno: resta accanto a chi ti vuole bene.
La televisione continua nel suo monologo in sottofondo mentre sul divano, vicino a me, non c’è nessuno.


venerdì 6 aprile 2018

Frida



L’appuntamento era per le cinque del pomeriggio in un villa alla periferia di Ginevra. Dovevo intervistare la principessa per un giornale per il quale lavoravo. Nelle cronache mondane si parlava spesso della ancora invidiabile avvenenza della anziana signora, della sua ricchezza discretamente ostentata e di quella che era ritenuta, da tutti, una vita da favola. Le mie affezionate lettrici erano avide di entrare, anche solamente tramite le pagine patinate, in casa della nobildonna e quindi il direttore decise di organizzarmi un incontro da pubblicare tra le ultime nozze reali e le passerelle dell’alta moda. Mi presentai puntuale al cancello e, dopo essermi annunciato ad un videocitofono dall’occhio inquisitore, attesi che le grandi inferriate si spalancassero invitandomi ad entrare. Percorrendo il lungo il viale che portava all’ingresso dell’antica dimora, in lontananza, scorsi la sagoma della signora che mi stava aspettando accanto alla porta aperta. Affrettai il passo e finalmente giunsi al cospetto della padrona di casa.

- Buongiorno, sono Anni-Frid Ruzzo Reuss von Pauen, benvenuto. – Si presentò la principessa, anche se non ce ne sarebbe stato bisogno. Dissi il mio nome perdendomi per un momento in quegli occhi verdi velati di tristezza che avevano affascinato tanti ammiratori. Dopo qualche convenevole, ci accomodammo in un salottino confortevole, ma un po’ anonimo. Era tutto molto ordinato, ninnoli di Meissen e Sevres, piccoli argenti e fiori distribuiti armoniosamente sopra bassi tavolinetti; paesaggi fiamminghi e nature morte alle pareti; sete sui toni caldi del beige drappeggiate ai lati delle grandi finestre e sui divani. Di gran gusto, ma in qualche maniera impersonale. Si notava la mancanza di quello che tutti raggruppano negli angoli più intimi della propria casa: non c’era neanche una fotografia incorniciata.

-Mi scusi principessa per l’intrusione. Lei sa che i nostri lettori gradiscono sempre avere sue notizie e la curiosità, in questo caso, è solo la manifestazione dell’affetto con il quale la seguono da tanto tempo.

-Capisco, e la ringrazio. Cosa voleva chiedermi?

-Beh, niente in particolare. Si conosce tutto della sua vita pubblica ma, se vuole, sarebbe interessante conoscere il risvolto privato di Frida.

-Bene, ma non sono tutte rose e fiori, anche se può sembrare il contrario.

-Cominci da dove vuole.

-Non saprei, nella mia vita ci sono state tante cose. Andrò per grandi tratti e lei mi interromperà dove riterrà opportuno.

-Perfetto.

-Ebbene, già la mia nascita fu molto particolare. Infatti io non sono frutto dell’amore, come succede per la quasi totalità degli esseri umani, ma sono il risultato di un esperimento. La conseguenza di uno scellerato programma che usava gli uomini e le donne come cavie, o meglio come animali da riproduzione, senza il loro consenso. Un atto bestiale dove non era contemplato alcun sentimento, tranne la folle brama di onnipotenza da parte di chi comandava.

-Può spiegarsi meglio?

-Sono nata a Ballangen, durante l’occupazione nazista della Norvegia. Mia madre, Synni, fu selezionata per il piano Lebensborn, il progetto eugenetico nazista di riproduzione e selezione delle nascite. Questo programma prevedeva di far congiungere carnalmente alcuni ufficiali dell’esercito, solo quelli di provata ascendenza ariana, con ragazze dalle caratteristiche fisiche corrispondenti, allo scopo di creare la razza perfetta e di sovrappopolare la Germania. I figli nati da tali unioni sarebbero rimasti alle madri o educati direttamente dalle organizzazioni naziste, ad insindacabile giudizio del Reich.

-I padri non restavano accanto ai figli una volta nati?

-No, quasi mai. I soldati dovevano fungere solo da inseminatori e, una volta espletato il loro compito, tornavano nei ranghi senza curarsi di altro.

-Quindi lei non ha conosciuto suo padre?

-Non ho saputo chi fosse fino al 1977, quando il settimanale tedesco Bravo fece delle ricerche e lo scovò. Si chiamava Alfred Haase ed era un ufficiale tedesco della Wehrmacht già sposato. Non l’ho voluto incontrare, per me non significava niente. Sono cresciuta credendolo morto e la mancanza della sua figura mi ha accompagnato per tanto tempo, finché non sono diventata madre a mia volta. Bella storia, eh? – Disse Frida scuotendosi da quei ricordi dolorosi.

-Impressionante, direi. Se vuole continuare…

-Certo. Alla fine della seconda guerra mondiale, insieme a mia madre e mia nonna, dovetti rifugiarmi in Svezia per paura di rappresaglie. Eravamo state marchiate come traditrici della patria proprio per la partecipazione al Lebensborn, anche se non avevamo avuto scelta. Dovemmo fuggire altrimenti, come altri bambini nati da padri tedeschi, sarei stata rinchiusa in un collegio o in un sanatorio mentale. A tredici anni cominciai a lavorare in un locale notturno come cantante Jazz e, dopo molta gavetta, nel 1967 vinsi una competizione canora televisiva. In quell’occasione incontrai Benny Andersson che da poco aveva fondato un gruppo che poi si chiamo gli ABBA. Nel 1978 lo sposai e in quegli anni ci fu l’enorme successo del quartetto che divenne un fenomeno a livello planetario. Conobbi la fama e la ricchezza, oltre che una vita da pop star. Le basti solo sapere che gli ABBA, al culmine delle vendite, fatturavano più della Volvo ed erano una delle maggiori risorse per la Svezia. Ma ci furono anche molte incomprensioni con Agneta e delle brutte storie tra di noi che portarono prima al mio divorzio e poi allo scioglimento del gruppo. Dopo qualche anno incontrai il mio secondo marito, il principe tedesco Reuss von Plauen, che morì di cancro all’età di quarantanove anni. Ma non fu l’unico dolore, due anni prima morì anche mia figlia in un incidente automobilistico. Infine mi sono ritirata qui, in Svizzera, dove vivo con molti ricordi, belli e brutti.

Rimasi molto colpito da quel racconto, e mi resi conto di qualcosa di molto banale ma che spesso tendiamo a dimenticare. Una persona può apparire felice, fortunata, a volte magari oggetto di invidia o ammirazione, ma nessuno mai sa cosa si cela veramente dietro la maschera indossata tutti i giorni per vivere. Non bisogna giudicare, mai.

Quanto raccontato di Anni Frid Lyngtad, la Frida degli ABBA, è una storia vera.