sabato 1 dicembre 2018

Rottamazione



In prossimità del mio compleanno mi è venuta in mente un’idea geniale. Possiamo considerare l’ammontare dei nostri anni come un debito che tutti abbiamo nei confronti della vita. Il destino, alla nascita, ci ha concesso un periodo a credito che gradualmente va in esaurimento fino a giungere al pareggio con la resa dei conti. E’ come quando si devono pagare delle tasse ed arriva una cartella con l’importo che reclama l’Erario. Non tutti sono pronti a pagare o hanno la disponibilità immediata delle somme, ed allora il Tesoro, magnanimo e benvolente, propone un condono o una rottamazione dei quali in molti approfittano, se non felicemente almeno con un piccolo sollievo. Quindi, così come esiste la “rottamazione delle cartelle esattoriali”, proporrei la “rottamazione del certificato anagrafico”.

Nel caso dell’agevolazione tributaria, tra more ed interessi, il risparmio è grosso modo del 30%. Si potrebbe applicare lo stesso sconto sull'età. Con un modesto pagamento di mille euro il certificato di nascita di ogni richiedente verrebbe decurtato, a saldo e stralcio, di un terzo dell’ammontare degli anni. Siccome gli “over 60” in Italia sono circa quindici milioni, il bilancio statale beneficerebbe di un gettito di quindici miliardi di euro, pagati col sorriso sulle labbra, e molti tornerebbero a progettare per un futuro improvvisamente meno asfittico. Facciamo un esempio. Uomo di sessantacinque anni aderisce alla rottamazione, paga mille euro e gli vengono riconosciuti 43,33 anni che, arrotondati per difetto, risulteranno quarantatré netti. Riparte l’economia perché il tizio correrebbe a comprarsi una moto, una nuova racchetta da tennis e programmerebbe il viaggio al quale aveva in precedenza rinunciato. Rapporti tra i sessi vivacizzati dal ritrovato vigore pseudo-giovanile e tutto un fermento di nuove iniziative. Per diventare legge, il Consiglio dei Ministri dovrebbe emanare un decreto che sarebbe sicuramente approvato all’unanimità. La politica si schiererebbe compatta. Salvini, indossando una felpa con scritto: “Cocoon”, affermerebbe in tutti i comizi in giro per il Paese che per la prima volta, grazie alla sua guida al Ministero dell’Interno, calerà il numero delle badanti extracomunitarie. Di Maio approverebbe dopo un sondaggio on line su un campione rappresentativo di ben trecentododici tra gli iscritti alla piattaforma Rousseau. Il leader cinque stelle personalmente non la richiederebbe, altrimenti dovrebbe rifare l’esame per la patente, ma Toninelli lo farebbe pancia a terra. Zingaretti aderirebbe per non perdere anche questo carro, sempre col sorriso stampato sul faccione, basta che non gli rompano i “cabbasisi”. No, questo è quell’altro. Non parliamo di Berlusconi: immediato reimpianto di capelli in nylon color topo, fondo tinta “terra di Siena” a palate e nuova porcellana Rosenthal di un bianco ottico per la dentiera. Subito riaprirebbe le sale di Villa Certosa con il buon Apicella obbligato a staccare la chitarra dal chiodo alla quale l’aveva appesa con la speranza, ormai svanita, di non accompagnare più il Presidente in improbabili esibizioni da chansonnier. Risvolti occupazionali: nuove infornate di olgettine, igieniste dentali e nipoti non più di Mubarak, ma di qualcun altro ugualmente esotico, con il conseguente rilancio di qualifiche professionali da tempo in disarmo.

Non vedo controindicazioni e se la proposta non venisse recepita, indico un referendum propositivo. E’ facile prevedere il raggiungimento del quorum e l’approvazione con percentuali bulgare.



venerdì 23 novembre 2018

In vacanza dal Polo Nord


Lettere e cartoline si ammucchiavano su ogni tavolo del grande capannone sperduto in una lontana valle nelle vicinanze del Circolo Polare Artico. Il variopinto e disordinato paesaggio di monti e colline formato dalle missive provenienti da ogni parte del mondo avrebbe scoraggiato chiunque dal provare a leggerne anche soltanto una parte, ma il piccolo, vecchio Pottaskefill si districava in quell’immensità di carte pescando sicuro un messaggio dietro l’altro come sapesse già cosa avrebbe letto. Le richieste erano le più disparate e variavano di anno in anno, anche se i giochi preferiti rimanevano le costruzioni di mattoncini per i maschietti e le bambole per le femminucce, magari un po’ cambiati per adeguarsi ai tempi. Per il resto dalla A di automobilina, fino alla Z di zainetto, nella fornitura per il 24 dicembre si trovava rappresentata pressoché ogni categoria merceologica.
Babbo Natale si fidava ciecamente del suo collaboratore al quale aveva delegato tutta la parte burocratica del lavoro, riservando per sé il ruolo di “front man” che interpretava con molto entusiasmo ed un pizzico di inconfessato esibizionismo. L’elfo non poteva chiedere di meglio e, più coscienzioso del più pignolo dei ragionieri, organizzava tutto per bene fino all’ultimo atto del caricamento sulla slitta. Da lì in poi stava al principale andare in giro e consegnare la merce in un tripudio di “Oh, oh, oh!!” e scampanellii vari che il solerte Pottaskefill riteneva un po’ troppo appariscenti, al limite del cafone. Ma si sa, Santa Claus, come lo chiamavano negli USA, era stato per molti anni testimonial pubblicitario di una nota bevanda e gli era rimasto qualche atteggiamento americaneggiante che, alle latitudini del Polo Nord, molti trovavano eccessivo. Comunque, come in qualsiasi grande azienda, ognuno svolgeva il proprio compito e tutto filava liscio. Nel regolamento interno del laboratorio era scritto chiaramente che per qualsiasi problema bisognava riferire in ordine gerarchico e pertanto, quando capitò un intoppo, l’elfo, agitando nervosamente le orecchie a punta, si presentò al cospetto del CEO.   
-Capo. – Disse Pottaskefill. – Abbiamo un problema.
-Dimmi, caro. - Rispose con voce baritonale il placido pancione sollevando gli occhi da un catalogo di slitte ultimo modello sul quale stava facendo un pensierino. Era tentato di dare indietro la sua di legno in cambio di un’altra in fibra di carbonio con al tiro un paio di cavalli mustang dalle froge sbuffanti. Troppo figo! In realtà sapeva benissimo che si trattava solamente di un sogno. Non avrebbe mai potuto rinunciare a Rudolph ed alle altre renne alle quali era affezionatissimo.
-E’ arrivata una lettera da un certo…Edo, di sette anni, che non chiede nessun regalo. – Proseguì il folletto.
-E allora, per quale motivo ci ha scritto?
-Ecco, lui dice che quest’anno non vuole Playmobil o Lego, ma gli piacerebbe: ics, ipsilon, zeta.
-Ehh?
L’elfo si tirò gli occhiali sulla punta del naso guardando Babbo Natale da sotto in su. –Esattamente: non si decifra. Chiede qualcosa, ma non capisco cosa. – Il vecchio si dette una grattatina alla barba bianca.
-Dammi qua. – Prese il foglio e l’avvicinò al viso. Nonostante l’età, il vegliardo non voleva ammettere un’incipiente presbiopia e cominciò a manovrare stendendo e ritraendo il braccio per mettere a fuoco la missiva. Dopo un po’ si arrese, inforcò gli occhiali e studiò gli scarabocchi.
-Non afferro neanche io, ma comunque, con tutta evidenza, si tratta di un desiderio. Non possiamo ignorarlo.
-Ok. – Ribatté l’aiutante preoccupato. - Ma che facciamo, cosa gli spediamo?
-Uhm, non so. Credo che ci sia bisogno di un approfondimento.
Era l’unica cosa da fare: qualcuno sarebbe dovuto andare a Roma, dove abitava il bambino, ed indagare. Babbo Natale aveva girato tutto il mondo per lavoro, ma sempre di gran corsa e durante la notte e quindi non poteva certamente affermare di conoscere bene i posti in cui si era fermato. Di slancio prese la sua decisione:
-Vado io a trovare il piccolo e mi farò dire quello che vuole. – Sfruttando l’occasione voleva concedersi un piccolo lusso che pensava di meritarsi: si sarebbe ritagliato una vacanza di qualche giorno per visitare finalmente la Città Eterna. Gli avevano raccontato che era una delle città più belle del mondo, ricca d’arte, di storia e con gli abitanti dalla battuta pronta e pieni di spirito. Voleva togliersi la curiosità.
Risolse facilmente il problema di come incontrare il bambino per chiedergli spiegazioni. Prese il posto di un suo sosia in un centro commerciale ed aspettò che Edo si avvicinasse a lui durante una giornata di shopping con i genitori. Quando lo vide gli fece un cenno con la mano guantata di bianco, poi lo prese sulle ginocchia e, sottovoce, l’interrogò in merito alle sue aspettative per la magica notte. Babbo Natale si chiarì le idee, segnò la richiesta su un taccuino con la copertina rossa e oro, fece una carezza al bambino e, tra lo stupore dei presenti, si alzò dal trono avviandosi verso l’uscita. Prima d’imboccare la porta si fermò nel camerino di uno dei negozi, si tolse velocemente il vestito rosso ed indossò un anonimo giubbotto per non farsi riconoscere. Quindi, finalmente, iniziò la vacanza. Emozionato come da tempo non gli succedeva, si avventurò pieno di entusiasmo e curiosità per le strade ed i vicoli di Roma.
Dopo qualche giorno tornò a Rovaniemi, casa sua.
-Allora com’è andata? Cosa ne pensi della capitale? – Domandò Pottaskefill al capo porgendogli una tazza fumante con un infuso di bacche e licheni. Il vecchio sembrava stanco. Sprofondato nella sua poltrona, appariva pensieroso, quasi triste.
-Ti dirò, caro, tante cose mi hanno meravigliato. La fauna, ad esempio. Io pensavo che i gabbiani vivessero solamente nei pressi del mare, invece ne ho visti tanti appollaiati su grandi scatoloni verdi stracolmi di sacchetti maleodoranti. Poi cinghiali che attraversano la strada, pappagalli esotici sugli alberi, topi, cani e gatti randagi, insomma una giungla incontrollata.
-Davvero?
-Già, ma non è finita. Per le strade sembra di passeggiare sulla Luna: tutti a schivare crateri più o meno grandi col rischio di inciampare e farsi male. Per non parlare del traffico automobilistico. Strade intasate da fiumi di lamiera, clacson e smog, parcheggi abusivi ovunque ed, ogni tanto, un autobus che prende fuoco. Le belle ville comunali e i viali alberati vengono lasciati senza manutenzione e sono pieni di rifiuti, rami caduti o pericolanti e segni di vandalismo ovunque. Ai semafori, ma un po’ dappertutto, un esercito di vagabondi e senza dimora che cercano di rimediare qualche soldo combattendo una guerra tra poveri per accaparrarsi il posto migliore per l’accattonaggio. Zingari che pescano nei cassonetti e poi si rifugiano in baraccopoli da terzo mondo dove non esiste legalità o decenza. Nei caffè si parla solo di come si vive male in città e di quanto ogni cosa sembra andare verso un degrado ineluttabile, senza speranza.
L’elfo era stupito e lo incalzò:
-Allora mi sembra che la Città Eterna non sia poi così bella, giusto?
-Non volevo dire questo. Anzi, è esattamente il contrario, ma è difficile definire la bellezza e la maestosità di Roma. Non saprei descriverti quello che si prova passeggiando per il centro storico o nei quartieri costruiti quando ancora il cemento era al servizio delle persone, e non il contrario. Ti stupisci per ogni marmo scolpito, guardando una delle piccole edicole con l’immagine di una Madonna dipinta, fermandoti sotto ad una fronda di platano che fa da cornice al Tevere. Quando un raggio di sole colpisce la palla del cupolone sembra che dalla sommità della chiesa più grande del mondo partano dardi dorati per colpire il cuore dei turisti. Di sera un vento leggero, il ponentino, asciuga la fronte spazzando via la fatica di chi finalmente si riposa per finire nelle orecchie degli innamorati sussurrando sospiri d’amore. Le tante monetine gettate nella vasca della Fontana di Trevi testimoniano come ogni visitatore perdoni qualsiasi peccato alla Città Eterna sicuro di non dimenticarla. In piedi vicino ad un tavolino di Trastevere, un posteggiatore, fra ‘na fojetta e n’antra, intona uno stornello strappando un sorriso e una lacrima mentre Ninetta bella scivola nel fiume boiaccia.
Insomma, ho avuto l’impressione che Roma ed i romani non si meritino la situazione che stanno vivendo, ed è proprio per questo che sono avvilito.
-E allora?
Babbo Natale ci pensò un po’ e poi rispose al suo aiutante.
-Io porto doni non faccio miracoli, però forse mi potrei far sentire. – Prese carta e penna e scrisse: “Caro Sindaco di Roma, …”
Il buon vecchio aspettò a lungo, ma dal Campidoglio non arrivò mai la risposta. Si consolò considerando che “ab urbe condita” erano trascorsi millenni e che tante amministrazioni si erano succedute, ma Roma aveva vinto sempre contro chi cercava di umiliarla o semplicemente non era in grado di capirla.
Prese una di quelle bolle di vetro con dentro l’acqua e un monumento in miniatura, la rovesciò e su San Pietro cadde la neve.


