venerdì 15 dicembre 2017

Harraseeket Inn

La neve scendeva lenta e grave, nell’aria ferma di una serata di metà inverno. Con delicatezza, ma inarrestabile, pian piano si posava lungo le strade deserte, sulle pensiline degli autobus e sopra le auto parcheggiate. Soffici guanciali spuntavano sopra i tavolini dei bar lasciati all’aperto, mentre una bianca galaverna scintillante si aggrappava precaria ai rami spogli degli alberi.Nel silenzio ovattato si udiva solamente il suono chioccio delle gocce d’acqua che cadevano ad intermittenza dalle stalattiti di ghiaccio appese alle grondaie delle case, ed ogni forma di vita sembrava sospesa, bloccata in un’istantanea scattata dal freddo. Alti lampioni in fila lungo la strada, come immobili sentinelle del Generale Inverno, spandevano una luce fioca, appena sufficiente ad illuminare la Main Street, dall’indiano in legno alto tre metri all’ingresso del paese fino alla fine della strada, verso nord. Forse il sole all’indomani avrebbe risvegliato la natura, o un vento improvviso avrebbe scosso il paesaggio, ma in quel momento tutto era congelato in una sorta di fatalistica attesa. L’ultimo locale prima che la statale si rituffasse nel buio in direzione del Canada era il Bistrò del “TuscanBrick” che prometteva di servire una cucina italiana, anche se di toscano aveva soltanto giusto un mattone. Qui sorseggiò ancora un caffè prima di presentarsi all’appuntamento.
Aveva scoperto la costa nord orientale degli Stati Uniti in un fine settembre di qualche anno prima quando capitò da quelle parti per lavoro. Guidando lungo la A1, rimase colpito dal paesaggio pennellato nei toni del rosso e del giallo, in un miscuglio di colori che ricordava la tavolozza di un pittore espressionista. La tiepida brezza che entrava dai finestrini aperti si alternava a gelidi refoli d’aria proveniente dalle zone artiche, mentre la combinazione tra il sole, testimone di un’estate trascorsa, ed il freddo, ambasciatore dell’inverno ormai prossimo, lo fecero sentire stranamente vivo. Percorrendo la strada fiancheggiata da alberi d’acero e querce che portava al Wolf Neck, abbandonò improvvisamente dietro di sé i chilometri ed i foschi pensieri immergendosi nel tripudio di una natura trionfante. In quel momento ritrovò una parvenza di serenità, e niente avrebbe potuto desiderare maggiormente di quanto gli era spesso sembrato irraggiungibile.
Una volta tornato a casa non dimenticò quella sensazione di pace e di soffocata allegria che di solito si trova solamente in fondo ad un bicchiere. Quando casualmente intercettò sul web l’annuncio per un lavoro da svolgere in una piccola città nel Maine, ci pensò a lungo ed alla fine decise di buttarsi nell’avventura.
Freeport era un paesotto in stile nuova frontiera: una lunga strada principale con ai lati una spruzzata di graziose casette costruite in legno e qualche albergo a conduzione familiare, il mare ad est e la campagna tutt’intorno. Un luogo dall’anima schizofrenica, tanto calmo e poco popolato nei giorni feriali, quanto caotico e pieno di gente nei fine settimana e durante le festività, quando una marea di compulsivi schiavi dello shopping arrivava a bordo di qualunque tipo di mezzo di trasporto per approfittare dei tanti negozi “outlet” per i quali la cittadina era famosa. Gli venne da sorridere la prima volta che vide i visi arrossati, eccitati ed avidi dei visitatori che scrutavano le vetrine. Pensò che assomigliassero a quelli incontratiad Amsterdam, nella zona a luci rosse. L’unica differenza era che nella città olandese i richiami sollecitavano la lussuria ed invece in quel paese si stuzzicava la cupidigia, ma le espressioni vogliose di chi desiderava senza poterselo permettere erano più o meno le stesse. L’affollamento durava dall’orario di apertura degli esercizi commerciali fino a prima della cena. Allora i pullman ripartivano, le automobili lasciavano i parcheggi e tutto si spengeva come un falò che avesse bruciato con impeto fino all’ultimo dollaro per poi acquietarsi in attesa di riprendere vigore con l’arrivo della successiva ondata di potenziali clienti.
