La sua
disgrazia era stata quella di aver frequentato L’Istituto San Clemente dei
Padri Scapoliti a Paderno del Grappa. Per molti anni era stato convittore,
dormendo e mangiando con molti altri ragazzi che, come lui, venivano
indottrinati dai buoni sacerdoti. Gli avevano insegnato le dottrine
umanistiche, i fondamenti della scienze matematiche e soprattutto l’educazione.
Si vestiva con giacca e cravatta fin dall’età di sei anni, era controllato
nelle letture e guardato a vista in quasi tutti i momenti della giornata.
Veniva ripreso se perdeva troppo tempo al computer, oltre quello considerato
legittimo per aiutarlo negli studi, la televisione era in una sala comune con
il telecomando a disposizione solo del Responsabile, e del telefonino non si
aveva notizia. In questi casi la famiglia ha le sue responsabilità, anche se
dettate dalle migliori intenzioni. L’avevano scaricato in collegio per formarlo
secondo i crismi della severità e del rigore pensando di dargli la stessa
impostazione che prima di lui aveva formato il padre ed il nonno. Non solo.
L’avevano chiamato Goffredo, che andava benissimo in un mondo popolato di
Manfredi, Sveve e Leopoldi con qualche sporadico Clemente o Clementina, ma così
facendo l’avevano reso vittima dei più sedicenti spiritosi che lo prendevano in
giro chiedendogli se si era messo la maglia di lana, o cose simili. E’ evidente
il facile “calembour” tra il suo nome e l’analoga espressione in dialetto
veneto. Insomma: una vitaccia. Che durò fino all’esame di maturità, dopo il
quale fu rispedito al mittente con un bel diploma in carta pergamena, con tanto
di stemmi e svolazzi, e tanti cari auguri. Tornò a Roma, e qui comincia il
dramma. Improvvisamente si trovò catapultato in un coacervo di Nandi, Giovà, Giorgè,
Coso e Cosa che non avevano una corrispondenza nel Martirologio, ma erano sicuramente
figli della tradizione popolare. Ogni aspetto della città era nuovo per lui.
Vedeva che quasi tutti camminavano a testa bassa, e fu stupito nel capire che non
si trattava di persone colpite da una perniciosa forma di cervicale, bensì
della postura adottata per seguire quanto appariva sullo schermo del telefono
cellulare. Camminando sentiva parlare qualcuno di “euri”, un’entità monetaria a
lui sconosciuta; altri, particolarmente attaccati agli avi, invocavano ad ogni
piè sospinto i “morti”, taluni facevano vocalizzi in continuazione articolando
le vocali: “Aho’!”. A dir del vero, i giovani sembravano anche piuttosto
complimentosi tra di loro apostrofandosi con un vicendevole: “Ah, bello!” al momento
d’incontrarsi, ma quando lui provò a rispondere con un cortese “anche lei è
prestante”, in caso l’interlocutore fosse maschio, oppure con: “mai quanto sia
graziosa lei”, rivolto ad una femmina, venne guardato male e con sospetto. Strano.
Anche esteticamente c’erano usi peculiari: la cravatta sembrava bandita dal
collo degli uomini e molte signore dovevano essere imparentate con Tarzan,
adornandosi di stoffe “animalier” maculate al di là della fantasia.
Goffredo non
ci si trovava. Solo dentro casa si sentiva a suo agio, ma a contatto col mondo
esterno era come un pesce fuor d’acqua, o un cavolo a merenda, il concetto è
quello. Soprattutto si sentiva solo. Aveva provato ad attaccare discorso con
qualche coetaneo, ma quando quelli parlavano di Totti lui non lo ricordava tra
gli Imperatori di Roma né capitano di un qualsivoglia vascello. Poi discutevano
di chi avesse il più recente Ahi Föhn, ma a lui sembrava che non ci fosse
niente di appetibile in un asciugacapelli che provocava dolore. Specialmente la
sera, i ragazzi si chiedevano dove fosse lo “sballo”, e Goffredo non capiva
perché dovessero rincorrere una forma storpiata dell’arte di Tersicore. Dopo
averci a lungo riflettuto, infine capì che la sua maledetta educazione lo aveva
tagliato fuori dal mondo dei giovani e che, per essere accettato, si sarebbe
dovuto adeguare al costume corrente. Da
ragazzo intelligente, trovò la soluzione più adatta: avrebbe studiato per
diventare anche lui un…come dicevano? Ecco: “Coatto”, che non presupponeva
l’essere in qualche modo forzati, dal latino “coactus” costretto, ma definiva
una specie di “enclave” nella società, una forma estetica di appartenenza, un
po’come nei Club inglesi, ma senza “regimental tie”.
