Nei primi
giorni d’aprile dell’anno del signore 1567, col sorgere del sole, un brigantino
armato per una lunga traversata lasciò il porto di Southampton prendendo il
mare aperto. Il vento era debole ed il trinchetto e la maestra si gonfiavano a
tratti, solo il necessario per spingere avanti la nave. Sul cassero, in piedi,
Joshua Logan scrutava la vastità dell’oceano che, spaventoso ed ignoto,
appariva calmo e sornione come un gigantesco ondeggiante sudario pronto ad
accogliere le velleità dei pazzi che osavano provocarlo. Il capitano era un
marinaio di lungo corso ed i sette mari erano stati i suoi compagni fin dalla
giovinezza. Una presenza fonte di vita e di morte, consolatrice nelle notti
d’estate e nemica durante i fortunali, un rilucente specchio di mille illusioni
ed un inferno di gorghi senza fondo e di montagne d’acqua. La paura,
l’angoscia, il senso d’impotenza di fronte alla forza della natura, le
privazioni di cibo e la solitudine durante gli interminabili viaggi, avevano
precocemente incanutito la lunga barba ed i capelli dell’uomo, mentre il cuoio
della sua pelle rifletteva la corazza avvolta intorno alla sua anima. Tutto il
tempo, gli anni, passati lontano dalla civiltà con la sola compagnia di un
manipolo di marinai spesso raccolti tra la feccia dei porti, avevano forgiato
il suo carattere dandogli la capacità di comandare, ma togliendogli, ad una ad
una, ogni illusione sull’animo umano. Aveva visto i più abietti istinti
animaleschi manifestarsi nelle occasioni di pericolo o nella lotta per
sopravvivere. Mai una forma di compassione aveva mosso un individuo verso
l’altro, se questo significava andare contro il proprio egoismo, e solo nei
momenti di tranquillità quelli che chiamava i suoi uomini si dimostravano
diversi dagli animali più feroci. A terra una imbiancata di civiltà frenava i
comportamenti ribelli, ma a bordo solo il pugno di ferro del comandante poteva
far convivere chi era scampato alla forca od i fuggiaschi con l’anima più nera
della pece.
La nave
trasportava mercanzia varia da una sponda all’altra dell’oceano fermandosi nei
porti della costa del nuovo mondo dove i coloni europei stavano costruendo
città sempre più grandi. Le Americhe erano ricche di ogni ben di Dio derivante
dalla lussureggiante natura dei suoi territori, ma i regnanti europei volevano
l’oro strappato agli indigeni e per questo barili di perline e specchietti
riempivano le stive dei bastimenti come merce da barattare in cambio del
prezioso metallo. A volte le pepite ed i gioielli arrivavano in Europa sporchi
del sangue di chi non aveva voluto farsi ingannare, ma questo non importava
minimamente ai cristiani committenti.
Poteva
capitare che qualche gentiluomo chiedesse un passaggio sui mercantili, magari
perché aveva l’urgenza di partire, ed in questi casi una piccola cabina veniva
approntata vicino a quella del capitano. Così successe in quel viaggio, ed il
sacchetto di sovrane d’oro consegnato nelle mani di Joshua Logan compensò
abbondantemente il fastidio di avere un ospite a bordo. Il passeggero era un
giovane distinto, forse nobile, che non desiderava rivelare la sua identità.
Durante tutto il viaggio rimase chiuso nel suo alloggio, uscendo solo per
prendere i pasti insieme agli ufficiali, ma senza concedere alcuna confidenza.
Al comandate sembrava un paino azzimato ed in cuor suo lo disprezzava considerandolo
un debole protetto solo dai suoi privilegi nei confronti di un mondo feroce
che, senza lo scudo dei suoi natali, l’avrebbe sopraffatto in un baleno. Ma,
siccome aveva pagato, lo sopportò per tutto il viaggio fino a destinazione.
Dopo più di
due mesi per mare, il vascello arrivo nella Baia di Chesapeake e qui si
ormeggiò per concludere i suoi traffici. La sosta prevista era di una settimana
ed, allo scadere del tempo, la ciurma al completo si ritrovò a bordo. Doveva
risalire anche il passeggero, ma di lui non si avevano più notizie. Il capitano
decise di aspettarlo ancora un giorno e mandò due dell’equipaggio a cercarlo
nelle bettole del porto o nelle locande dove donne accoglienti facevano
dimenticare la misura del tempo ad uomini distanti dalle loro famiglie. I
marinai non riuscirono a trovare il gentiluomo e neanche ebbero alcuna informazione
su dove potesse essere finito, e lo riferirono al capitano. Logan, con una
magnanimità che non sapeva neanche lui di avere, aspettò ancora un giorno, ma
poi, abbandonando l’uccellino implume al suo destino, all’alba successiva dette
l’ordine di salpare.
Trascorsi i
primi giorni della traversata di ritorno, nei quali fu occupato a stabilizzare
la rotta ed a redigere l’inventario di carico per il giornale di bordo, il
capitano volle entrare nella cabina del passeggero. Intendeva frugare tra gli
effetti personali del gentiluomo per capire chi realmente fosse ed avere
qualche indicazione per avvertire, una volta giunti in porto, i familiari che
forse l’attendevano. Il marinaio non aveva nessuna paura ad ammettere di aver levato
le ancore senza aspettare, il codice della navigazione gli dava questa facoltà.