  

venerdì 19 ottobre 2018

In un piccolo autogrill


In un piccolo autogrill di un’autostrada secondaria, aspettavo seduto al bar che noia e stanchezza scivolassero via dalle mie spalle come le goccioline di condensa dal vetro del bicchiere di una birra gelata. Non mi dispiace viaggiare da solo perché considero quelle lunghe ore sull’autostrada una specie di porto franco tra gli impegni quotidiani. Sono momenti in cui la vita è sospesa, si lasciano un po’ di problemi nel posto dal quale si è partiti in attesa di raggiungerne degli altri all’arrivo, ma c’è un tempo di mezzo dove si possono dimenticare. Confusi nella mandria in movimento, bisogna solo proseguire da casello a casello, seguendo una mappa già tracciata che sicuramente condurrà a destinazione. Stolidi e ignari. Non si deve prendere alcuna decisione, delegando ogni responsabilità alla voce saccente e impersonale di un navigatore che, come un oracolo nascosto nel cruscotto, indicherà la giusta strada. Si va’, in una navicella circondata dalle illustrazioni sempre diverse di un prodigioso atlante geografico variegato dai capricci del meteo e dalle ore del giorno. Regolo l’aria condizionata su un fresco costante e il caldo all’esterno non mi riguarda più, mentre gli scrosci di qualche temporale sul parabrezza scivolano via schiaffeggiati dal tergicristallo. La radio in sottofondo mi accompagna in un trip onirico che soltanto la musica può evocare, e canto come se potessi farmi lo sconto di alcuni decenni della mia età. Qualche nascosta e sopita endorfina si risveglia improvvisamente, sorrido e mi godo l’illusoria parvenza di una felicità drogata. Ma ogni tanto è necessario fermarsi un po’: la benzina, un panino e due passi per sgranchirsi le gambe.
La ragazza dietro al banco mescolava birra chiara e Seven-up. Sembrava molto giovane, con il capo chino ed i lunghi capelli biondi che le nascondevano il viso. Un gesto veloce della mano scostò quel sipario dorato svelando un sorriso di fossette e piccole perle, come in uno di quei poster della pubblicità. Bella di una bellezza acerba ed inconsapevole, con l’aria triste dei fiori che crescono sulle scarpate ferroviarie. Non c’era nessun’altro in quel bar di frontiera e il rumore prevalente era il rombo di qualche TIR di passaggio che trascinava via i miei sogni segreti. Mi sarebbe piaciuto parlarle e vergognandomi, ma solo un poco, mi avvicinai ad un juke-box dove scintillavano cd con copertine che non mi dicevano niente per mettere un brano che non conoscevo. La colonna sonora mi sembrava indispensabile per una sceneggiatura da telefilm. Picchiettando sulla corazza del mostro sputa note, aspettavo di decidermi. Nel gioco avrei voluto dirle:
-Non so come cominciare: non la vedi, non la tocchi oggi la malinconia? Non lasciamo che trabocchi, vieni andiamo, andiamo via. – Di colpo il disco finì e nell’aria rimase solo il rumore dell’acciottolio delle tazzine e dell’acqua nel lavello. La porta dell’autogrill si aprì e entrarono due turisti tedeschi: sandali Birkenstock e gote rubizze. In un attimo, come accade spesso, cambiò ogni cosa. Mi accorsi delle tendine di nylon rosa e delle sue unghie con lo smalto sbeccato.
-Quant’è? – chiesi. Pagai, lasciai la mancia, presi il resto e me ne andai.  

venerdì 12 ottobre 2018

Tornanti


Sarà stata la centesima sigaretta che si accendeva per poi spengerla dopo poche boccate. Non gli andava di fumare, ma tantomeno voleva pensare, e quel gesto ripetitivo ed inutile contribuiva a distrarlo dalla sua ossessione. La macchina correva lungo i tornanti sconosciuti per non perdere l’appuntamento che avrebbe potuto cambiare il suo destino. Quel viaggio nella notte rappresentava bene la sua vita: sempre avanti senza sapere cosa ci fosse dopo una svolta, nel buio, accompagnato dalla solitudine e col cuore in gola. Ma forse tutto questo stava per finire.  Aveva fretta, nei brevi tratti di rettilineo spingeva sull’acceleratore e poi frenava bruscamente quando si presentava la curva successiva. Sapeva di rischiare, ma in qualche modo doveva dare sfogo all’adrenalina che aveva in corpo. Sulla provinciale non c’era illuminazione pubblica ed il fascio dei fari nell’oscurità bucava con violenza il nero compatto che sembrava volesse inghiottirlo. Teneva gli abbaglianti sempre accesi e il motore a pieni giri, con lo sguardo fisso e quasi febbrile oltre il parabrezza, per poi rallentare di colpo con la mano sulla levetta delle luci quando gli capitava di incrociare qualche rara autovettura che sopraggiungeva in senso inverso.
Da Zà Mariuccia, si erano detti per telefono, e improvvisamente gli erano esplose nella mente mille immagini di un tempo passato, in un caleidoscopio fatto di una felicità piena di dolore. La gioia era nel passato e la pena la stava vivendo da allora, ma quell’incontro poteva ridargli quello che non osava neanche sperare. Sapeva cosa avrebbe dovuto dirle e quello che lei si aspettava di sentire e, a bassa voce tra il rombo del motore, le parlava con le parole che mille volte si era rimproverato di non averle mai detto. Ricordava quando, un anno prima, proprio sulla terrazza di quel ristorante, si erano tenuti per mano incuranti della gente attorno. Piccole onde sciabordavano sulla banchina del porto sotto di loro, la luna pennellava d’argento il blu intenso del mare e una leggera brezza trasportava odori di salmastro e voci lontane. Ma per loro non esisteva altro che quel tavolino quadrato dove un mondo di speranze li avvolgeva come un sipario che escludeva ogni altra platea di spettatori. Un cameriere gli chiese se volesse ancora vino, ma lui era già ebbro anche da sobrio mentre la sera scivolava verso una notte che non avrebbe più dimenticato.
Pensava e immaginava, sperava e pregava, fremeva e desiderava, al volante dell’auto lanciata nell’oscurità. Forse si distrasse. Improvvisamente: il riflesso dettato dallo spavento, lo stridio delle gomme sull’asfalto, l’auto che girava su se stessa e poi la sensazione che fosse finita. La macchina andò a sbattere contro un paracarro ed arrestò la sua corsa. Il motore ruggì, sbuffò e tacque mentre, per inerzia, l’ammasso di rottami si mosse scivolando su una piccola scarpata ai lati della carreggiata.
Uscì dall’abitacolo pressoché incolume. Solo qualche livido e un forte mal di testa. Si portò subito la mano sulla tasca per cercare il cellulare. Doveva dare l’allarme per l’incidente, ma soprattutto doveva avvertirla che avrebbe tardato, che l’aspettasse. Non trovò il telefonino, l’aveva perso. Cercò sul sedile e poi intorno alla carcassa dell’auto, ma senza risultato. Era isolato, lungo una strada poco frequentata e distante da ogni centro abitato. Aveva calcolato che per arrivare a Maratea ci sarebbe voluto ancora almeno mezzora di macchina e quindi a piedi come minimo tre ore. Se ce l’avesse fatta. Nel frattempo lei l’avrebbe chiamato senza ricevere risposta. Probabilmente avrebbe atteso seduta al ristorante spilluzzicando qualcosa ed evitando lo sguardo pietoso dei camerieri verso una donna che sedeva da sola in un tavolo apparecchiato per due. Ma dopo aver fatto finta di mangiare per ingannare il tempo, si sarebbe alzata credendo che lui si fosse comportato come l’ultima volta quando l’aveva lasciata senza una spiegazione, per non farsi più sentire. La immaginava sbattere il tovagliolo sulla tavola ed allontanarsi con lo sguardo fiero che ben conosceva dove lampeggiava un “mai più” rivolto ad una storia che si era illusa di poter riaccendere.
Rassegnato, faticosamente risalì il terreno scosceso per raggiungere la strada. Si sedette su un pezzo di guard-rail in attesa di vedere qualche macchina o per trovare la forza di mettersi in cammino verso il paese. Che senso aveva ancora Maratea, a che serviva il mare e la fredda luna se lei non c’era più? Si sentiva solo, in una notte priva di ogni significato. Si guardò intorno, ma non c’era nessuno. Poi alzò lo sguardo verso il monte che dominava quel tratto di costa. La parete incombeva oscura e severa perdendosi verso l’alto a monito di chi avesse avuto la presunzione di sentirsi poco più di niente in confronto alla maestosità della natura. Nuvole basse sfumavano il contorno della vetta nascondendo la fine della montagna come se la sommità si perdesse dritta nell’infinito. Lontano, ammantato da veli di vapore, un Cristo benedicente illuminato dal basso, col capo chino, sembrava guardarlo con pietosa compassione. Bianco, nella fissità della pietra, prendeva vita a seconda delle ombre che le nuvole spinte dal vento facevano scorrere sul suo volto.  Lo vide e provò una consolazione inaspettata. Non era mai stato particolarmente credente, ma forse tutte le preghiere che negli anni avevano raggiunto quell’immagine di Dio, in qualche maniera gli avevano dato la forza di rispondere a chi si rivolgeva a Lui. E allora, anche lui gli indirizzò l’invocazione più semplice: aiutami!
Non passò nessuno ancora per molto tempo. Si avviò da solo verso il paese, ma ormai l’estate era finita.



