venerdì 16 marzo 2018

Un testimone casuale


Capita, a volte, di essere involontari e casuali testimoni di avvenimenti che poi si riveleranno epocali. Pensiamo, ad esempio, a quel tipo di Pompei che, mentre stava beatamente nelle sue faccende affaccendato, improvvisamente si vide sommerso da cenere e lapilli. Lui sicuramente non ne era consapevole, e forse si trovava solamente di passaggio nella cittadina partenopea, ma il suo calco con il pugno alzato ed il pollice all’infuori è rimasto come prova evidente di una tragedia di portata storica. L’ignoto autostoppista fu spettatore e partecipe di un evento che è poi rimasto nei libri di scuola, anche se suppongo ne avrebbe fatto volentieri a meno. L’esempio è lugubre, ma rende l’idea. A proposito, Giacobbo sta preparando un Voyager nel quale spiegherà perché ci fosse un autostoppista a Pompei, si parla di alieni viaggiatori nel tempo: imperdibile. Voglio dire che tutti i giorni ci corre accanto la vita, ma talvolta si può incontrare anche la storia. Così mi accadde in una mattinata uggiosa di qualche decennio fa. E vado a raccontare, con permesso.
Nell’inverno del ’69 mi trovavo a Londra per una vacanza/studio che sarebbe dovuta terminare alla fine di dicembre per poi tornare a casa. Con la scusa, ben motivata, che l’apprendimento dell’inglese era di gran lunga più importante del seguire le lezioni a scuola, convinsi i miei a posticipare il ritorno di altri due mesi. Tanto, dissi, con qualche ripetizione, il pagamento puntuale della retta e magari una generosa donazione per le opere di carità del preside, da consegnare nelle sue mani in contanti ed in un luogo appartato, l’Istituto non avrebbe creato difficoltà e non avrei compromesso l’esito dell’anno scolastico. Così fu, ed anche se ho sempre raccontato di aver vissuto un periodo gramo di studio e solitudine, in realtà, come diceva il buon Oliver Hardy, a Londra mi sentivo come un pisello nel suo baccello. E’ comprensibile: ero capitato nel cuore della “swinging town”, e mi piaceva tutto. Mi affascinavano i colori sgargianti indossati dai teen-ager incontrati per strada, ma anche le strane bombette sul capo degli indaffarati uomini della city; le minigonne e gli impermeabili Aquascutum. Non mi disturbava il traffico caotico del centro e godevo del silvestre silenzio dei parchi rotto solo dal chiacchiericcio di qualche “nanny” con relativa “Silver Cross” a traino e dallo starnazzare di brevi processioni di anatre schiave dell’imprinting verso la prima della fila. Era “cool” anche la puzza. L’odore acre della gomma bruciata all’entrata delle stazioni della metropolitana, il tipico afrore dei frequentatori dei rossi bus a due piani che sembrava disprezzassero deodoranti e saponette, oppure i miasmi che sbuffavano fuori dai ristoranti a poco prezzo nelle stradine intorno a Leicester Square. Cioè: un sacco bello! Ma sto divagando.