Anzi, gli imponeva di aver cura innanzi tutto del buon esito del viaggio,
compresa la puntualità negli spostamenti, anche se questo avesse comportato
trascurare gli interessi o le necessità di qualsiasi persona fosse imbarcata
sul veliero. E poi, pensava Logan, se quel disgraziato fosse stato tanto abile
o fortunato di non farsi vincere dalle mille insidie del nuovo mondo e dei suoi
abitanti, avrebbe potuto rimediare un passaggio su di un bastimento successivo.
Guardò quindi nel baule ai piedi del letto dove erano stipati vestiti ed
oggetti personali. Con un sorriso di scherno e di superiorità, tirò fuori abiti
dai colori sgargianti, camicie ornate di trine ed una serie di orpelli che
l’uomo di mare aveva visto solamente in qualche ricevimento di gala. Joshua
pensava che quei vestiti denotavano tutta la decadenza di personaggi buoni solo
a vivere sulle spalle di chi, come lui, affrontava la vita nella sua cruda
realtà. Al capitano scappò addirittura una sonora risata immaginando il
damerino, tremante, alle prese con una di quelle tempeste nelle quali si
trovava spesso a sguazzare fiero ed impavido. Continuò a rovistare e finalmente trovò un
diario con la copertina in marocchino rosso con sopra impressa una frase in
latino: “Amor vincit omnia” e, ancora una volta, sogghignò. Lo aprì e cominciò
a leggere. “Mia cara, scriverò su queste pagine ogni giorno con l’illusione di
averti vicino e di parlarti. Tu sai quanto mi è costato partire, ma non avrei
potuto sottrarmi al tuo desiderio più grande. La malattia ti sta togliendo tanto
e l’unico modo per me di aiutarti è nell’alleviare, per quanto io possa, almeno
qualcuna delle tante pene che ti affliggono. Quando esprimesti la volontà di
riabbracciare nostro figlio partito verso le Americhe e del quale non avevamo
più notizie, feci mia la missione di ritrovarlo, ad ogni costo. Conosci le mie
paure, il terrore che ho del mare, la debolezza del mio fisico che tante volte
mi ha reso inferiore ai miei coetanei. Il dottore che l’ultima volta che ti
visitò, guardò anche me, mi diede alcune pozioni e fece mille raccomandazioni
che, di fronte al compito che m’attendeva, dimenticai in fretta. Non mi importa
di rischiare la salute o peggio, saprò soffocare ogni ansia e mi illuderò di
essere, almeno per questa volta, degno di compiacerti. Troverò il nostro
ragazzo e per farlo m’inventerò quello che non m’appartiene. Mi ispirerò al tuo
coraggio e lo farò mio, negherò i miei limiti e scherzerò coi demoni della mia
pavidità e ti prometto di portare a termine il compito dettato dal tuo e dal
mio amore. Ci riuscirò, vedrai, e se così non fosse avrò comunque pagato il
prezzo della felicità di averti avuto accanto a me.”
Il capitano
non si aspettava di trovare, in poche righe, il racconto di una vita e soprattutto
il ritratto di una persona del tutto differente da come l’aveva giudicata. Si
rese conto che l’uomo dimostrava una forza d’animo inimmaginabile. Il coraggio
non è affrontare con sventatezza i pericoli o non provare la paura, al
contrario il vero coraggio sta nel vincere le proprie paure e rischiare
disinteressatamente per amore o per un ideale. Logan si pentì di aver giudicato
basandosi sulle apparenze. Sotto l’aspetto di un personaggio insignificante si
celava un vero uomo, se essere uomini significa vivere dando un senso alla
propria esistenza che vada oltre la soddisfazione dei bisogni contingenti. Continuò
a sfogliare le pagine del diario e, mentre approfondiva la conoscenza del
passeggero, nel contempo rimetteva in discussione anche se stesso. Per le
vicissitudini della vita, il capitano aveva avuto raramente l’occasione di
parlare con qualcuno che non si vergognasse delle proprie debolezze e che
traesse la forza dal sentimento e non dai muscoli. Capì che la domanda che, nelle
notti in coperta, spesso si poneva sul significato della propria vita come
guardiano di un manipolo di disperati, era mal posta poiché altro è il destino
di ogni essere umano. Rifletté, Logan, rifletté a lungo.
Un giorno, a
metà navigazione, il nostromo andò dal comandante a riferire che l’addetto alla
cambusa aveva aperto il barile del rum e si era ubriacato. Questo, a bordo, era
un delitto abbastanza grave. Il liquore era un diritto di tutti ed era concesso
a razioni ben definite e solo su indicazione del capitano. Bere alla spalle
degli altri era un furto particolarmente odioso ed estremamente malvisto dal
resto della ciurma. La punizione, secondo consuetudine, doveva comportare cinquanta
scudisciate legati all’albero di maestra. Logan chiamò il marinaio colpevole e,
già contravvenendo agli usi, ascoltò le ragioni che indusse a sua discolpa.
Venne fuori una storia di nostalgia della famiglia lontana e di disperazione
per un amore che forse il disgraziato non avrebbe più ritrovato. Balle, pensò
Logan, ma influenzato dal diario del gentiluomo, volle vedere un’anima
sofferente sotto la brutalità del cambusiere. Per quella volta lo graziò.
La ciurma
non la prese bene e quella notte stessa il capitano Joshua Logan fu ucciso
nella sua cuccetta con un largo squarcio che gli aprì la gola da un orecchio
all’altro.
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