giovedì 27 settembre 2018

Il padre della sposa


La prese per mano sussurrandole parole scherzose. Aveva visto che era nervosa e cercava di rendere quel momento più lieve, di distrarla. Per quanto lo riguardava, faceva finta che quei passi sul prato fossero solo una passeggiata come un’altra con al fianco sua figlia vestita di bianco. Poi, finita la cerimonia, iniziò la festa e la sposa prese il microfono per cantare una canzone a quell’estraneo che per un semplice “si” improvvisamente era diventato suo marito. Non era la prima volta che interpretava quel brano, ma in quel momento fra le note vibrava un’emozione forte, un accento di sincerità. Il padre notò soprattutto lo sguardo che sua figlia rivolse al marito. C’era amore in quel canto ed una dedica che, attraverso parole in un’altra lingua, sgorgava dritta dal cuore per perdersi nell’oscurità della notte.  Voleva arrivare nelle orecchie del suo amato, ma colpì la sensibilità dell’anziano genitore che in disparte assisteva allo spettacolo. Per darsi un contegno e soffocare lo tsunami che si sentiva dentro, il padre della sposa si accese un grosso sigaro con un’attenzione del tutto superflua. Il fumo, al quale non era abituato, gli diede l’alibi per avere gli occhi umidi e qualche colpo di tosse coprì la sua voce un po’ strozzata.
-Se potessi lo metterei sotto con la macchina. – Confidò, a bassa voce, al suo amico Massimo. –Sono geloso. Si, lo so, abbiamo due ruoli diversi e lei sicuramente vuole bene anche a me oltre che a lui, seppure in maniera diversa. E’ giusto così e non potrebbe essere diversamente. Ma lo ammazzerei, e non è detto che non lo faccia. -  L’amico lo guardò come se fosse impazzito o avesse bevuto troppo.
-Che stai dicendo? Dovresti essere felice che tua figlia sia tanto innamorata. – Disse Massimo. -Tu sei il padre, non puoi competere con l’amore romantico di una giovane donna per un ragazzo della sua età. Non sarebbe giusto, è nell’ordine naturale delle cose che una figlia si sposi e lasci la famiglia nella quale è cresciuta. – Come risposta a quelle parole, il saggio amico ricevette un’occhiataccia carica d’odio da parte di un uomo che in quel momento aveva abbandonato ogni tipo di razionalità.
-Ma certo che sono contento, altrimenti non avrei approvato questo matrimonio. Credo che il mio consenso sia il regalo più grande che ho fatto a mia figlia, seppure lei non se ne renda conto. Ho visto che lei lo voleva, con tutto il suo cuore, ed io non mi sono opposto alla sua speranza di felicità. Speranza che le auguro si avveri, sinceramente. Quasi, sinceramente. Perché, lo confesso, vorrei che si lasciassero domattina. Mi piacerebbe che lei venisse da me in lacrime dicendo di essersi resa conto di aver fatto un errore e di voler annullare tutto.
-Sei pazzo.
-Pazzo, non lo so. Disturbato, sicuramente. Scosso da questa gelosia che non so soffocare e che mi tengo per me. E’ un brutto sentimento la gelosia. Denota voglia di possesso, mancanza di sicurezza in se stessi, l’istinto che prevale sulla ragione. Tutto giusto, però…c’è.
Massimo non lo capiva, o forse non voleva dare importanza a parole che il vino aveva messo in libertà. Mise una mano sul braccio dell’amico per richiamare la sua attenzione.
-Vai, ti chiama per ballare con te, con suo padre.
-Non voglio andare. Lo fa solo per consolarmi, è quasi un abbraccio d’addio: non lo voglio fare. E poi non voglio che si accorga di quello che sto provando.
-Non fare il cretino, vai. E’ solo un ballo con la sposa, un gesto d’affetto.
-Hai ragione tu. – E strinse fra le braccia quella bambina come l’aveva stretta a sé quando gliela porsero appena nata.
Il padre continuò a ridere per tutta la durata del ricevimento, con una finta aria di superiorità, come fosse una festa qualsiasi. Quando suo genero gli andò vicino, lo abbracciò ipocritamente, sentendosi come un Giuda che speri di vedere un manipolo di sbirri arrivare improvvisamente per portare via l’intruso.
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Adesso, a distanza di tempo dal matrimonio, confermo che la gelosia nei confronti di una figlia è del tutto irrazionale e assolutamente non giustificabile. Lo so, non ha senso e dovrei riconoscerla come un sentimento indegno per un padre saggio e benevolente. Sono d’accordo e mi adeguo. Ma se, inaspettatamente, al bravo ragazzo arrivasse un’offerta di lavoro da uno studio di Helsinki e se a mia figlia, contemporaneamente, capitasse di incontrare il CEO di una grande azienda con sede a New York che la volesse come collaboratrice, io non me ne dispiacerei. Comunque mi riprometto di soffocare la mia parte irrazionale con tutta la buona volontà necessaria, anche se non consiglierei a mio genero di attraversare la strada mentre sto arrivando con l’auto. Così, per prudenza.


giovedì 20 settembre 2018

Stocastico


Stocastico è il modo di vivere quotidiano per ognuno di noi. Stocastico è quando si attraversa la strada e si raggiunge il marciapiede opposto. Stocastico è il colpo al cuore per un’emozione inaspettata. Stocastico è un buon affare. Stocastico è un colpo di vento che fa volare l’ombrellone. Stocastico è uno sguardo che riesce a vederti. Stocastico è un gesto gentile. Stocastico è un amico che tradisce. Stocastico è lo sgambetto mentre stai in fila. Stocastico è uno squarcio di sereno nel cielo. Stocastico è il suono della sveglia al mattino. Stocastico è un dolore che passa. Stocastico è un parcheggio. Stocastico è un fine settimana in campagna. Stocastico è il consiglio di chi non ti conosce. Stocastico è il capo piegato per una preghiera. Stocastico è l’ascensore al piano. Stocastico è un bel colpo giocando a golf. Stocastico è un full a poker. Stocastico è se hai fatto bene o se hai fatto male, non cambia. Stocastico è il pugno per chi si trova a passare. Stocastico è un battito del cuore che segue un altro. Stocastico è l’impazzimento di una cellula che rovina la vita. Stocastico è un nuovo nipote. Stocastico è un vicolo dove non passavi da anni. Stocastico è un numero al lotto. Stocastico è un incontro alla cassa del supermercato. Stocastico è il ritornello di una canzone degli anni sessanta. Stocastico è un biglietto omaggio. Stocastico è un sorriso. Stocastico è fermarsi proprio su quella panchina. Stocastico è riconoscersi nello specchio alla mattina. Stocastico è quello che si dimentica. Stocastico è una consolazione alla propria incapacità. Stocastico è: “inch’Allah”.
 Stocastico è rendersi conto che tutto è stocastico e che solo l’affermare: “stocastico!” consente di andare avanti.

venerdì 31 agosto 2018

Una stella in pericolo



Una stella è in pericolo! E noi cosa possiamo farci? Intanto, ad esempio, prenderla tra le mani e soffiarci sopra, oppure spingerla piano piano verso la via lattea. Ma, in fondo cosa c’importa? Si tratta solo di un puntino luminoso all’orizzonte, una scia nella notte di San Lorenzo o un brilluccichio perso tra mille. Ma a lei rivolsi il mio desiderio, a lei affidai una speranza che sapevo vana e con lei sparii inghiottito dalla notte. Su di lei immaginai di camminare quando, da piccolo, puntavo il naso all’insù e sentivo la brezza della notte confondersi col rumore del mare. Con lei provai un senso di fastidio quando vidi le immagini ingrandite dei telescopi scoprirne ogni ruga rivelando un volto che sarebbe dovuto rimanere velato da una trina intessuta di mistero. La ricordo quando mi venne a trovare attraverso la finestra della mia camera. Si affacciò discreta e meravigliosa, chiedendomi perché ero triste, ed io mi sentii solamente un po’ meno solo e le parlai. Una volta la insultai, ma lei pianse con me, le diedi un nome che ero certo fosse sbagliato e bevvi dalla sua luce. Vidi facce sulla sua superficie, mi sorrise, fece una smorfia ironica, ed io la perdonai perché non capiva. Poi scrutai la mia ombra sul terrazzo con lei che imitava il sole e la calpestai per vedere se avrebbe condiviso un po’ di dolore. La stella rideva di me, di noi, del mondo e del tempo, in un buio dove non arrivano suoni né lamenti. E adesso è in pericolo, non so quale, ma la vedo: non sembra la stessa. O forse sono i miei occhi che hanno perso la voglia di sognare.

mercoledì 22 agosto 2018

La mamma di Luca


Il piccolo Luca prese un quaderno a quadretti, il righello e una matita. Fece delle righe orizzontali per tutta la larghezza del foglio, poi contò quattro quadratini e ne fece un’altra. Proseguì nello stesso modo fino alla fine della pagina e dopo ruotò il quaderno per tirare altre righe perpendicolari alle precedenti. Si fermò a rimirare il suo lavoro e quindi cambiò penna. Prese quella rossa per dare più importanza a quanto si apprestava a scrivere. Cominciò con il quadratino in alto sulla sinistra e ci scrisse un bell’”1”, su quello adiacente vergò un “2” e così via per tutti i successivi fino ad arrivare al numero “101”. Aveva riempito svariate pagine ed improvvisamente pensò di aver sbagliato tutto perché forse su un foglio protocollo avrebbe potuto riunire tutti i numeri, ma fu solo un breve ripensamento. Il lavoro andava bene così e Luca ne fu soddisfatto. Quel giorno, il 15 settembre, a scuola era andato tutto storto. Il maestro l’aveva visto giocare sotto al banco con una macchinetta e gliela aveva sequestrata; a “inglese” non aveva saputo rispondere alle domande e, per finire, a ricreazione aveva litigato con uno di un’altra classe rimediando un calcio nello stinco che ancora gli faceva male. Tornato a casa raccontò tutto alla madre e si aspettava un rimprovero, forse uno scappellotto, ma non era preoccupato: sapeva come farsi perdonare. Invece rimase stupito quando la mamma, guardandolo con occhi tristi, gli fece una carezza sui capelli e poi si mise a piangere davanti a lui. Non pensava di aver fatto cose tanto gravi, e lei glielo confermò: “Non ti preoccupare, piccolo, non è causa tua. Mamma è solo stanca, non ci fare caso.” Ma a lui si strinse il cuore e tutta la malinconia del mondo si riversò sulle sue gracili spalle. Si chiuse nella sua cameretta ed era talmente triste che non gli uscì neanche una lacrima per sfogarsi un po’. Prese il suo soldatino preferito e si stese sul letto. Guardando il soffitto, pensò tanto ed alla fine gli venne una buona idea. Non gli importava dei piccoli problemi a scuola o con gli amici, ma in qualche maniera voleva aiutare la mamma e farle tornare il sorriso. Non sapeva bene cosa fare, almeno fintanto non fosse cresciuto abbastanza per difenderla contro tutti, però forse poteva chiedere aiuto. Si mise alla scrivania e completò quel lavoretto. Il giorno dopo, il 16, avrebbe fatto una grossa “X” sul riquadro numero 1 e poi i giorni successivi avrebbe barrato gli altri in fila fino a quando fosse arrivato all’ultimo. Il 101 avrebbe coinciso con il 25 dicembre ed era sicuro che chi portava i regali gli avrebbe letto nel cuore esaudendo il suo più grande desiderio. Quelle lacrime non voleva più vederle.

giovedì 26 luglio 2018

una piccola brace


Una piccola scintilla, sottesa nella polvere di un camino. Sembra aspettare un soffio che la ravvivi, mentre si nasconde per sfuggire al tempo che inesorabilmente la consuma. Seduto di fronte al camino, nella penombra della stanza, cerco con gli occhi il fievole bagliore che mi racconta della sua vita e di tante esistenze come la sua. Nel palpitare sommesso del tizzone rivedo l’entusiasmo e la speranza, ma anche la vacuità e l’illusione. Sotto la cenere occhieggia e si riaccende come se avesse ancora la voglia forte di divampare senza riuscire a trovarne la forza. Si sta affievolendo, la piccola brace, però vedo che non vuole andare, ed allora la pungolo con l’alare di ottone e la sostengo con un altro zeppo e qualche foglia secca. Improvvisamente si rianima, riprende vigore e cerca di tornare la fiamma di un tempo, ma è solo una vampa passeggera che si esaurisce nello spazio di un ricordo. Eppure non muore. Sotto l’impalpabile coperta di una polvere di velluto, resiste e si nasconde, aspetta e non cede. Spera che l’alito di un mantice misericordioso le fornisca la forza per sprigionare ancora un ultimo bagliore nell’antro sempre più oscuro che la vide prima timida, poi spavalda ed ora irresoluta. In quel tenace piccolo carbone ardente rivedo la mia età che non vuole arrendersi al tempo che passa. Con sulle spalle il manto grigio di una cenere testimone di tanti passati falò, la pepita di fuoco non può più competere con le fiamme vivaci, ma non cede. L’ultima lingua rossa mostrata al mondo, varrà come lo sberleffo finale di chi ha provato a donare un po’ di calore, per quello che ha potuto.

