Capita, a
volte, di essere involontari e casuali testimoni di avvenimenti che poi si riveleranno
epocali. Pensiamo, ad esempio, a quel tipo di Pompei che, mentre stava
beatamente nelle sue faccende affaccendato, improvvisamente si vide sommerso da
cenere e lapilli. Lui sicuramente non ne era consapevole, e forse si trovava
solamente di passaggio nella cittadina partenopea, ma il suo calco con il pugno
alzato ed il pollice all’infuori è rimasto come prova evidente di una tragedia
di portata storica. L’ignoto autostoppista fu spettatore e partecipe di un
evento che è poi rimasto nei libri di scuola, anche se suppongo ne avrebbe
fatto volentieri a meno. L’esempio è lugubre, ma rende l’idea. A proposito,
Giacobbo sta preparando un Voyager nel quale spiegherà perché ci fosse un
autostoppista a Pompei, si parla di alieni viaggiatori nel tempo: imperdibile. Voglio
dire che tutti i giorni ci corre accanto la vita, ma talvolta si può incontrare
anche la storia. Così mi accadde in una mattinata uggiosa di qualche decennio
fa. E vado a raccontare, con permesso.
Nell’inverno
del ’69 mi trovavo a Londra per una vacanza/studio che sarebbe dovuta terminare
alla fine di dicembre per poi tornare a casa. Con la scusa, ben motivata, che
l’apprendimento dell’inglese era di gran lunga più importante del seguire le
lezioni a scuola, convinsi i miei a posticipare il ritorno di altri due mesi.
Tanto, dissi, con qualche ripetizione, il pagamento puntuale della retta e
magari una generosa donazione per le opere di carità del preside, da consegnare
nelle sue mani in contanti ed in un luogo appartato, l’Istituto non avrebbe
creato difficoltà e non avrei compromesso l’esito dell’anno scolastico. Così
fu, ed anche se ho sempre raccontato di aver vissuto un periodo gramo di studio
e solitudine, in realtà, come diceva il buon Oliver Hardy, a Londra mi sentivo
come un pisello nel suo baccello. E’ comprensibile: ero capitato nel cuore
della “swinging town”, e mi piaceva tutto. Mi affascinavano i colori sgargianti indossati dai
teen-ager incontrati per strada, ma anche le strane bombette sul capo degli
indaffarati uomini della city; le minigonne e gli impermeabili Aquascutum. Non
mi disturbava il traffico caotico del centro e godevo del silvestre silenzio
dei parchi rotto solo dal chiacchiericcio di qualche “nanny” con relativa
“Silver Cross” a traino e dallo starnazzare di brevi processioni di anatre schiave
dell’imprinting verso la prima della fila. Era “cool” anche la puzza. L’odore
acre della gomma bruciata all’entrata delle stazioni della metropolitana, il
tipico afrore dei frequentatori dei rossi bus a due piani che sembrava disprezzassero
deodoranti e saponette, oppure i miasmi che sbuffavano fuori dai ristoranti a
poco prezzo nelle stradine intorno a Leicester Square. Cioè: un sacco bello! Ma
sto divagando.
Ogni mattina
prendevo al volo prima un bus e poi la Northern Line del tube per andare da
casa della mia cordialmente odiata “landlady”, la signora Rowling, fino ad una
scuola di lingue vicina a Baker Street. Il trasferimento durava, tra un mezzo e
l’altro, quasi un’ora e per me, affezionato utente Vespa abituato a slalom
spericolati nel traffico di Roma, rappresentava un sacrificio al limite del
martirio. Quel fatidico 30 gennaio mi svegliai starnutendo e con un fastidioso pizzicore
in gola. Avevo la fronte calda e l’occhietto lucido, sintomi inequivocabili di
un’alterazione febbrile che stimai in un abbondante 36,8. Costretto dal morbo,
traccheggiai sotto le lenzuola oltre l’orario normale dei giorni feriali. Fui
tentato di girarmi dall’altra parte ed ignorare le lame di luce che filtravano
dai tendaggi, ma sapevo che se la padrona di casa non mi avesse visto scendere,
sarebbe salita irrompendo in camera mia senza creanza alcuna. Già la immaginavo
sbraitante in uno slang incomprensibile intercalato da qualche “Stefàno!!”
pronunciato con un tono di schifata riprovazione e con l’accento
irrimediabilmente sbagliato. Era già successo e non avevo alcuna intenzione di
rivivere la traumatizzante esperienza. Pertanto stabilii di uscire, ma siccome
avevo fatto tardi, nei confronti della scuola d’inglese mi esercitai nella
materia che mi riusciva meglio: l’assenza.
Marinare le lezioni non mi aveva mai causato alcun senso di colpa poiché
ritenevo che l’insegnamento della strada fosse assai più formativo delle aride
lezioni ex cathedra. Almeno questo fu quello che, compuntamente serio e di
fronte a tutta la classe, dissi all’Ispettore scolastico quando mi interrogò
sul motivo di tanta latitanza. Ovviamente la giustificazione fu accolta da un
boato di risate e da un timido appaluso, subito spento dall’occhiataccia del
professore che mi scrisse sul registro una nota di biasimo tanto lunga che la
dovette suddividere in capitoli. A me sembrò di affermare una cosa al contempo
saggia e paracula, e i miei compagni approvarono. Quindi quella mattina, per passare il tempo,
decisi di fare una passeggiata in centro. Metropolitana fino a Piccadilly,
puntatina a Carnaby Street per cercare una camicia a fiori, possibilmente senza
pinces, e hot dog sulla panchina del piccolo Golden Square Park. Poi a zonzo
senza meta. Lungo Regent Street c’era troppa gente e pertanto deviai nelle
stradine laterali alla ricerca di posti nuovi dove scoprire lo spirito della
beat generation. Improvvisamente mi accorsi di un comportamento strano delle
persone per strada. Sembravano muoversi come gli storni nel cielo di Roma:
prima si radunavano a gruppetti, poi si dirigevano da una parte, ci ripensavano
e partivano verso un’altra direzione. Ma la cosa più curiosa era che stavano
tutti col naso all’insù, guardando verso i tetti delle case. Non sapevo se
unirmi e chiedere spiegazioni, oppure lasciare gli eccentrici londinesi ai loro
oscuri riti, quando mi giunse netto il suono di un basso. Le note profonde
rimbalzavano sulle facciate ravvicinate della stretta Savile Row ed era quello
che si sentiva più distintamente, ma poi ecco lo schiocco della batteria e le
secche pennate di una chitarra. Finché non si unì una voce che conoscevo
benissimo esortare un tale Jojo di tornare indietro. “Get back” cantava Paul
nel concerto tenuto sulla terrazza della sede della Apple Records in quella che
fu l’ultima esibizione in pubblico dei Fab Four. Come Sara, la moglie di Lot,
mi voltai anch’io e rimasi di sale, impietrito. A pochi metri da me si stava
compiendo l’atto definitivo di una storia che aveva rivoluzionato il mondo e
fatto impazzire milioni di giovani. Ed io ne ero il casuale testimone.