Ogni mattina prendevo al volo prima un bus e poi la Northern Line del tube per andare da casa della mia cordialmente odiata “landlady”, la signora Rowling, fino ad una scuola di lingue vicina a Baker Street. Il trasferimento durava, tra un mezzo e l’altro, quasi un’ora e per me, affezionato utente Vespa abituato a slalom spericolati nel traffico di Roma, rappresentava un sacrificio al limite del martirio. Quel fatidico 30 gennaio mi svegliai starnutendo e con un fastidioso pizzicore in gola. Avevo la fronte calda e l’occhietto lucido, sintomi inequivocabili di un’alterazione febbrile che stimai in un abbondante 36,8. Costretto dal morbo, traccheggiai sotto le lenzuola oltre l’orario normale dei giorni feriali. Fui tentato di girarmi dall’altra parte ed ignorare le lame di luce che filtravano dai tendaggi, ma sapevo che se la padrona di casa non mi avesse visto scendere, sarebbe salita irrompendo in camera mia senza creanza alcuna. Già la immaginavo sbraitante in uno slang incomprensibile intercalato da qualche “Stefàno!!” pronunciato con un tono di schifata riprovazione e con l’accento irrimediabilmente sbagliato. Era già successo e non avevo alcuna intenzione di rivivere la traumatizzante esperienza. Pertanto stabilii di uscire, ma siccome avevo fatto tardi, nei confronti della scuola d’inglese mi esercitai nella materia che mi riusciva meglio: l’assenza.  Marinare le lezioni non mi aveva mai causato alcun senso di colpa poiché ritenevo che l’insegnamento della strada fosse assai più formativo delle aride lezioni ex cathedra. Almeno questo fu quello che, compuntamente serio e di fronte a tutta la classe, dissi all’Ispettore scolastico quando mi interrogò sul motivo di tanta latitanza. Ovviamente la giustificazione fu accolta da un boato di risate e da un timido appaluso, subito spento dall’occhiataccia del professore che mi scrisse sul registro una nota di biasimo tanto lunga che la dovette suddividere in capitoli. A me sembrò di affermare una cosa al contempo saggia e paracula, e i miei compagni approvarono.  Quindi quella mattina, per passare il tempo, decisi di fare una passeggiata in centro. Metropolitana fino a Piccadilly, puntatina a Carnaby Street per cercare una camicia a fiori, possibilmente senza pinces, e hot dog sulla panchina del piccolo Golden Square Park. Poi a zonzo senza meta. Lungo Regent Street c’era troppa gente e pertanto deviai nelle stradine laterali alla ricerca di posti nuovi dove scoprire lo spirito della beat generation. Improvvisamente mi accorsi di un comportamento strano delle persone per strada. Sembravano muoversi come gli storni nel cielo di Roma: prima si radunavano a gruppetti, poi si dirigevano da una parte, ci ripensavano e partivano verso un’altra direzione. Ma la cosa più curiosa era che stavano tutti col naso all’insù, guardando verso i tetti delle case. Non sapevo se unirmi e chiedere spiegazioni, oppure lasciare gli eccentrici londinesi ai loro oscuri riti, quando mi giunse netto il suono di un basso. Le note profonde rimbalzavano sulle facciate ravvicinate della stretta Savile Row ed era quello che si sentiva più distintamente, ma poi ecco lo schiocco della batteria e le secche pennate di una chitarra. Finché non si unì una voce che conoscevo benissimo esortare un tale Jojo di tornare indietro. “Get back” cantava Paul nel concerto tenuto sulla terrazza della sede della Apple Records in quella che fu l’ultima esibizione in pubblico dei Fab Four. Come Sara, la moglie di Lot, mi voltai anch’io e rimasi di sale, impietrito. A pochi metri da me si stava compiendo l’atto definitivo di una storia che aveva rivoluzionato il mondo e fatto impazzire milioni di giovani. Ed io ne ero il casuale testimone.