venerdì 6 luglio 2018

La Regina della Querceta


La Regina della Querceta camminava lenta e solenne, tronfia e consapevole del suo ruolo e dell’importanza che rivestiva tra i suoi simili. Che fosse bella glielo ripetevano ogni giorno e più si lasciava massaggiare, curare ed accudire, maggiormente cresceva la sua vanità con l’alterigia propria di una stella in un firmamento di comprimarie. Aveva partecipato a tanti concorsi di bellezza e quasi tutti li aveva vinti con facilità, ma era proprio quel “quasi” che la indispettiva e la rendeva irrequieta. Come nella famosa favola, ogni tanto si specchiava in qualche vasca o laghetto e chiedeva rivolta alla sua immagine: “chi può competere con la mia leggiadria?” E si dava da sola la risposta, sempre la stessa e con sempre più acredine: “Gioia del Trogolo, quella fanatica presuntuosa!” In realtà erano i giudici delle varie competizioni che, talvolta, avevano preferito l’altra a lei, ma per la Regina questo era inconcepibile ed avrebbe fatto di tutto per eliminare la rivale. Lo stesso proposito albergava nell’animo del suo padrone, ma anche in quello del proprietario della Gioia, che ormai da anni si sfidavano in tutte le mostre di bestiame per avere l’onore di essere riconosciuti come i migliori fra gli allevatori e gli orgogliosi possessori della scrofa campionessa.
Il Conte della Berardesca aveva subito riconosciuto nel maialino appena partorito i prodromi di un esemplare eccezionale che avrebbe potuto dargli tante soddisfazioni. Già il peso prometteva grandi cose. Mentre gli altri suinetti venivano al mondo di due/tre chili, “lei” si era presentata sulla bilancia sfoggiando ben sei chili e otto. Inoltre era rosa, compatta, proporzionata e con un vezzoso codino a ricciolo, in sostanza: una regina, e così il conte la chiamò aggiungendo il patronimico della tenuta di famiglia. Per infausta combinazione, nella proprietà del Barone Grisolfi, quasi in contemporanea, la vecchia scrofa di casa sfornava una cucciolata di piccoli grufolanti tra i quali se ne distingueva uno particolarmente avvenente, ovviamente secondo i parametri della bellezza suina. La neonata era il triplo degli altri e si era da subito appropriata della mammella della madre per soddisfare un appetito fuori dal comune e poter ingrassare a dismisura. Il Barone riconobbe a prima vista il carattere e l’ambizione propri di una fuoriclasse, sempre mirata ad eccellere con spirito di sacrificio ed abnegazione, e prese la maialina sotto la sua paterna protezione. Queste due nascite eccezionali si innescavano su una diatriba ormai secolare che contrapponeva le casate dei nobiluomini fin dai tempi più remoti. Avevano entrambe partecipato alle Crociate e se una si era impossessata di un frammento della Croce, l’altra si vantava di possedere la tovaglia originale posata sulla tavola dell’Ultima Cena. Ai tempi delle esplorazioni, i signori della Berardesca si spinsero fino al Polo Sud, ma l’uovo di pinguino che riportarono come testimonianza fece una brutta fine scambiato da un servitore imprevidente per una leccornia da presentare sul desco sotto forma di frittata con le patate. I Grisolfi ne risero, ma anche sulla loro spedizione alle sorgenti del Nilo sorse qualche dubbio. Al ritorno esibirono solamente delle lastre fotografiche sbiadite che rappresentavano delle rapide assolutamente anonime e senza alcun riferimento geografico. Uno della Berardesca, particolarmente maligno, insinuò addirittura una certa somiglianza di quei paesaggi supposti africani con le cascate delle Marmore. Insomma, la guerra per la supremazia tra le famiglie non aveva mai conosciuto armistizio e si perpetuava da una generazione all’altra. Ai giorni nostri, essendo in disuso giostre e tenzoni, lo scontro avveniva principalmente in occasione delle Fiere agricole dove la voglia di prevalere prendeva a pretesto un po’ di tutto, dalla zucca elefantiaca alla pannocchia con più chicchi, fino a sfidarsi sugli animali da primato.
-Non ti angustiare. – Disse il Conte alla Regina. – Per la prossima competizione a Vitorchiano sarai in splendida forma e vincerai a mani, scusa: zampetti, bassi. Non c’è gara, basta che mantieni inalterato l’appetito. Ricorda il motto della casata, mia ma anche tua: « Maxime omnium », ovvero: più di tutti, e tu così devi mangiare. – Ma l’espressione del nobiluomo contrastava con le sue ottimistiche parole. L’allevatore era preoccupato, aveva notato che sul fondo della mangiatoia erano rimaste due secchiate abbondanti di pappone e questo non rientrava nelle abitudini della sua scrofa. Anche gli occhi dell’animale, piccoli ma espressivi, sembravano quasi velati, come se in quel capoccione si aggirassero pensieri estranei al normale corso delle sue giornate. Fino ad allora era bastato il rumore del secchio sbattuto sulla vasca per far accorrere la Regina pimpante ed avida, e non c’era errabonda patata che potesse sottrarsi al suo impeto predatorio. Ma da qualche giorno appariva svogliata, con la testa fra le nuvole. « E’ la primavera. » Pensò il Conte, e con un ultimo cenno d’incoraggiamento verso la sua protetta, si avviò verso la casa padronale dove contava di immergersi nella lettura di « La Psicologia dei maiali non umani. » testo fondamentale per la comprensione dei suini, nell’accezione bestiale del termine.
I giorni scorrevano, la Fiera si approssimava, ma la situazione non mostrava segni di miglioramento. La scrofa continuava ad ostentare un mood esistenzialista, dove la malinconia aveva preso il posto della consueta giovialità. Durante il giorno girellava un po’ per l’aia, ma con l’atteggiamento distaccato di chi aveva capito che la vita è tutta una farsa dove zotici contadini possono gratificarti con coccarde colorate a volontà, ma niente veramente conta nell’economia del creato. Il nobile della Berardesca si era adoperato per risvegliare l’interesse della scrofa tentandola con ogni tipo di mangime possibile e provando addirittura ad imboccarla: senza esito. Lei sembrava aver aderito alla filosofia di Henri Chenot: ingurgitava solo il tot di calorie sufficienti per non scivolare nel deliquio, senza indulgere ad altra tentazione.
Finchè un giorno, mentre stava tornando dal recinto dei maiali verso casa, il Conte non si accorse di un odore particolare che sovrastava il profumo delle Cariopteris e delle Violaciocche.
-Oilà ! - Si disse – Quest’olezzo non si può certamente definire gradevole, eppure sento l’acquolina in bocca e lo stomaco che brontola. Voglio scoprire da dove provviene. – Come un cane da caccia, mise il naso in favore di vento e seguì la scia che, nell’appropinquarsi al confine della prorpietà, diventava sempre più intensa. Quale fu il suo stupore, una volta uscito dal cancello principale, notare addossato al muro di cinta un baracchino avvolto in una nuvola di fumo. Si avvicinò e vide che il gestore dell’attività commerciale ambulante stava arrostendo su un fornello da campo un assortimento di salcicce, costolette e braciole. Dallo sfrigolio delle carni si levava il classico ed irresistibile profumino che induce anche i più riluttanti a sontuose merende e spuntini al limite della lussuria. Il Conte ebbe un’improvvisa folgorazione. Capì che la sua Regina, tanto sensibile e perspicace, aveva da lontano avvertito l’odore e si era in qualche modo immedesimata nel destino dei suoi simili meno fortunati, cadendo in depressione. Come il più battagliero dei suoi antenati, il nobiluomo lanciò un grido di guerra e scacciò con maleparole lo stupito norcino che, avendo paura di opporsi a quel pazzo invasato e urlante, in tutta fretta avviò il motore del furgone allontanadosi verso piazze più accoglienti.
Gioia del Trogolo già si sentiva la coccarda della vincitrice appuntata sul collare, ma dovette rimandare le sue ambizioni quando vide la Regina della Querceta entrare nel recinto di gara alla Fiera, più grassa e ballonzolante che mai.

giovedì 28 giugno 2018

Claudia


Claudia si guardava allo specchio e vedeva una ragazza esile, gracile, piccola e magra. Si sentiva come un fuscello in balia di ogni colpo di vento, sballottata e sospinta senza la possibilità di opporsi. Scrutava il suo viso scavato, si guardava negli occhi sempre cerchiati da un’ombra scura e con la forza di volontà spazzava via il riflesso della disperazione per sostituirlo con una scintilla di speranza. Tutte le mattine si impegnava per mettere insieme l’energia che le consentisse di iniziare la giornata, e lo sforzo di trascinare giù dal letto prima una gamba e poi l’altra la lasciava sfinita come se avesse compiuto un’impresa sportiva al limite delle sue capacità. Eppure mangiava, forse anche troppo, ma era come se tutto l’attraversasse senza aggiungere niente alle sue braccia sottili come stecchi ed ai sui suoi fianchi puntuti e sporgenti. Anche la pelle era diafana, quasi trasparente, una sorta di carta velina che a malapena avvolgeva un delicato organismo che sembrava vivere automaticamente, fragile ma determinato. A volte s’immaginava come una di quelle creature marine fatte di gelatina: un insieme traslucido di cellule attraverso le quali si può vedere un piccolo cuore pulsante e qualche liquido vitale fluire da una parte all'altra di un corpo senza scheletro. Lei si sentiva così ed avrebbe voluto essere sostenuta dagli altri, o quantomeno capita nella sua immane fatica, ma il muto grido d’aiuto che solo i suoi occhi lasciavano trapelare, veniva ignorato per superficialità o egoismo. Le persone che incontrava, i suoi pochi amici ed addirittura i suoi genitori vedevano solo il suo corpo ai limiti dell’obesità, la rimproveravano per il suo peso ormai sopra i cento chili e non riuscivano a parlare con l’altra Claudia, minuta ed indifesa, che albergava dentro di lei. La prendevano in giro. Lei ne soffriva, ma non replicava mai perché sapeva quanto sforzo costasse a quella piccola se stessa accettare di mostrarsi grossa e sgraziata, mentre la realtà era del tutto differente. Quasi compativa chi le rivolgeva maleparole perché il poveretto non si rendeva conto di insultare solamente l’involucro di una persona momentaneamente nascosta, racchiusa come una crisalide in un bozzolo del quale prima o poi si sarebbe liberata. I momenti più difficili li passava a scuola. Ormai si era abituata ai soprannomi e gli scherzi dei compagni la ferivano solo di striscio. Claudia si raccontava che non le importava di non avere un ragazzo come tutte le sue amiche o che nessuno la invitasse ad uscire il sabato sera, ma non poteva impedire, ogni tanto, di compatirsi un po’ versando qualche lacrima. Ma le passava presto, andava a sciacquarsi la faccia in bagno e sopra al lavandino incontrava il suo viso dalle guance paffute, ma poi, come in una dissolvenza cinematografica, quell’immagine pian piano svaniva per lasciare il posto all’altra lei. E si sorrideva riconoscendosi.

-Sei una balena, grassa e stupida. Non ti vuole nessuno! – Quella che aveva pronunciato queste parole era la sua migliore amica? La sola con la quale si era lasciata andare a qualche confidenza e che credeva le volesse almeno un po’ di bene? Claudia, per la prima volta in vita sua, fu accecata dall’ira. Le vennero su tutti i rospi ingoiati, tutte le umiliazioni subite e le mille quotidiane frustrazioni. Sollevò il braccio ben tornito, lo stese portandolo dietro la schiena, aprì la manona e, piegandosi per prendere maggiore slancio, tirò uno schiaffo in pieno viso all’altra ragazza. Quella si mise a piangere dolorante e stupita, ma Claudia improvvisamente rinacque. Si rese conto che in lei c’era la forza per reagire alle cattiverie degli altri ed anche alle difficoltà della vita. Acquistò fiducia in se stessa e sfidò il mondo. Da quel momento cominciò a dimagrire abbandonando il suo corpo in sovrappeso per portare alla luce l’altro nascosto. In realtà la nuova Claudia non rispecchiò mai esattamente quella che lei si era immaginata, ma al fidanzato questo non importava minimamente.

Come Claudia c’è anche il conducente di autobus che appena può prende un microfono per cantare e il signore oltre la sessantina che non riesce a soffocare il ventenne nascosto dento di sé; la signora che ripete davanti allo specchio le parte di Giulietta; il bancario che di notte scrive poesie; chi lascia l’ufficio per fotografare un tramonto; quelli che si travestono da biker e poi si sfilano l’anello col teschio per indossare la cravatta; chi sa tutto sulle carote “julienne” ma non sa cucinare neanche un uovo; coloro che abitano in centro coltivando il basilico sul balcone e chi cambierebbe subito Magliano con Manhattan. E chissà quanti altri.

lunedì 21 maggio 2018

“OMICIDIO, DISSE.” (Giallo in pillole per lettori svogliati. Un dose al giorno per una settimana.)


Pillola n. I



-Non ci vengo! Ho detto che non ci vengo e non ci vengo!

-Non fare il bambino. In fondo si tratta solo di una “vernice”, come mi ha detto Sandra, mica ti mangiano. – Vittorio non ci voleva andare per nessun motivo. Sapeva che in occasioni come quella si radunavano pseudo intellettuali e sbafatori di professione che, con la scusa di intervenire all’evento, facevano man bassa del buffet e lui non voleva mischiarsi a nessuna delle due categorie.

-Lo sai che con lei siamo state in banco insieme per tutte le elementari e le medie. – continuò la Kathia cercando di convincere il marito. – Poi Sandra ha frequentato il Liceo Artistico di via Ripetta a Roma ed è diventata un’artista di fama. Questa è la sua prima mostra dalle parti dove è nata, mi ha invitato ed io non posso mancare. - Ma Vittorio non voleva sentire ragioni, saldo sulle sue opinioni come raramente gli capitava. Per dipiù quando si scaldava abbandonava l’italiano ingarbugliandosi in un toscano stretto che contraddirlo diventava un problema.

-Un ci vò andare, maremma maiala! E un ci dovresti andare neanche tu che poi te tu ti trovi fori posto, maremma gane, voi venì a insegnà a me ‘ome si ‘oce la ‘arne! – E quella fu l’affermazione dirimente che fece decidere la Kathia. Vittorio glielo voleva impedire? Ovviamente lei sarebbe andata.

