martedì 4 luglio 2017

Joshua Logan

Nei primi giorni d’aprile dell’anno del signore 1567, col sorgere del sole, un brigantino armato per una lunga traversata lasciò il porto di Southampton prendendo il mare aperto. Il vento era debole ed il trinchetto e la maestra si gonfiavano a tratti, solo il necessario per spingere avanti la nave. Sul cassero, in piedi, Joshua Logan scrutava la vastità dell’oceano che, spaventoso ed ignoto, appariva calmo e sornione come un gigantesco ondeggiante sudario pronto ad accogliere le velleità dei pazzi che osavano provocarlo. Il capitano era un marinaio di lungo corso ed i sette mari erano stati i suoi compagni fin dalla giovinezza. Una presenza fonte di vita e di morte, consolatrice nelle notti d’estate e nemica durante i fortunali, un rilucente specchio di mille illusioni ed un inferno di gorghi senza fondo e di montagne d’acqua. La paura, l’angoscia, il senso d’impotenza di fronte alla forza della natura, le privazioni di cibo e la solitudine durante gli interminabili viaggi, avevano precocemente incanutito la lunga barba ed i capelli dell’uomo, mentre il cuoio della sua pelle rifletteva la corazza avvolta intorno alla sua anima. Tutto il tempo, gli anni, passati lontano dalla civiltà con la sola compagnia di un manipolo di marinai spesso raccolti tra la feccia dei porti, avevano forgiato il suo carattere dandogli la capacità di comandare, ma togliendogli, ad una ad una, ogni illusione sull’animo umano. Aveva visto i più abietti istinti animaleschi manifestarsi nelle occasioni di pericolo o nella lotta per sopravvivere. Mai una forma di compassione aveva mosso un individuo verso l’altro, se questo significava andare contro il proprio egoismo, e solo nei momenti di tranquillità quelli che chiamava i suoi uomini si dimostravano diversi dagli animali più feroci. A terra una imbiancata di civiltà frenava i comportamenti ribelli, ma a bordo solo il pugno di ferro del comandante poteva far convivere chi era scampato alla forca od i fuggiaschi con l’anima più nera della pece.
La nave trasportava mercanzia varia da una sponda all’altra dell’oceano fermandosi nei porti della costa del nuovo mondo dove i coloni europei stavano costruendo città sempre più grandi. Le Americhe erano ricche di ogni ben di Dio derivante dalla lussureggiante natura dei suoi territori, ma i regnanti europei volevano l’oro strappato agli indigeni e per questo barili di perline e specchietti riempivano le stive dei bastimenti come merce da barattare in cambio del prezioso metallo. A volte le pepite ed i gioielli arrivavano in Europa sporchi del sangue di chi non aveva voluto farsi ingannare, ma questo non importava minimamente ai cristiani committenti.
Poteva capitare che qualche gentiluomo chiedesse un passaggio sui mercantili, magari perché aveva l’urgenza di partire, ed in questi casi una piccola cabina veniva approntata vicino a quella del capitano. Così successe in quel viaggio, ed il sacchetto di sovrane d’oro consegnato nelle mani di Joshua Logan compensò abbondantemente il fastidio di avere un ospite a bordo. Il passeggero era un giovane distinto, forse nobile, che non desiderava rivelare la sua identità. Durante tutto il viaggio rimase chiuso nel suo alloggio, uscendo solo per prendere i pasti insieme agli ufficiali, ma senza concedere alcuna confidenza. Al comandate sembrava un paino azzimato ed in cuor suo lo disprezzava considerandolo un debole protetto solo dai suoi privilegi nei confronti di un mondo feroce che, senza lo scudo dei suoi natali, l’avrebbe sopraffatto in un baleno. Ma, siccome aveva pagato, lo sopportò per tutto il viaggio fino a destinazione.
Dopo più di due mesi per mare, il vascello arrivo nella Baia di Chesapeake e qui si ormeggiò per concludere i suoi traffici. La sosta prevista era di una settimana ed, allo scadere del tempo, la ciurma al completo si ritrovò a bordo. Doveva risalire anche il passeggero, ma di lui non si avevano più notizie. Il capitano decise di aspettarlo ancora un giorno e mandò due dell’equipaggio a cercarlo nelle bettole del porto o nelle locande dove donne accoglienti facevano dimenticare la misura del tempo ad uomini distanti dalle loro famiglie. I marinai non riuscirono a trovare il gentiluomo e neanche ebbero alcuna informazione su dove potesse essere finito, e lo riferirono al capitano. Logan, con una magnanimità che non sapeva neanche lui di avere, aspettò ancora un giorno, ma poi, abbandonando l’uccellino implume al suo destino, all’alba successiva dette l’ordine di salpare.