domenica 11 marzo 2018

Peter Camenzind ③




E finalmente l’inverno. Peter Camenzind era stanco, le ossa gli dolevano ed ogni passo portato avanti su quel sentiero voleva dire una piccola vittoria della volontà sugli acciacchi degli anni. Quanti ne aveva? Più o meno ottanta, e li ricordava tutti, forse un po’ confondendoli, con l’ondivaga memoria della vecchiaia che si aggrappa ai rimasugli del passato per non perdere il contatto con la realtà. Camminava ancora lungo lo stesso sterrato percorso innumerevoli volte dove, col tempo, ogni albero era diventato un suo amico, ogni roccia il suo sostegno e ciascun piccolo sasso il suo compagno di giochi. Da tempo si era ritirato dall’insegnamento e di tutti gli anni passati a scuola, chino sui libri, sembrava non gli fosse rimasto niente. Facendo un bilancio con schiettezza, doveva ammettere di non essere diventato né più saggio né più sapiente di quando era giovane, anzi gli sembrava di avere perso qualcosa di cui, in partenza, era ricco. Lungo la strada aveva, poco per volta ma ineludibilmente, smarrito l’entusiasmo, la curiosità e perfino la speranza. Era inquieto, da giovane. Pensava che la ricerca interiore fosse altrettanto importante di quella scientifica, che in quegli anni stupiva il mondo, e si vedeva come un esploratore dell’anima tanto audace ed intrepido quanto Amundsen al Polo Nord. Non aveva la necessità di andare lontano, ma si tuffava fiducioso ed avido nei libri come un minatore dentro le grotte profonde ed oscure alla ricerca di qualche pepita. Aveva letto fino a stancarsi gli occhi e la mente e poi aveva cercato i sapienti per confrontarsi con loro e trovare, o quantomeno approssimarsi, alle risposte che da sempre l’uomo si pone per giustificare la propria esistenza. In qualche circostanza, accanto ad un asceta o godendo di una poesia, gli era parso di trovarsi vicino alla verità, ma l’esperienza della vita l’aveva ogni volta, bruscamente, dissuaso. Si sentiva deluso e vinto. Deluso dalle troppe aspettative mal riposte, dalle vane promesse, dagli orizzonti intravisti e mai raggiunti. Deluso dagli uomini che continuano a ripetere, da sempre, gli stessi errori e non riescono ad accettare di essere mortali, credendosi padroni del proprio destino mentre altro non sono che marionette tirate dal fato. Deluso dall’avidità del niente che sono i beni materiali, dalla gelosia del possesso, dalla cecità di fonte all’odio ed alle guerre. Deluso dai sentimenti che regalano brevi momenti di felicità e si tirano appresso un bagaglio sempre pieno di lacrime. Deluso da un Dio sordo, dai falsi profeti di previsioni sballate, dagli imbonitori di un mondo oltre la morte che vendono una merce che nemmeno loro hanno mai visto. Infine deluso da se stesso, estraneo al giovane che ricordava percorrere quello stesso sentiero sicuro che la vita fosse nelle sue mani e la felicità ad un tiro di schioppo pronta per essere ghermita. E quindi, vinto. Con le armi deposte ai piedi di una barzelletta, di uno scherzo nella mente di un Essere Superiore sadico e dispettoso che si diverte in un gioco senza vincitori e senza scopo dove, come un moscone nel bicchiere, bisogna volare senza stancarsi, col solo risultato di sbattere in continuazione la testa. Forse prenderne coscienza è lo scotto da pagare dopo una lunga vita che solo verso la fine si svela per quello che è, anch’essa stanca di continuare l’eterno inganno. Ma come una vecchia tartaruga la sua pelle si era inspessita ed ormai nessun dardo riusciva più a trafiggerlo.
Sebbene quella mattina facesse freddo, Peter non aveva voluto rinunciare alla quotidiana passeggiata. La foresta d’intorno non era che un intrico di rami secchi ed adunchi dove il grigio del cielo si confondeva con il colore delle cortecce e della terra spoglia. All’uomo sembrava di essere l’unica cosa viva, e l’assurdità di questo pensiero lo faceva sorridere tra sé. Non si scorgeva traccia di animali e solo qualche sporadico frullio d’ali tra le fronde spezzava il silenzio di un paesaggio assopito ed immobile. Ancora davanti vide la svolta dalla quale, tanto tempo addietro, aveva sentito provenire la voce di Maria, e si fermò. Tese le orecchie e nel vecchio volto rugoso si riaffacciò il viso del giovane che fu. Era sicuro che avrebbe udito il familiare: la, la, la di una antica canzone cantata nelle aie dai contadini. Si aspettava che comparisse la figura amata di una vita e che ancora lo rimproverasse per averla lasciata da sola. Ma gli istanti passavano e non succedeva niente. Peter provò una fitta di delusione nel suo cuore stanco e malandato e, come d’incanto, in quel momento l’anima si librò leggera lasciando per terra un inutile sacco. Peter Camenzind raggiunse la sua Maria ed insieme, per sempre, cantarono la loro canzone.  