-Se te tu sei un orso marsicano, io no. Vado da sola: è deciso. - Così la Kathia, nei feriali parrucchiera nel borgo di Carige, si acchittò al meglio ed in una sera d’inizio estate prese il cartoncino d’invito con scritto sopra il suo nome a caratteri svolazzanti ed imboccò l’uscio di casa. Si sentiva eccitata e dispiaciuta allo stesso tempo. Non era sicura che si sarebbe divertita ed avrebbe preferito uscire insieme a Vittorio, ma un po’ per tigna e soprattutto per non dispiacere l’amica, sentiva di aver preso la giusta decisione. Quando lei scese le scale dalla camera da letto, Vittorio, sbracato sul divano nel salotto al pian terreno, fece finta di niente con lo sguardo fisso sulla televisione, come se fosse effettivamente interessato a quello che Lilli Gruber stava dicendo ai suoi ospiti. Senza voltare la testa storse la pupilla ai limiti del possibile, fino ai confini dell’occhio, per sbirciare come la moglie si fosse vestita. Gli parve d’intravedere un pizzo esposto fuori luogo e stava per balzare in piedi ruggente, ma l’amor proprio vinse sulla gelosia, il maschio evoluto e moderno prevalse sul cavernicolo e lui fece lo svedese non proferendo sillaba.

-Ciao. - Disse lei.

-Ciao. - Rispose lui e, rimanendo ciascuno fermo nella sua convinzione, per quella sera si separarono.

La mostra collettiva si teneva nei locali di Palazzo Colacchioni, il Castello di Capalbio, ed aveva come tema: “Vedute dell’anima” che, come tutti i titoli che dovevano fare da cappello ai generi più disparati, non significava niente, ma suonava bene. Sandra Perotti era forse la più conosciuta fra i sei artisti invitati, e questo dice abbastanza sul livello dell’esposizione. Il florilegio di stili spaziava dal realismo di stampo classico fino al futur/astatt/cub,ismo con sprazzi di arte concettuale e proposte fuori di ogni classificazione. Uno degli artisti esponeva una scala fissata sul pavimento, con tanto di corrimano, che sembrava condurre verso un’inesistente sottosuolo. Quando qualcuno chiedeva l’intrinseca motivazione dell’opera, l’autore spiegava che…bah: una marea di balle, ma molti alle sue parole assentivano seriamente come se essere presi in giro fosse il prezzo da pagare per apparire acculturati. La Kathia, dopo aver mostrato l’invito all’ingresso, entrò nelle sale della mostra con la titubanza tipica di chi non è avvezzo alle riunioni culturali. La sua insofferenza era inoltre accresciuta dal disagio di dover camminare su un paio di scarpe con il tacco spropositatamente alto e fasciata in un tubino nero che le era stato consigliato come un passe-partout per ogni occasione, ma che forse rivelava più di quanto lei avrebbe voluto.

-Kathia! – Si sentì chiamare.

-Sara! Che piacere rivederti. E poi qui, congratulazioni. Sapevo che ormai eri diventata un’artista famosa, ma addirittura una mostra…sei grande!

-Maddai, è solo una collettiva, troppo devo ancora faticare per affermarmi. Comunque mi fa un enorme piacere rivederti. Vieni, ti mostro le mie opere. – Kathia seguì l’amica attraverso le sale già discretamente piene di visitatori e si fermò con lei nell’ultima stanza. Non se l’aspettava. Improvvisamente la parrucchiera di Borgo Carige comprese cosa significasse “arte”. I quadri dell’amica erano delle composizioni di forme e colori che, per qualche misteriosa magia, l’emozionavano, evocavano in lei remote sensazioni, quasi la commuovevano. Alcune tele rappresentavano scene di vita comune, mentre altre erano solo delle esplosioni di pennellate senza significato, ma da ognuna le sembrava di ricevere un pugno o una carezza. Per un momento pensò di vedere addirittura l’anima dell’amica e poi si chiese quale fosse veramente la realtà oltre quella percepita quotidianamente. Insomma, venne rapita dalle opere di Sandra. La Kathia rimase fuori dal tempo in contemplazione estatica e attonita fino a quando, dalla sala accanto giunse un grido.

-Aiuto! Accorrete, presto! – La Kathia si riscosse dal sogno ad occhi aperti e si precipitò a vedere cosa fosse successo. Un uomo era steso per terra circondato da un nugolo di persone.


-E’ morto. – Disse qualcuno, ma non ci voleva molto a capirlo, visto il manico del pugnale che spuntava dalla schiena del cadavere.

SEGUE…




Pillola n. II



Il tenente Viglietti si trovava a casa guardando l’ennesima puntata dello sceneggiato “Don Matteo” con un sentimento nei confronti dei protagonisti misto tra compassione ed invidia. La sua umana solidarietà andava verso gli abitanti di Todi che, invece di venire rappresentata come la tranquilla cittadina umbra nota a tutti, sembrava essere diventata una specie di Medellin in Colombia, con un tasso di criminalità pro capite da Guinness dei primati. Nel contempo gli sarebbe piaciuto moltissimo calarsi nei panni del collega impegnato regolarmente ogni settimana in un caso d’omicidio, senza fallo risolto con onore e gloria della Benemerita. Ma quella era finzione, nella realtà presso la Stazione di Capalbio di cui aveva il comando non capitava quasi mai niente. Qualche crimine contro il patrimonio, un po’ di spaccio, infrazioni stradali, tutto per eventuali condanne entro i tre anni che non portavano mai in prigione. A volte invidiava i carabinieri in missione all’estero o nei corpi speciali e prima o poi avrebbe fatto domanda, ma quando aveva accennato il suo progetto alla madre, c’era mancato poco che la buona donna non rendesse l’anima al Creatore.

-Vulisse fazzià! – Gli aveva detto con un filo di voce e l’aria sofferente. –T’aggia miso o’ munno e tu me bbuò accide. San Gennà, aiutàm tu! – E quelle parole pronunciate nel dialetto della terra natia con tutto l’amore e la preoccupazione di una madre, l’avevano fatto soprassedere. Per il momento.

Il cellulare di Viglietti prese improvvisamente vita, nevrastenico.

-Mi scusi tenente se la disturbo, ma c’è un morto.

-Nessun disturbo, Meneghin. Riferisci. – L’appuntato fece un breve riepilogo della telefonata che era giunta poco prima in caserma.

-Pare trattasi di morto ammazzato con arma da taglio infitta nel dorso. – Disse il sottoposto scegliendo le parole. Viglietti non voleva credere alla sua fortuna: finalmente un bel caso. Con tutto il rispetto per la vittima, ovviamente.

-Vienimi a prendere subito, di corsa. Meneghin: scattare!

-Comandi! – E neanche aveva finito di dirlo, che il solerte carabiniere già imboccava sfrecciando e con le sirene spiegate la discesa di via Puccini verso l’abitazione del superiore.

La mattina dopo il negozio della Kathia registrava il tutto esaurito. Sembrava che tutte le signore di Carige avessero urgenza di una permanente ed ogni uomo della classica “scorciatina”. Già, perché l’insegna del salone diceva: “Parrucchiere pour femme e uomo” e sulle comode poltroncine in simil-pelle verdina si avvicendavano praticamente tutti gli abitanti del Borgo. La parrucchiera aveva ben capito il motivo di tanta affluenza, ma non le dispiaceva affatto. La curiosità sul fatto di sangue avvenuto al Castello montava tra la popolazione come quando si mette a bollire una pila di fagioli, in un crescente “rumble-rumble” che risuonava in piazza e nei bar. Si era sparsa la voce che la Kathia ne era stata testimone ed il popolo bramava di udire direttamente da lei tutti i particolari, meglio se scabrosi o raccapriccianti. E lei ripeteva:

-Che vi devo dire? Quando ho sentito quel grido sono corsa a vedere.

-Cosa? – Quasi fossero il coro di una tragedia greca, prefiche e aedi stimolavano il racconto con domande o versi d’interessamento.

-Il morto ammazzato!

-Ohhh – A Kathia non mancava il piacere dell’effetto teatrale e nell’essere al centro dell’attenzione ci sguazzava con gusto.

-Il cadavere era steso nello sgabuzzino della Galleria d’Arte. – Continuò la parrucchiera. –Una donna delle pulizie, dovendo prendere uno straccio, aprì il ripostiglio e là, riverso sul pavimento, rinvenne il poveretto stecchito e con gli occhi sbarrati. Immediatamente…. – Pausa.

-Cosaaa?

- “Ahhhh!!” – Fece la Kathia imitando a tutta voce l’urlo dell’inserviente mentre il pubblico sobbalzava. – La signora corse verso di noi con le mani nei capelli ed agitando le mani come se avesse visto il diavolo.

-Poverina, poveretta, che spavento, poverella…- Commentò il coro.

-Esattamente. – Proseguì la donna. –Sapete che io non mi impressiono facilmente ed allora, mentre tutti si tenevano a debita distanza, presi il coraggio a due mani e mi chinai sul cadavere.

-Ohhhh!!

-Il coltello gli spuntava dalla schiena e la faccia era girata verso la parete. Vi dico, mi si è stretto il cuore quando ho riconosciuto quel viso.

-Sei sicura che fosse lui?

-Certissima. La vittima era Giambattista Dondi.

-Il conte?

-Già, il proprietario della tenuta “La Querceta” nonché patron della locale squadra di calcio e sponsor delle feste di piazza del paese. Lo conoscevo, buon’anima, era una: “sfumatura bassa e basette lunghe” quindicinale. Non meritava quella fine. O forse sì?


-Rumble-rumble – fece l’audience.



SEGUE…



Pillola n. III



Viglietti era affacciato alla finestra del suo ufficio presso la Stazione dei Carabinieri. Sembrava che stesse fissando la bamboccia danzante con gli spruzzetti in testa al centro della fontana nella piazzetta di fronte alla trattoria di Maria, ma in realtà lo sguardo era perso ed i pensieri vaganti. Questo caso non sapeva proprio da che parte prenderlo. La scientifica aveva espletato i rilievi di routine ed il medico legale si era espresso, con riserva, sull’ora della morte. Un dato era certo: si trattava di omicidio, punto. La vittima sicuramente non era morta di raffreddore né poteva essersi accoltellata da sola fra le scapole, quindi si trattava di un bell’assassinio a tutti gli effetti. Il risultato delle analisi stimava che il decesso fosse avvenuto all’incirca sei ore prima il ritrovamento del cadavere, escludendo in tal modo tutti i visitatori della mostra come potenziali sospetti. C’era da domandarsi come la vittima fosse entrata nella Galleria, in quanto Il portone era stato aperto poco prima dell’orario d’inizio dell’evento dall’inserviente che poi si era fermato all’entrata. Comunque questi erano particolari, il vero indovinello era un altro.

Dal verbale dell’interrogatorio della donna delle pulizie.

Viglietti: -Mi dica, a che ora e perché si recò nel locale servizi?

Donna delle pulizie: -Saranno state circa le nove. Siccome avevo visto delle carte per terra nella prima sala, volevo prendere lo scopettone e la paletta per raccoglierle.

V. -Bene, quindi andò e aprì la porta della stanzetta?

d.d.p. –No.

V. –Come: no?

d.d.p. –Nossignore, cercai di aprire la porta, ma era chiusa a chiave.

V. –E’ normale?

d.d.p. – Era stranissimo. Nessuno chiude mai quella porta. Nello sgabuzzino non c’è niente di valore e non ha senso chiuderlo. Addirittura non ricordo di aver mai visto nessuna chiave nella toppa, tanto non ce n’è alcun bisogno.

V. –Allora cosa fece?

d.d.p. –Le dico: rimasi un po’ perplessa, ma non detti particolare importanza alla cosa. Non sapevo cosa fare, ma poi pensai che probabilmente la chiave poteva trovarsi nell’ufficio della direttrice della Galleria in un quadro insieme alle altre. Però lei non era in sede, così presi il telefono e la chiamai per avere il permesso di entrare nel suo ufficio e cercare la chiave.

V. –Dove si trovava la direttrice?

d.d.p. – A Ma-Mò, o qualcosa di simile, forse in Svezia, o Norvegia, bah. Comunque su al settentrione per motivi di lavoro. In ogni modo, rispose al cellulare e mi disse di fare come mi pareva.