Spesso aveva pensato di voltare la pagina del libro della sua esistenza per aprire un capitolo nuovo da scrivere con altre parole, ma non aveva mai avuto né il coraggio né l’occasione per fare il grande balzo finché non lesse l’annuncio dell’Harraseeket Inn: l’albergo offriva un impiego dalle dieci di sera fino alle sei del mattino come “night manager”. Le mansioni non erano chiare, ma l’orario sembrava adattarsi perfettamente al suo ritmo circadiano, col quale non era mai riuscito a sintonizzarsi appieno, e l’idea di farsi pagare per assecondare l’insonnia, gli sembrava tanto assurda quanto invitante. Immaginava che durante la notte il lavoro si sarebbe svolto a rilento, con ampi intervalli di quiete, ed approfittandone avrebbe potuto ritagliarsi abbastanza tempo libero per leggere e scrivere in santa pace. Sarebbe andato a letto all’alba, dopo aver assistito al sorgere del sole, per svegliarsi poi verso mezzogiorno, perdendo solo una parte della mattina che, rinchiuso in qualche ufficio, non avrebbe comunque vissuto. Nel pomeriggio, avrebbe girellato per quel villaggio dove il saluto ricorrente quando ci s’incontrava era un: “Have a nice day!”, e sembrava detto con sincerità. Era consapevole che lo stipendio non sarebbe stato alto, ma non aveva grandi pretese.
Si diceva che Mrs. Grey, la proprietaria, avesse raggiunto i novant’anni, ma non ne dimostrava più di settanta. Piccola, magra e con la crocchia grigia dai capelli sempre ben tirati, sembrava una maestra all’antica che con disciplina e severità teneva in riga i suoi dipendenti. Sempre però con un sorriso che la rendeva inattaccabile da ogni problema di gestione che ritesse irrilevante, come ad esempio le condizioni di lavoro dei suoi sottoposti che non si potevano permettere di lamentarsi per qualche ora lavorata in più o per le spettanze non riconosciute. Lei diceva che erano tutti una grande famiglia e che, come in tutte le famiglie che si rispettino, si doveva sempre dare il massimo con generosità e senza mugugni, altrimenti non si era degni di stare nell’ambito della comunità. Non si poteva negare che curasse ogni più piccolo particolare con amore e questo i clienti non mancavano di notarlo segnalando il suo albergo come uno dei più accoglienti della costa.
La padrona gli fece un esame veloce e non volle sapere altro che il suo nome e da dove venisse. Guardò il passaporto e lo fissò a lungo negli occhi; questo per lei, veterana nel giudicare il suo prossimo, poteva bastare. Prese servizio quella stessa sera.
Non ne fu deluso. Dopo le undici di sera, quasi tutti i clienti si ritiravano nelle rispettive stanze mentre qualche tiratardi al bar preferiva la compagnia del bourbon alle chiacchere con gli impiegati. Quindi lui riprese in mano Guerra e Pace per affiancarsi ad Andrej nella battaglia di Borodino e, nel silenzio di una notte nel Maine, sentì chiaramente i colpi di cannone e le urla dei feriti. Un’altra sera accompagnò Renzo dall’azzeccagarbugli e, con tutta la buona volontà, non riuscì a convincere il contadinotto a lasciare a casa i polli per prendere qualche moneta, che sarebbe stata più convincente nel perorare la sua causa. Ebbe anche la tentazione di ributtarsi nell’inferno a fare il terzo incomodo tra Dante e Virgilio, ma forse loro gli avrebbero chiesto quali fossero i suoi peccati lasciandolo in qualche girone a trastullarsi con il contrappasso e pertanto pensò bene di soprassedere. Sbagliò solo quando si fece coinvolgere da un quasi compaesano. Steven King era nato a Portland, a pochi chilometri da dove stava lui, e per questo si fidò nel seguirlo a trovare uno strano pagliaccio. Vedendo che tutte le ombre intorno al suo desk si animavano pagina dopo pagina evocate dal racconto del maestro dell’horror, chiuse il libro ed aprì un fumetto di Milo Manara.
Cominciò anche a scrivere un romanzo, ma sapeva bene di non esserne all’altezza e spesso rileggeva, cancellava, strappava e tornava indietro in un complicato labirinto nel quale non riuscì mai ad aggrapparsi ad alcun filo di Arianna.
Le lunghe ore passate in solitudine lo fecero riflettere su tanti aspetti della sua vita passata e su quello che avrebbe potuto riservargli il futuro. Ma soprattutto si domandò cosa stesse facendo tanto distante da casa e da cosa stesse scappando. La risposta era facile: fuggiva da se stesso, dalla sua vita, cercando di estraniarsi e di perdersi lontano, nel desiderio di lasciare dietro di lui niente altro che lui. Ma come allontanarsi da chi non ti può lasciare neanche per un istante? Quale posto avrebbe potuto raggiungere per nascondersi alla consapevolezza di sé? E quanto sarebbe durata l’illusione di una catarsi impossibile? Si ritrovò cresciuto o invecchiato, prese coscienza o si rassegnò. Dovette arrendersi alla realtà anche se, in un recesso nascosto della sua anima, volle custodire un bagliore irragionevole di speranza.
Lasciò un biglietto dicendo che era dovuto partire all’improvviso. Non chiese neanche la liquidazione, sicuro di fare cosa gradita alla signora Grey.



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