F I N E

sabato 10 marzo 2018

Peter Camenzind ②




Peter Camenzind aveva viaggiato molto durante gli anni della sua formazione. Aveva studiato prima a Dresda e poi a Lipsia sfiancando la sua salute sui libri per passare dalle materie del “trivium”, grammatica, retorica e filosofia, a quelle del “quadrivium”, più prettamente scientifiche, tra cui la geometria, l’astronomia e la musica. Tanta fatica era stata premiata ed adesso, a ventinove anni, finalmente aveva conquistato una cattedra che gli assicurava prestigio e sicurezza economica. Ma appena gli impegni glielo consentivano tornava sempre al paese natio, ed ogni volta non mancava di fare lunghe passeggiate sullo stesso sentiero della sua infanzia. La natura d’intorno non cambiava mai, se non col trascorrere delle stagioni, e questa immutabilità era fonte di serenità e pace. Era come un punto fermo nel caos del mondo flagellato, in quei primi anni del novecento, da venti di rivoluzione e di guerra tanto violenti ed incontrollabili quanto sanguinosi e pieni d’incognite.  Anche in quel giorno di fine estate Peter percorreva di buona lena lo sterrato mentre, con lo stecco di bambù dal pomo d’argento, scostava piccoli ciottoli dal suo cammino e, con l’altra mano sprofondata in tasca, faceva risuonare qualche pfennig di rame. Seguendo gli insegnamenti del buddha, di cui era diventato recente discepolo, cercava di fare il vuoto nella mente per librarsi in una saggia meditazione ma, quasi fosse un riflesso involontario, gli rimbombava in testa quel: zumpa, zumpa, zumpa,pà, che l’accompagnava da bambino, facendolo sentire felice e stupido. Il fine settembre nella foresta era come la festa di fine corso delle matricole quando stanno per lasciare una vita spensierata per affrontare il mondo, un passaggio necessario ma spaventoso che si deve esorcizzare con l’allegria. Le foglie allora si tingono dei colori più belli e gli arbusti più sfrontati si ammantano di un rosso acceso, come le meretrici che indossano quel colore per attirare gli sguardi prima che il tempo avvizzisca la loro bellezza. Era un tripudio presago dell’inverno e per questo allegro e triste nel contempo.  
All'improvviso il suo incedere solitario fu distratto da un canto melodioso proveniente da dietro la curva innanzi a lui. Peter riconobbe le parole di una vecchia canzone che i contadini cantavano nelle aie durante le notti d’estate, e si rallegrò nell’udire quella voce conosciuta e cara. Dopo poco, vide venirgli incontro Maria, con lo stesso passo ed i biondi capelli della bambina di tanti anni prima. Non indossava più il vestito a fiorellini, ma era diventata una giovane signora che in grembo portava il bambino concepito dal loro amore.
-Peter! – Lo chiamò agitando una mano. – Sempre da solo e con la testa tra le nuvole. – L’uomo accettò il bonario rimprovero come da lei accettava quasi tutto perché porto con il cuore.
-Eccomi! Quindi mi hai inseguito fino a qui? Non si può stare senza gente intorno neanche mezza giornata. Cosa vuoi? – Il sorriso negli occhi di Peter smentiva le parole uscite dalla bocca e Maria non si offese per il tono brusco della voce.
-In realtà, niente. Mi ero stancata di aspettarti in casa e sapevo dove trovarti. Non credere che sia facile portare appresso questo pancione con dentro un piccolo Camenzind che scalcia e si agita come il padre.
-Non dovresti affaticarti nelle tue condizioni. – Maria assentì, ma in quel momento il viso le si contrasse in una smorfia e la donna si piegò in avanti con le mani premute sul ventre.
-Cosa c’è? – La domanda era un grido di paura.
-Non so, una fitta. – Il bel viso di Maria si era fatto pallido e madido di piccole stille di sudore. In quel momento, da lontano, dietro le montagne, un rombo di tuono rotolò nella valle ed una folata di vento gelido si infilò violenta ed inaspettata sollevando mulinelli di polvere e foglie morte. Nel cielo arrivarono al galoppo nuvole nere e basse, mentre la luce calava come un sipario sulla rappresentazione di una commedia ormai alla fine.
Peter prese sottobraccio la moglie e la sostenne sulla strada del ritorno verso casa. Molte volte ancora, nel corso della vita, si sarebbero aiutati a vicenda incuranti della tormenta.