V. –Quindi?

d.d.p. –Per farla breve, trovai la chiave e tornai allo sgabuzzino. Ma, gira che ti rigira, la chiave faceva scattare la serratura, ma la porta non si apriva se non per uno spiraglietto. Allora, capisce tenente, divenne una questione di puntiglio. Dovevo entrare in quello sgabuzzino, anche perché sarebbe servito più tardi per le pulizie serali. Il locale non ha finestre e quindi non è possibile accedere per nessun’altra via. Io sò tignosa e decisi di passare alle maniere spicce. Chiamai il sorvegliante e gli chiesi di dare una spallata. C’era qualcosa di pesante che faceva resistenza. Dopo qualche bella botta, finalmente la porta si aprì di quel tanto per farci passare. Vedemmo che dietro l’uscio c’era appoggiata una vecchia cassapanca ma, spingendola in due ed a fatica, riuscimmo a spostarla. Fu allora che mi accorsi che, steso a terra, giaceva un uomo: morto.

V. –Mi sta dicendo che il mobile che teneva ferma la porta l’avrebbe potuto posizionare solo chi si fosse trovato all’interno?

d.d.p. – Proprio così, tenente. E dentro la stanza c’era solo la povera vittima.

Ecco, questo era quello che mancava a Viglietti per fargli fumare le meningi: un bel “delitto della porta chiusa” come nel più classico dei romanzi polizieschi. Solo che Sherlock Holmes era indisponibile e quindi sarebbe toccato a lui risolvere il mistero.




SEGUE…



Pillola n. IV



Cascasse il mondo, la Kathia non rinunciava mai al caffè ed alla sigaretta di metà mattina. A meno che non diluviasse, verso le undici, usciva dal negozio e si sedeva in beata solitudine sulla panchina sistemata nello spiazzetto di fronte alla sua bottega. La prima delle tre Marlboro giornaliere accesa tra le dita e una tazzina fumante nell’altra mano, faceva il punto della sua vita senza essere disturbata da nessuno. Per prudenza rimaneva a tiro di voce dall’Antonella, la sua apprendista-aiutante, ma la giovane sapeva che avrebbe dovuto vedere tutti i phon andare a fuoco contemporaneamente, o qualcosa di simile, per potersi permettere di chiamare la titolare. Come un guru indiano la Kathia si astraeva dal contingente elevando la mente verso piani astrali superiori, almeno così sembrava, ma chi avesse potuto leggerle nei pensieri si sarebbe accorto che i problemi sui quali rifletteva erano più o meno sempre gli stessi. In ordine di frequenza vinceva per distacco la figlia che, in età adolescenziale, era docile e prevedibile come un gatto in calore in una sera di luna piena. Negli ultimi giorni, tra gli affari di casa e i problemi del lavoro, spesso s’intrufolava il viso angosciante del povero Dondi, morto ammazzato nello sgabuzzino della Galleria. Non si può dire che lo conoscesse bene, ma quell’inaspettato dramma squarciava il velo della tranquilla routine paesana rivelando un mondo nascosto di malvagità e disperazione. Fra di loro c’era un assassino e questo non poteva di certo farla rimanere tranquilla.

-Disturbo? – Assorta in scene truculente, al richiamo di una voce da dietro le spalle, la Kathia fece un balzo in alto come quello di un popcorn quando si schiude nella pentola. Si voltò di scatto e vide il ghigno divertito del tenente. Ovviamente l’aggredì:

-Che sei matto? Mi vuoi far prendere un accidente?

-Scusa, non volevo spaventarti. – Ma gli occhi ridenti di Viglietti dicevano tutt’altro. I due si conoscevano da quando lui, qualche anno prima, si era insediato nella Stazione di Capalbio. S’incontravano spesso in paese e, quando capitava, prendevano volentieri un caffè insieme scambiando quattro chiacchere in una costante tenzone di battute che mettevano in competizione l’arguzia toscana con l’ironia partenopea. Insomma si divertivano e, sotto sotto, lei velatamente civettava e lui, discretamente, ci provava. Non per niente la prima impressione del carabiniere quando conobbe la parrucchiera fu: “Una bella ciaciona sfruculiosa” e non aveva mai cambiato parere.

-Che ci fai da queste parti? – Chiese la Kathia.

-Passavo…

-Sai, stavo pensando proprio a te, indirettamente.

-Oh, ne sono lusingato, madame.

-Indirettamente, ovvero stavo pensando al delitto. In fondo è successo praticamente sotto al mio naso. Ci sono novità?

-Niente di definitivo. Stiamo indagando sulla figura del conte e su eventuali zone d’ombra nella sua vita, ma non risulta niente di particolare. Non aveva problemi economici, anzi l’azienda agricola pare che vada abbastanza bene, non era sposato e abitava da solo in compagnia di quattro labrador e una coppia di domestici.

-Non è possibile che abbia vissuto in maniera tanto piatta. Nei vecchi romanzi si diceva che quando non si trova il bandolo di qualche matassa bisogna “cherchez la femme”. Voi l’avete cercata?

-In realtà sì, e sono qui anche per sentire il tuo parere.

-Mio?

-Eggià. Risulta che il Doni avesse una relazione, che portava avanti in maniera molto discreta, con una compaesana.

-Ma va’? E io la conosco?

-uesta signoraQkozxgdd1dd23dcQuesta signora avrebbe anche avuto l’opportunità di commettere il delitto, anche se non ne abbiamo alcuna prova.

-Non tenermi sulle spine, chi è?

-La tua amica pittrice, Sandra Perotti. Con la scusa di voler sistemare le sue opere in tranquillità, pare che si fosse fatta dare dal custode una chiave per accedere nelle sale della mostra in qualunque momento, anche fuori orario d’apertura. Questo spiegherebbe perché la vittima è stata trovata proprio lì e la maniera in cui sarebbe entrata. La Perotti avrebbe potuto dare un appuntamento all’amante in quel luogo dove sarebbero stati da soli, aprendogli con la sua chiave e richiudendo poi il portone. Quindi, chissà, un litigio o altro potrebbe aver scatenato la furia omicida della donna. Peraltro, questo è l’unico collegamento tra i vari elementi del delitto che abbiamo trovato finora. Tu che ne pensi?

-Penso che ti sei bevuto il cervello, Viglietti. Sandra non farebbe male ad una mosca, la conosco bene. – Ma la Kathia era turbata. Come poteva affermare di conoscere bene l’amica visto che in realtà la vedeva assai di rado? Inoltre Sandra non aveva avuto nemmeno la gentilezza di lasciarsi andare ad una piccola confidenza con la sua vecchia compagna di banco a proposito del suo amore segreto. Doveva andarci a parlare.




SEGUE…



Pillola n. V 


Il tramonto calava sull’Hotel Valle del Buttero mentre un paio di stanchi camerieri sbrigavano le ultime incombenze intorno alla piscina ormai deserta. Chiudevano gli ombrelloni, vuotavano i posacenere e raccoglievano qualche asciugamano abbandonato dai clienti sul prato all’inglese. A quell’ora anche il più caparbio dei bambini che voleva sempre fare un ultimo tuffo che ultimo non era mai, aveva ceduto alla stanchezza e tutti gli ospiti si erano ritirati nelle loro camere per prepararsi alla cena. Ma nel piccolo terrazzino sopraelevato, sotto un ulivo che sembrava abbracciarla con le sue fronde, una donna sedeva sopra un lettino inumidito dalla brina serale. Le sue spalle erano scosse da silenziosi singhiozzi ed i lunghi capelli biondi ne coprivano il volto e le gote rigate da rivoli di pianto.

-Sapevo che eri scesa qui e Riccardo, alla reception, mi ha detto che ti avrei trovato in piscina. –Kathia si era avvicinata con circospezione alla sua amica Sandra per cercare di consolarla in quel difficile momento. Non voleva disturbarla, ma non si sentiva di lasciarla sola ad elaborare un lutto che sembrava tanto improvviso quanto inspiegabile. –Vuoi parlare un po’, ti vuoi sfogare? – Sandra tirò su col naso e si strofinò gli occhi per cercare di frenare il fiume in piena del suo dolore poi, abbozzando un timido sorriso per nulla convincente, riprese un minimo di controllo.

-Grazie cara, sei un’amica. Però, vedi, è difficile affrontare tutto questo e poi così…senza senso. Fino a qualche giorno fa mi sembrava di vivere una vera storia d’amore ed oggi mi ritrovo di nuovo sola e senza un futuro. Avevo tanti progetti, sogni, e immaginavo di costruire finalmente una famiglia con l’uomo che amavo, e poi…niente. Una sola maledetta, tragica sera e come in un perverso gioco dell’oca inventato dal maligno, mi ritrovo alla casella di partenza della mia vita, con tutto un tabellone da scalare. Non ce la faccio, sento di non farcela più. – Sandra era sull’orlo di un burrone di disperazione e Kathia si sentì in dovere di fare di tutto per trattenerla dal caderci dentro.

-Devi farti forza ed essere razionale, specialmente adesso. Giambattista ha ancora bisogno di te, anche se non c’è più. Tu, forse più di ogni altro, puoi aiutare le forze dell’ordine a capire come siano andate le cose. Capisco, questo non te lo riporterà, ma penso che lui non vorrebbe vederti così disperata, anzi sento che solo tu puoi dare pace alla sua anima cercando di individuare la mano che ha spezzato il filo della vostra storia.

-Ma cosa dovrei fare? I carabinieri hanno la necessità di trovare un colpevole ed io sono l’indiziato più comodo. Ero presente sulla scena del delitto e forse ero la sola che aveva un legame con la vittima. Vedi: perfetto, non devono faticare più di tanto. Chi sa, secondo loro, quale movente avrei mai avuto, ma non credo che gli interessi molto. Sono un facile imputato e presto mi incrimineranno. E, ti dirò, neanche mi importa. – Sandra sembrava non reagire, ma l’amica non aveva intenzione di arrendersi.

-No, non credere, Viglietti non accuserà qualcuno senza solide prove. A parte il vostro rapporto, non ci sono altri indizi a tuo carico, e non se li possono certamente inventare. Io naturalmente sono sicura di te, ma dobbiamo convincere il tenente. Per questo è necessario che non ti abbatta, cercheremo insieme la verità.

-E come?

-Incominciamo a capire come vivesse il Dondi, ovvero se effettivamente fosse così trasparente come sembra. Voi non abitavate insieme, vero?

-No, lui non aveva mai voluto. Ci vedevamo quasi tutti i fine settima qui oppure a casa mia, a Roma. A me andava bene così, ciascuno manteneva la propria autonomia con i rispettivi amici ed il lavoro. Progettavamo, prima o poi, un figlio e questo avrebbe cambiato le cose, ma il momento giusto per concepirlo non arrivava mai, specialmente per lui.

-Bene, quindi diciamo che c’era una larga parte della sua vita di cui tu non sapevi niente se non quello che ti raccontava. – Chissà perché quello era un aspetto della relazione con Giambattista che Sandra non aveva mai considerato appieno. Ne era sicuramente consapevole, ma aveva fiducia nel suo uomo e mai aveva sospettato che quando le diceva che la sera sarebbe rimasto a casa, in realtà si sarebbe potuto comportare diversamente. Se si instillava il dubbio, si aprivano scenari inaspettati.

-Potresti avere ragione. – Disse la pittrice, e la sua espressione finalmente più presente a se stessa fece capire a Kathia di aver raggiunto lo scopo di scuoterla dal commiserarsi.

Dalla porta dell’albergo famigliole schiamazzanti uscivano a gruppetti inerpicandosi allegre sulla salita verso il centro del paese. Quella serenità suonava quasi offensiva nei confronti delle due donne che, da lontano, guardavano le persone vivere indifferenti del dolore altrui. Ma non era giusto biasimare, nessuno conosce cosa si nasconde nel profondo dell’anima di chi gli sta accanto e tutti sono soli nell’ingannare il senso della propria vita. Solamente le stelle non soffrono, ma restano a guardare fredde e lontane.




SEGUE…



Pillola n. VI



-Prima di cominciare, vorrei chiarire che la Kathia partecipa solo in qualità di amica della signora Perotti e pertanto viene pregata di non intervenire né di conferire in alcun modo con la convocata. Nel verbale non risulterà presente, e tale deve dimostrarsi. Siamo d’accordo?

-Sì, signor tenente. – Risposero entrambe le donne. Sandra era stata invitata a presentarsi negli uffici della Stazione dei Carabinieri per un interrogatorio informale nel quale non era prevista la presenza di un avvocato. La donna aveva pregato l’ufficiale di poter essere accompagnata ed il tenente, un po’ per bontà d’animo e molto per non dover litigare successivamente con la Kathia, aveva acconsentito. L’intenzione dell’investigatore era di cercare qualche spiraglio che facesse avanzare le indagini al momento arenate e senza grandi sbocchi in vista.