Fece un
rapido, ma intenso, master di romanità attingendo alle fonti più autorevoli. Si
procurò diversi DVD con i film nei quali gli attori protagonisti, o i
comprimari, parlassero con le espressioni più tipiche del dialetto che fu di
Trilussa e Petrolini e le ripassò più volte. Divenne un fanatico di Mario
Brega, der Monnezza, di Maurizio Mattioli e perfino di Christian De sica nelle
sue interpretazioni più sguaiate. Non si può dire che giunse al limite di
pronunciare correttamente lo “tze, tze” alla maniera di Bombolo, ma ci giunse
dappresso. Da tutti questi campioni colse un insegnamento, ed ognuno gli fu
mentore nel suo percorso verso la coattaggine.
Venne quindi
il giorno dell’esame, ovvero si presentò al bar sotto casa per scambiare due
parole con il gruppo di giovani che lì stazionava regolarmente. Saranno stati
quattro o cinque ragazzi ed altrettante fanciulle, perennemente assorti
ciascuno nel proprio device elettronico sorseggiando bevande energetiche e
frizzantine.
-Bella,
regà! – Esordì correttamente Goffredo.
-E tu dando
eschi? – Gli rispose quello che sembrava il “primus inter pares”.
-Che nun m’hai
mai visto? C’hai gli occhi foderati de prosciutto?
-Ohh, nun t’allargà,
che sinnò te metto in tasca e te meno quanno c’ho tempo.
-M’arimbarzi!
Dai che offro a tutti ‘na biretta. – All’offerta d’amicizia, i giovani non
seppero sottrarsi e, con un investimento modesto, il neofita fu ben accetto in
compagnia.
-Senti un po’.
– Disse una biondina con grandi occhi blu e due trecce da collegiale – Ma tu, com’è
che te chiami? – Il ragazzo aveva preparato la risposta e, rinnegando il nome
che era stato del bisnonno ammiraglio, prontamente rispose:
-Oreste, ma
me poi chiamà “er paino” perché dicheno che c’ho ‘na certa elioganza.
-E’ vero, me
sembri un sorcio intinto all’olio! – Risero tutti alla battuta della ragazza, e
forse perché lei fu la prima a degnarlo d’attenzione, Goffredo alias Oreste si
perse nei suoi occhi blu cadendo innamorato a prima vista, come una pera cotta.
Si
frequentarono in gruppo, ma uscirono anche da soli. Non si facevano mancare
panini alla porchetta e grattachecche ed al ragazzo parve di avere trovato
veramente un grande amore, di quelli che durano per tutta la vita. Anche lei,
che si chiamava Jessica, ricambiava il sentimento ed entrarono sempre più in
confidenza. Ma Goffredo, in fondo all’anima, sentiva un perenne cruccio. Il
presupposto dell’amore è la sincerità, e lui viveva nella menzogna. Non aveva
il coraggio di rivelarsi per quello che era alla sua amata e per questo si
sentiva come se stesse perpetrando il più abietto dei tradimenti. Un giorno non
ce la fece più. Prese Jessica da parte e, col cuore in mano, si confidò:
-Devo farti
una confessione.
-Dimmi, amò.
– Rispose lei vagamente allarmata. – Ahò, stai in campana, che se m’hai tradito
te faccio due occhi neri che se te metti a masticà er bambù, er WWF e te
protegge.
- No, stai
tranquilla, non potrei mai. C’è altro. Vedi, in realtà non mi chiamo Oreste, ma
il mio nome è Goffredo…- E continuò spiegando tutta la situazione e le
motivazioni che l’avevano spinto a mentirle. Terminò dicendo:
-Ecco, mi
sono aperto a te, come le corolle del biancospino alla luce della luna. Ti
chiedo venia e spero che tu possa perdonarmi accettandomi per quello che sono.
La ragazza
rimase con la bocca aperta per lo stupore per un tempo indefinito, ma era bella
anche nell’imitazione della cernia. Poi si strinse le mani al petto e,
guardando il fidanzato con occhi languidi ed inumiditi da una furtiva lacrima,
così rispose:
-Oh, dolce
mio amato. Anch’io ti mentii. In realtà il nome mio sempre agli altri celai,
ma, in ver, mi appello Lucinda delle Piane di Grottaminarda. I famigli mi
chiamano contessina, ma solo entro le mura dell’avita magione. Simil al tuo
costume il mio, quando dovetti occultare la mia identità agli occhi dei ragazzi
coetanei. Soffrii e soffro, nel soffocare quanto è di elevato nel mio spirto
per non essere qual bianca mosca tra tutti.
Goffredo non
poteva credere alla sua fortuna, aveva trovato l’anima gemella.
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