venerdì 9 marzo 2018

Peter Camenzind ①



Peter Camenzind camminava sfrontato, fiero ed inconsapevole dei suoi otto anni, lungo il sentiero che dalla fine del paese portava all’incrocio con la strada carraia. Marciava impettito, con la schiena dritta, slanciando le gambe tese in un passo alternato come fanno i militari. Le braccia dondolavano in sincrono e dentro il pugno chiuso della mano destra stringeva un bastone lungo e dritto che doveva rappresentare una minaccia per il nemico. Nella testa gli risuonava ossessivamente una marcetta, zumpa – zumpa – zumpa,pà, simile a quelle che aveva sentito suonare dalla banda degli Ussari in piazza la domenica precedente. O Forse era la fanfara dei dopolavoristi delle ferrovie? Non importa, comunque portavano la divisa ed avevano un aspetto marziale e tanto bastava per accendere la fantasia del ragazzino. Quel giorno cadeva il genetliaco dell’Imperatore e la scuola era rimasta chiusa per festeggiare la ricorrenza, così Peter si era precipitato fuori casa godendo dell’inaspettata vacanza. Il suo programma prevedeva di raggiungere un amico che abitava in una contrada a poca distanza dal paese e poi organizzare una caccia alle lucertole con la fionda, sport nel quale si sentiva un campione. Era la fine di un Marzo che aveva fatto onore alla sua fama di mese pazzerello. C’erano stati giorni nei quali sembrava di essere ancora in pieno inverno, con acqua a catinelle e freddo intenso, ed altri in cui il sole aveva vinto sulle nuvole splendendo alto e caldo, presagio di un’estate tanto attesa. E così era quella mattina, senza una nuvola in cielo e con la terra che sembrava risvegliarsi colorando di un bel verde intenso i prati e le valli. Le piante distendevano le foglie accartocciate, gli insetti volavano operosi alla ricerca delle prime corolle dei fiori già schiuse e tutto sembrava rinvigorito ed allegro, come un inno alla vita che si rinnova. Il ragazzo procedeva felice, senza vergognarsi di sfoderare un sorriso dove le finestrelle dei denti persi occhieggiavano nella chiostra ancora da latte.
Improvvisamente il suo incedere solitario fu disturbato da un rumore, anzi da un canto. Proveniva da dietro la svolta del sentiero innanzi ai suoi passi e sembrava una voce femminile che, gioiosa quanto lui, stava intonando una canzone di quelle che si suonavano nelle aie. Peter abbandonò il suo portamento inamidato e si fermò in ascolto, esitante. Era un ragazzo spavaldo, ma timido e, specialmente con le donne, di qualsiasi età, si trovava sempre impacciato, incerto su cosa dire e come comportarsi. Inoltre gli succedeva una strana reazione fisica, assolutamente incontrollabile e imbarazzantissima. Quando una ragazza lo guardava, e magari gli rivolgeva un saluto, subitaneamente gli s’infiammavano le guance e la lingua sembrava diventare di felpa. Sebbene gli amici a volte lo rimproverassero per la sua ininterrotta parlantina, in quelle occasioni diventava muto, o al massimo balbuziente, facendo regolarmente delle figure meschine. Per questo, in vista di un incontro con una canterina inaspettata, si trovò perplesso sul da farsi. La ragione gli suggeriva di continuare per la sua strada e, nel caso, proseguire ed andare oltre, ma il sistema neurovegetativo già si stava allertando con la comparsa dei primi sintomi di ingiustificata vergogna. Il suo corpo, quindi, decise per lui e Peter si diede precipitosamente alla fuga verso il primo tronco d’albero sufficientemente grande per poterlo nascondere. Lei sbucò dalla curva dopo pochi secondi. Era una bambinetta più o meno dell’età del ragazzo, con le trecce bionde d’ordinanza e un vestitino a fiori. Veniva avanti saltellando e cantando a tutta voce un motivetto con le parole inventate sul momento e tanti: la-la-la. Peter la spiò dal suo nascondiglio, come un soldato che vede il nemico avanzare, e non poté fare a meno di pensare quanto fosse graziosa e diversa da lui. Ancora una volta il suo corpo reagì, ed il cuore prima gli si fermò per un momento e poi partì al galoppo. Peter ne fu spaventatissimo anche perché, alla vista della fanciulla, provò uno strano languore alla bocca dello stomaco, dalle parti della pancia. Pensò di stare male, di avere un “deliquio” come quello che, ogni tanto, affliggeva sua sorella più grande. La bambina sfilò e lui si acquietò. Ripensando a quegli strani sintomi non li riconobbe in nessuna delle malattie che aveva avuto fino ad allora, ma decise che sarebbe passato tutto con un buon panino al formaggio da mettere sotto ai denti. Lasciò il rifugio e corse verso casa.