-Bene. – Disse Viglietti, serio ed in perfetta uniforme, con alle spalle gli occhi severi del Capo dello Stato e del Comandante Generale dell’Arma entrambi ritratti in una foto ufficiale che serviva a ricordare come l’Autorità guarda, sorveglia e scruta. –E allora torniamo sulla scena del delitto. Farò una ricostruzione come appare dalle nostre evidenze e, se ritiene qualche elemento inesatto o vuole fare delle precisazioni, può interrompermi pure. – Il tenente si rivolgeva esclusivamente a Sandra, l’altra era ufficialmente trasparente.

La donna fece un cenno di assenso, mentre Meneghin prendeva appunti.

-La vittima fu rinvenuta dalla addetta alle pulizie nello sgabuzzino-spogliatoio facente parte dei locali della mostra. – Cominciò il carabiniere. – Questa è una stanza di media grandezza alla quale si accede solo dalla porta sull’atrio non avendo finestre né altre uscite. E’ arredata con panche e ganci per appendere gli abiti da lavoro degli inservienti lungo un lato, mentre su un’altra parete sono attaccate quattro mensole con sopra prodotti da pulizia di vario genere. Poi, sul lato stretto vicino alla porta, c’è un armadietto largo circa cinquanta centimetri contenente scope, spazzoloni e simili. Il pavimento è in cemento pieno trattato, senza tappetini o coperture. Non ci sono altri mobili ad eccezione di una antica cassapanca inchiavardata che, hanno dichiarato gli addetti, contiene vecchi documenti e cataloghi delle esposizioni passate. Faremo aprire anche quella quando tornerà la direttrice dal viaggio di lavoro. Il cadavere, è bene sottolinearlo, era all’interno della stanza chiusa a chiave e con la cassapanca addossata alla porta nel lato interno. Questo vuol dire che solo il Dondi o il suo assassino avrebbero potuto sistemare il tal modo quel mobile. Poi però, dopo aver commesso il crimine, il colpevole non sarebbe più potuto uscire senza sportalo né, tantomeno, avrebbe potuto rimetterlo come l’abbiamo trovato. E qui, non le nascondo, non siamo riusciti a capire la concatenazione dei fatti. Però lasciamo perdere per il momento la storia della porta sbarrata dall’interno e soffermiamoci su due aspetti: le chiavi e il luogo. Mi segue signora?

-Sì, tenente, vada avanti.

-Bisogna considerare che il delitto, secondo la perizia legale, fu compiuto verso le tre del pomeriggio, e quindi mentre la mostra era chiusa. E allora ci domandiamo: come entrò il Dondi? Perché si trovava nella Galleria d’Arte? Chi aveva la possibilità di accedervi? In assenza della direttrice solo il custode poteva aprire con la sua chiave, ma dopo che lei, signora Sandra, glielo aveva chiesto insistentemente, l’uomo, conoscendola da tanti anni, si era lasciato convincere a darle una copia. Pertanto, limitatamente a quei giorni, oltre al vigilante unicamente lei poteva andare e venire a suo piacimento dai locali della mostra. Corretto?

-Credo di sì.

-Bene. La motivazione della presenza in loco del Dondi è evidente: era il suo amante, avevate un appuntamento clandestino e lei lo fece entrare aprendo con la sua chiave.

-No! Non è così, avrei potuto vedere Giambattista altrove, se avessi voluto.

-Forse, ma ci risulta…- Viglietti fece una pausa per dare più peso alle sue parole e scrutare meglio l’effetto che avrebbero avuto. - …che ultimamente avevate avuto delle discussioni e che lui non voleva più vederla, infatti da tempo lei non frequentava più la villa. Questo si evince dalle deposizioni dei domestici del Dondi. Lo conferma? – Sandra era impallidita ed anche Kathia sobbalzò sulla sedia nell’apprendere quello che l’amica aveva tralasciato di dirle.

-Sì, cioè: no. Non esattamente. E’ vero che stavamo vivendo una specie di “pausa di riflessione”, ma il nostro rapporto era solido e quello non era che un litigio come tanti.

-Va bene, signora Perotti, prendiamo per buona questa spiegazione, ma le chiavi?

-Su questo non ho niente da dire.

-Procediamo: il movente. Gelosia, paura di essere abbandonata, rabbia? Ce lo dica lei, signora, cosa la spinse ad uccidere il suo amante?

-Basta! – Sandra balzò in piedi. – Non sono stata io. – E, nascondendo il volto tra le mani, crollò di nuovo sulla sedia. – Il tenente non voleva mollare l’osso.

-E’ inutile che neghi. C’è il movente e l’opportunità, ed inoltre non ci sono altri indiziati. Tutto porta a lei. Confessi, che le conviene. – La tensione, nell’ufficio del tenente si tagliava a fette, se questa similitudine non fosse inappropriata parlando del caso di un morto accoltellato. Viglietti era rosso in faccia a causa dell’impeto accusatorio, Sandra era in lacrime e Meneghin sudava copiosamente per riuscire a stare dietro a tutte le battute da scrivere nel rapporto. Solamente la Kathia sembrava calma ed assorta nei suoi pensieri. Non aveva detto una parola, ma era rimasta in ascolto attentamente e c’era qualcosa che le suonava strano. Improvvisamente si riscosse e, disobbedendo alla promessa, si rivolse al tenente.

-Eppure, Viglietti, ci potrebbe essere un’altra spiegazione e mi meraviglio che tu, e tutta la combriccola, non l’abbiate presa in considerazione. – Il tenente la guardò furibondo, incerto se incriminarla per oltraggio a pubblico ufficiale o sbatterla direttamente fuori.

-Allora parla, sentiamo. – La sfidò l’investigatore. La Kathia prese fiato e cominciò ad illustrare la sua ipotesi.




SEGUE…





Pillola n. VII (Ultima.)



-Ancora non capisco come ci sei arrivata. – Se fosse passato di là il suo superiore, per non dire quello che lo guardava sempre dalla foto dietro la scrivania, Viglietti forse non sarebbe stato degradato sul posto, ma ci sarebbe andato molto vicino. Infatti portava la cravatta della divisa allentata con il bottone del colletto slacciato, fra le dita stringeva una strana sigaretta di colore scuro e dal fumo aromatico ed era spaparanzato sulla panchina di fronte al negozio della Kathia come un clochard sui gradini di una chiesa. Si sentiva rilassato e soddisfatto per aver risolto un caso che all’inizio si presentava nel peggiore dei modi. Era stato proposto per un encomio ufficiale, il “Tirreno” l’aveva definito: “un paladino dell’ordine col fiuto di un segugio” ed aveva ricevuto più caffè offerti al bar in quei giorni che in tutto il tempo da che si trovava a Capalbio. Ma il tenente sapeva bene che il merito di aver intuito il meccanismo del delitto, e quindi aver scoperto chi fosse il colpevole, non era del tutto suo. La Kathia, che in quel momento divideva con lui la panchina, era stata la vera chiave di svolta del caso, ma lei non aveva voluto apparire lasciando al militare tutta la gloria e la ribalta della cronaca.

-Sai, non è stato difficile. – Rispose la parrucchiera. - Spesso guardando i problemi dall’esterno e non essendo coinvolti direttamente, si vedono le soluzioni con maggior chiarezza, e così è stato per me. I dati erano evidenti, bastava ragionare senza paraocchi. Inoltre io, al contrario di te, avevo una certezza dalla quale partire. Per me non poteva essere stata Sandra perché la conosco e non avrei mai creduto che avrebbe potuto rivelarsi tanto fredda e crudele al punto di uccidere. Ma tu, bel carabiniere mio, non potevi avere questa presunzione “ad excludendum”, se mi consenti la finezza, e quindi hai imboccato la strada più semplice.

-Già, che stupido, vero?

-No, non proprio, diciamo che una cassapanca non può essere spostata da un morto e che non ci si può suicidare accoltellandosi nella schiena. Invece di buttarti subito sulla indiziata più evidente, avresti dovuto focalizzare questi elementi e chiederti come fosse possibile che in quella stanza chiusa dall’interno fosse presente la vittima ma non il suo carnefice.

-Ma quando aprì la porta, la donna delle pulizie non trovò nessun altro oltre al cadavere.

-Vero, ma immagina lo stato d’animo della povera inserviente. Doveva essere sconvolta e sicuramente non pensò di ispezionare il locale con attenzione. Vide il morto, si spaventò e scappò via urlante.

-Però lo stanzino non era grande e se ci fosse stato qualcun altro oltre al morto, certamente lei l’avrebbe visto.

-Ecco, questo è il classico esempio di una deduzione sbagliata basata sull’apparenza. In realtà, come hai capito dopo, c’era qualcun altro.

-L’ho capito grazie a te.

-Ci saresti arrivato ugualmente, anche senza il mio aiuto. Forse. – Alla Kathia piaceva prendere un po’ in giro il tenente e si sentiva di poterlo fare grazie alla loro amicizia. Ma lui, pur riconoscendo i meriti della parrucchiera, non ci stava.

-Certamente prima o poi avrei capito tutto. Ma aspetta, come mi hai chiamato poco fa: “Bel carabiniere mio”? Allora vulisse addicere cà te piacc nu poc? O’ Vero?

-Uè, uagliò, stai calmo. Era così, per dire, non ti mettere in testa idee.

-Vabbuò, ma mi piace sentirti. Andiamo avanti con la ricostruzione, facciamo finta che io non sappia niente, spiegami tutto, ciaciona mia. - La donna vedeva chiaramente che la sigaretta fumata dal militare stava facendo il suo effetto e che lui un po’ era presente e un po’ vagava tra le nuvole, ma era orgogliosa della sua perspicacia e riparlare dei fatti non le dispiaceva.

-Partiamo dal presupposto che i fantasmi spaventano, ma non uccidono. Pertanto l’assassino doveva essere per forza nello sgabuzzino insieme al cadavere. Ma dove? Ho rivisto mentalmente la stanza: pareti senza uscite, nessun armadio adeguatamente capiente, pavimento e soffitto solidi e senza botole. Sembrava un rebus inestricabile tanto che a quel punto ho pensato pure che il Dondi fosse un contorsionista con istinto suicida o che ci fosse un meccanismo tipo balestra, azionato da lontano, che lanciasse coltelli a comando. Ma naturalmente erano solo fantasie, la realtà era molto più semplice e coincideva con l’unico elemento che non è stato preso subito nella dovuta considerazione.

-Come parli bene, starei qui a sentirti fino a stasera. Meglio del rapporto scritto da Meneghin, continua.

-Tutti l’hanno toccata, spostata e ci si sono seduti sopra. Aveva due caratteristiche: era pesante e inchiavardata. Nessuno voleva forzarne la serratura finché non fosse arrivata la direttrice della Galleria con la chiave perché si tratta di un pezzo d’antiquariato e non volevano rovinarla. Di cosa si tratta?

-Della cassapanca!

-E bravo il tenentino. Esatto! Era poggiata alla porta dall’interno, ma solo la dichiarazione degli impiegati affermava che dentro ci fossero libri e documenti, in realtà conteneva qualcosa di altrettanto pesante ma assai più pericoloso: l’assassino.

- Azzz!!!

-Proprio così.

-Vabbuò, ma dal capire dove si fosse nascosto ad indovinarne l’identità, come ci sei arrivata?

-Questa è stata la parte più facile. Come hai contestato tu a Sandra, in pochi avevano libero accesso nei locali della mostra. Per l’esattezza: la mia amica, il custode e…

-Sembrava nessun altro.

-Sbagliato. E’ stato detto chiaramente che oltre a quei due solamente un’altra persona poteva disporre delle chiavi. Orsù, diciamolo in coro! – Ed insieme, come due ragazzini, urlarono:

-La direttrice! – Antonella si affacciò sulla porta del negozio sentendo una sonora risata provenire dalla panchina antistante la bottega, per poi ritornare al lavoro con un’alzata di spalle quando riconobbe la sua titolare insieme al militare. “Bah!” Pensò, ma non andò oltre. Quindi la Kathia concluse la sua dotta disquisizione.

-Proprio lei. Poteva andare e venire e siccome ufficialmente si trovava all’estero, nessuno l’aveva considerata nelle indagini. Ti ho passato questo suggerimento e poi non c’è voluto molto per trovare il movente.