Trascorsi i primi giorni della traversata di ritorno, nei quali fu occupato a stabilizzare la rotta ed a redigere l’inventario di carico per il giornale di bordo, il capitano volle entrare nella cabina del passeggero. Intendeva frugare tra gli effetti personali del gentiluomo per capire chi realmente fosse ed avere qualche indicazione per avvertire, una volta giunti in porto, i familiari che forse l’attendevano. Il marinaio non aveva nessuna paura ad ammettere di aver levato le ancore senza aspettare, il codice della navigazione gli dava questa facoltà. Anzi, gli imponeva di aver cura innanzi tutto del buon esito del viaggio, compresa la puntualità negli spostamenti, anche se questo avesse comportato trascurare gli interessi o le necessità di qualsiasi persona fosse imbarcata sul veliero. E poi, pensava Logan, se quel disgraziato fosse stato tanto abile o fortunato di non farsi vincere dalle mille insidie del nuovo mondo e dei suoi abitanti, avrebbe potuto rimediare un passaggio su di un bastimento successivo. Guardò quindi nel baule ai piedi del letto dove erano stipati vestiti ed oggetti personali. Con un sorriso di scherno e di superiorità, tirò fuori abiti dai colori sgargianti, camicie ornate di trine ed una serie di orpelli che l’uomo di mare aveva visto solamente in qualche ricevimento di gala. Joshua pensava che quei vestiti denotavano tutta la decadenza di personaggi buoni solo a vivere sulle spalle di chi, come lui, affrontava la vita nella sua cruda realtà. Al capitano scappò addirittura una sonora risata immaginando il damerino, tremante, alle prese con una di quelle tempeste nelle quali si trovava spesso a sguazzare fiero ed impavido.  Continuò a rovistare e finalmente trovò un diario con la copertina in marocchino rosso con sopra impressa una frase in latino: “Amor vincit omnia” e, ancora una volta, sogghignò. Lo aprì e cominciò a leggere. “Mia cara, scriverò su queste pagine ogni giorno con l’illusione di averti vicino e di parlarti. Tu sai quanto mi è costato partire, ma non avrei potuto sottrarmi al tuo desiderio più grande. La malattia ti sta togliendo tanto e l’unico modo per me di aiutarti è nell’alleviare, per quanto io possa, almeno qualcuna delle tante pene che ti affliggono. Quando esprimesti la volontà di riabbracciare nostro figlio partito verso le Americhe e del quale non avevamo più notizie, feci mia la missione di ritrovarlo, ad ogni costo. Conosci le mie paure, il terrore che ho del mare, la debolezza del mio fisico che tante volte mi ha reso inferiore ai miei coetanei. Il dottore che l’ultima volta che ti visitò, guardò anche me, mi diede alcune pozioni e fece mille raccomandazioni che, di fronte al compito che m’attendeva, dimenticai in fretta. Non mi importa di rischiare la salute o peggio, saprò soffocare ogni ansia e mi illuderò di essere, almeno per questa volta, degno di compiacerti. Troverò il nostro ragazzo e per farlo m’inventerò quello che non m’appartiene. Mi ispirerò al tuo coraggio e lo farò mio, negherò i miei limiti e scherzerò coi demoni della mia pavidità e ti prometto di portare a termine il compito dettato dal tuo e dal mio amore. Ci riuscirò, vedrai, e se così non fosse avrò comunque pagato il prezzo della felicità di averti avuto accanto a me.”
Il capitano non si aspettava di trovare, in poche righe, il racconto di una vita e soprattutto il ritratto di una persona del tutto differente da come l’aveva giudicata. Si rese conto che l’uomo dimostrava una forza d’animo inimmaginabile. Il coraggio non è affrontare con sventatezza i pericoli o non provare la paura, al contrario il vero coraggio sta nel vincere le proprie paure e rischiare disinteressatamente per amore o per un ideale. Logan si pentì di aver giudicato basandosi sulle apparenze. Sotto l’aspetto di un personaggio insignificante si celava un vero uomo, se essere uomini significa vivere dando un senso alla propria esistenza che vada oltre la soddisfazione dei bisogni contingenti. Continuò a sfogliare le pagine del diario e, mentre approfondiva la conoscenza del passeggero, nel contempo rimetteva in discussione anche se stesso. Per le vicissitudini della vita, il capitano aveva avuto raramente l’occasione di parlare con qualcuno che non si vergognasse delle proprie debolezze e che traesse la forza dal sentimento e non dai muscoli. Capì che la domanda che, nelle notti in coperta, spesso si poneva sul significato della propria vita come guardiano di un manipolo di disperati, era mal posta poiché altro è il destino di ogni essere umano. Rifletté, Logan, rifletté a lungo.
Un giorno, a metà navigazione, il nostromo andò dal comandante a riferire che l’addetto alla cambusa aveva aperto il barile del rum e si era ubriacato. Questo, a bordo, era un delitto abbastanza grave. Il liquore era un diritto di tutti ed era concesso a razioni ben definite e solo su indicazione del capitano. Bere alla spalle degli altri era un furto particolarmente odioso ed estremamente malvisto dal resto della ciurma. La punizione, secondo consuetudine, doveva comportare cinquanta scudisciate legati all’albero di maestra. Logan chiamò il marinaio colpevole e, già contravvenendo agli usi, ascoltò le ragioni che indusse a sua discolpa. Venne fuori una storia di nostalgia della famiglia lontana e di disperazione per un amore che forse il disgraziato non avrebbe più ritrovato. Balle, pensò Logan, ma influenzato dal diario del gentiluomo, volle vedere un’anima sofferente sotto la brutalità del cambusiere. Per quella volta lo graziò.

La ciurma non la prese bene e quella notte stessa il capitano Joshua Logan fu ucciso nella sua cuccetta con un largo squarcio che gli aprì la gola da un orecchio all’altro.      

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