-Sì. – Confermò Viglietti. – L’abbiamo arrestata proprio qui a Capalbio, in casa sua. Si era nascosta facendo finta di partire per la Svezia. Non ha retto all’interrogatorio ed ha confessato il delitto. Il Dondi le aveva prestato una forte somma per ripianare dei debiti di gioco ed insisteva già da tempo nel rivolerla indietro con i dovuti interessi. Aveva detto alla donna che la sua pazienza si era esaurita e che se non l’avesse pagato, avrebbe reso nota la vicenda ai suoi superiori al ministero. La direttrice non poteva far fronte al debito, ma neanche rischiare che si venisse a conoscenza del suo vizio nascosto. Se il Dondi avesse parlato, lei avrebbe rischiato di perdere la sua reputazione ed anche il posto di lavoro per ottenere il quale aveva tanto penato. Doveva farlo tacere, per sempre. L’occasione della Mostra le sembrò una perfetta opportunità: era presente Sandra, che sapeva essere la sua amante, ed inoltre poteva agire in un luogo che conosceva a perfezione. Dette appuntamento all’uomo con la scusa di rimborsarlo e, con fredda premeditazione, aspettò il momento buono per piantargli un coltello nella schiena. Poi si chiuse nella cassapanca e, quando passò la buriana dopo il ritrovamento del cadavere, ne uscì fuori senza essere vista da nessuno. Aveva le chiavi e quindi si allontanò dalla Galleria richiudendo tutto dietro di lei, esattamente come era stato lasciato in precedenza.

Soddisfatti, si poteva senz’altro affermare che il carabiniere e la parrucchiera fossero proprio soddisfatti.

Vittorio gliel’aveva detto: un ci doveva andare alla “vernice”. Lui se lo sentiva: quando si vole fare… che dopo invece…e quindi però…ecco! A lui andava bene tutto: l’amica pittrice, le comari pettegole, il paese che mormora, ma quel bacherozzo col pennacchio che girava intorno alla Kathia proprio non lo sopportava. Poi dice che uno…maremma maiala!



FINE



venerdì 13 aprile 2018

Pensieri


Prendo un giornale, accendo la televisione. Sono le otto, sullo schermo appaiono e si sovrappongono volti, macerie, calciatori e parolai, tutto in un guazzabuglio di immagini che hanno il solo scopo di confondere. Mi siedo sul divano ed inforco gli occhiali. Scorro i titoli del quotidiano con poca attenzione e meno curiosità. In casa c’è un velo di polvere dove prima tutto brillava di pulito e nell’aria resta sempre l’odore delle sigarette al posto del profumo che mi piaceva tanto. Ormai è così da tempo e così lo voglio lasciare, nessuno mi rimprovererà. Aggiusto i cuscini, lascio da parte il giornale e stendo le gambe sul tavolino basso. Nel bicchiere si scioglie lentamente il ghiaccio rompendosi con piccoli schiocchi. Chiudo gli occhi.
-E tu che ci fai qui?
-Anche se sembri dimenticarlo, ci sono anch’io oltre alla tua donna.
-Va bene, fammi compagnia. Bevi qualcosa?
-Dai, ho solo vent’anni, non mi tentare. E poi non mi va il whisky.
-Ok, come sei morigerato…
-Almeno uno di noi due deve restare lucido.
-Com’è andata all’università?
-Oh, beh, economia e commercio: una palla! Te l’avevo detto che non ci capisco niente di matematica e statistica. Invece con i diritti vado come un treno. Avrei dovuto fare Giurisprudenza.
-Già, i primi ripensamenti. Ma sei ancora in tempo per cambiare.
-Ma che dici? Ho i miei binari ben chiari davanti. Laurea e poi il lavoro, una famiglia e soldi in tasca.
-E la motocicletta?
-La venderò con la nascita della prima figlia.
-Il coast to coast negli Stati Uniti?
-Lo farò. A cinquant’anni, forse.
-Quella smania di avventura di cui mi parlavi?
-Adesso non ho tempo. Più in là, si vedrà.
-No, caro, non ci siamo. Bisogna avere il coraggio di scommettere, innanzi tutto su se stessi, e poi prendere la vita per le corna, come un toro a Pamplona.
-Tu l’hai fatto?
-Sto parlando di te. Riempimi il bicchiere e ascolta. E’ vero che si può trovare sempre una Harley che ti aspetta a Chicago pronta per lanciarsi sulla route 66, ma bisogna decidere di prenderla. Il giubbotto di pelle con le frange sta bene su un ragazzo o su un giovane uomo, ma un vecchio cow boy improvvisato è spesso solo una maschera patetica di perdute illusioni. Lo stesso vale per qualsiasi altro sogno. La giovinezza è un alibi che giustifica la pazzia, ma la pazzia non è un alibi per la perduta giovinezza.
-Che vuoi dire?
-Voglio dire che ogni epoca della vita ha una cornice ben definita che delimita i comportamenti e rinchiude in un quadro di doveri. Solo quando si è giovani la tela è ancora bianca e si può sporcarla con qualsiasi colore. Dopo: si deve, bisogna, tocca e qualsiasi altro verbo abbia a che fare con il concetto di responsabilità ti tarperà le ali creando una sorta di ragnatela dalla quale non sarà possibile districarti. E, ti dirò di più, ne sarai contento.
-Sarò contento di essere prigioniero?
-Si, caro. Sarà una gabbia fatta da tante cose a cui terrai con affetto, amore o addirittura passione, ma comunque resterà una gabbia. Come nella sindrome di Stoccolma, t’innamorerai di quelle cose che ti imprigionano e ti sembrerà assurdo solo il pensiero di poterne fare a meno.
-Non capisco. Se sei felice di quello che hai, perché rimpiangi quello che non hai? Mi sembra un atteggiamento sciocco e, soprattutto, ansiogeno.
-No, chiariamoci: nessun rimpianto o, tantomeno, rimorso. Solo qualche sogno che è rimasto nell’aria e la rabbia di non poter fermare questo treno del quale incomincio ad intravedere la stazione.  
-Quindi che mi consigli?
-Consigli? Nessuno, non ne sono in grado. Anzi, solo uno: resta accanto a chi ti vuole bene.
La televisione continua nel suo monologo in sottofondo mentre sul divano, vicino a me, non c’è nessuno.


venerdì 6 aprile 2018

Frida



L’appuntamento era per le cinque del pomeriggio in un villa alla periferia di Ginevra. Dovevo intervistare la principessa per un giornale per il quale lavoravo. Nelle cronache mondane si parlava spesso della ancora invidiabile avvenenza della anziana signora, della sua ricchezza discretamente ostentata e di quella che era ritenuta, da tutti, una vita da favola. Le mie affezionate lettrici erano avide di entrare, anche solamente tramite le pagine patinate, in casa della nobildonna e quindi il direttore decise di organizzarmi un incontro da pubblicare tra le ultime nozze reali e le passerelle dell’alta moda. Mi presentai puntuale al cancello e, dopo essermi annunciato ad un videocitofono dall’occhio inquisitore, attesi che le grandi inferriate si spalancassero invitandomi ad entrare. Percorrendo il lungo il viale che portava all’ingresso dell’antica dimora, in lontananza, scorsi la sagoma della signora che mi stava aspettando accanto alla porta aperta. Affrettai il passo e finalmente giunsi al cospetto della padrona di casa.

- Buongiorno, sono Anni-Frid Ruzzo Reuss von Pauen, benvenuto. – Si presentò la principessa, anche se non ce ne sarebbe stato bisogno. Dissi il mio nome perdendomi per un momento in quegli occhi verdi velati di tristezza che avevano affascinato tanti ammiratori. Dopo qualche convenevole, ci accomodammo in un salottino confortevole, ma un po’ anonimo. Era tutto molto ordinato, ninnoli di Meissen e Sevres, piccoli argenti e fiori distribuiti armoniosamente sopra bassi tavolinetti; paesaggi fiamminghi e nature morte alle pareti; sete sui toni caldi del beige drappeggiate ai lati delle grandi finestre e sui divani. Di gran gusto, ma in qualche maniera impersonale. Si notava la mancanza di quello che tutti raggruppano negli angoli più intimi della propria casa: non c’era neanche una fotografia incorniciata.

-Mi scusi principessa per l’intrusione. Lei sa che i nostri lettori gradiscono sempre avere sue notizie e la curiosità, in questo caso, è solo la manifestazione dell’affetto con il quale la seguono da tanto tempo.

-Capisco, e la ringrazio. Cosa voleva chiedermi?

-Beh, niente in particolare. Si conosce tutto della sua vita pubblica ma, se vuole, sarebbe interessante conoscere il risvolto privato di Frida.

-Bene, ma non sono tutte rose e fiori, anche se può sembrare il contrario.

-Cominci da dove vuole.

-Non saprei, nella mia vita ci sono state tante cose. Andrò per grandi tratti e lei mi interromperà dove riterrà opportuno.

-Perfetto.

-Ebbene, già la mia nascita fu molto particolare. Infatti io non sono frutto dell’amore, come succede per la quasi totalità degli esseri umani, ma sono il risultato di un esperimento. La conseguenza di uno scellerato programma che usava gli uomini e le donne come cavie, o meglio come animali da riproduzione, senza il loro consenso. Un atto bestiale dove non era contemplato alcun sentimento, tranne la folle brama di onnipotenza da parte di chi comandava.

-Può spiegarsi meglio?

-Sono nata a Ballangen, durante l’occupazione nazista della Norvegia. Mia madre, Synni, fu selezionata per il piano Lebensborn, il progetto eugenetico nazista di riproduzione e selezione delle nascite. Questo programma prevedeva di far congiungere carnalmente alcuni ufficiali dell’esercito, solo quelli di provata ascendenza ariana, con ragazze dalle caratteristiche fisiche corrispondenti, allo scopo di creare la razza perfetta e di sovrappopolare la Germania. I figli nati da tali unioni sarebbero rimasti alle madri o educati direttamente dalle organizzazioni naziste, ad insindacabile giudizio del Reich.

-I padri non restavano accanto ai figli una volta nati?

-No, quasi mai. I soldati dovevano fungere solo da inseminatori e, una volta espletato il loro compito, tornavano nei ranghi senza curarsi di altro.

-Quindi lei non ha conosciuto suo padre?

-Non ho saputo chi fosse fino al 1977, quando il settimanale tedesco Bravo fece delle ricerche e lo scovò. Si chiamava Alfred Haase ed era un ufficiale tedesco della Wehrmacht già sposato. Non l’ho voluto incontrare, per me non significava niente. Sono cresciuta credendolo morto e la mancanza della sua figura mi ha accompagnato per tanto tempo, finché non sono diventata madre a mia volta. Bella storia, eh? – Disse Frida scuotendosi da quei ricordi dolorosi.

-Impressionante, direi. Se vuole continuare…

-Certo. Alla fine della seconda guerra mondiale, insieme a mia madre e mia nonna, dovetti rifugiarmi in Svezia per paura di rappresaglie. Eravamo state marchiate come traditrici della patria proprio per la partecipazione al Lebensborn, anche se non avevamo avuto scelta. Dovemmo fuggire altrimenti, come altri bambini nati da padri tedeschi, sarei stata rinchiusa in un collegio o in un sanatorio mentale. A tredici anni cominciai a lavorare in un locale notturno come cantante Jazz e, dopo molta gavetta, nel 1967 vinsi una competizione canora televisiva. In quell’occasione incontrai Benny Andersson che da poco aveva fondato un gruppo che poi si chiamo gli ABBA. Nel 1978 lo sposai e in quegli anni ci fu l’enorme successo del quartetto che divenne un fenomeno a livello planetario. Conobbi la fama e la ricchezza, oltre che una vita da pop star. Le basti solo sapere che gli ABBA, al culmine delle vendite, fatturavano più della Volvo ed erano una delle maggiori risorse per la Svezia. Ma ci furono anche molte incomprensioni con Agneta e delle brutte storie tra di noi che portarono prima al mio divorzio e poi allo scioglimento del gruppo. Dopo qualche anno incontrai il mio secondo marito, il principe tedesco Reuss von Plauen, che morì di cancro all’età di quarantanove anni. Ma non fu l’unico dolore, due anni prima morì anche mia figlia in un incidente automobilistico. Infine mi sono ritirata qui, in Svizzera, dove vivo con molti ricordi, belli e brutti.

Rimasi molto colpito da quel racconto, e mi resi conto di qualcosa di molto banale ma che spesso tendiamo a dimenticare. Una persona può apparire felice, fortunata, a volte magari oggetto di invidia o ammirazione, ma nessuno mai sa cosa si cela veramente dietro la maschera indossata tutti i giorni per vivere. Non bisogna giudicare, mai.

Quanto raccontato di Anni Frid Lyngtad, la Frida degli ABBA, è una storia vera.