lunedì 24 aprile 2017

Don Luigi

Il buon curato uscì dalla Canonica stringendosi addosso il cappotto lungo fino ai piedi. Quando l’aveva comprato, forse trent’anni prima, la stoffa era una bella alpaca nera pelosetta e caldissima, adesso il colore era virato su un grigio topo e nei pressi dei gomiti o sul fondoschiena chiazze spelate e lucide denunciavano tutta l’età del vetusto indumento. Ma a lui non importava. Don Luigi era ancora uno di quei sacerdoti all’antica che non davano importanza all’esteriorità badando più alla pulizia delle proprie intenzioni che al nitore degli indumenti. Il vescovo l’aveva, garbatamente, ripreso più volte incitandolo ad adeguarsi ai canoni estetici di una società che sull’apparenza basa molta parte dei suoi giudizi. Gli aveva anche regalato un clergyman di una bel tessuto morbido, ma lui l’aveva riportato al negozio cambiandolo con una serie di nuovi paramenti liturgici per l’altare di Santa Marta. A volte, il vecchio prete, si sentiva un po’ retrogrado ed antiquato, ma fintanto che il suo ministero si fosse basato su un testo di duemila anni fa, non vedeva la necessità di cedere alle false tentazioni della modernità. La passeggiata che faceva ogni sera verso il tramonto e prima del frugale pasto che consumava in solitudine, era una abitudine alla quale non veniva mai meno, salvo se impedito da qualche grave motivo. La riteneva necessaria per riflettere ed interrogarsi sulle tante miserie umane delle quali veniva a conoscenza nell’espletamento del suo ufficio pastorale, così come ogni volta cercava la propria consolazione ritrovando le ragioni della fede. La sua Chiesa era ai margini di un piccolo villaggio rurale, ed i mille sentieri che s’intrecciavano nei boschi e tra i prati d’intorno, sembravano corridoi di un magnifico edificio eretto dalla potenza del Creatore. Il susseguirsi delle stagioni e delle condizioni atmosferiche modificavano l’arredamento di quell’immensa Cattedrale eretta a gloria del Signore, mentre colori e forme sempre diverse lo stupivano ogni volta, anche alla sua non più tenera età. Don Luigi pensava e pregava, ma, soprattutto negli ultimi tempi, si trovava spesso ad implorare Domineddio di mantenerlo saldo nella sua vocazione. Una volta i religiosi leggevano solamente l’Osservatore Romano, quando capitava, e il breviario o la Bibbia erano i libri da sfogliare. Poi, col progresso, il mondo si era connesso e tramite la televisione, e poi il computer, tutti, compresi i preti, si erano trovati partecipi delle immense sciagure che si abbattevano continuamente su un’umanità dolente e spesso disperata. Nel piccolo salotto della Canonica, tramite quegli apparecchi, era entrato il viso di un bambino salvato dalle macerie di un terremoto, di una donna in fuga dalla carestia con in braccio un neonato innocente ed indifeso. Don Luigi aveva visto i drammi della guerra e malati spegnersi vinti da morbi incurabili, poveri che chiedevano aiuto e vite senza speranza, e ne aveva pianto. Ma, in qualche programma, si era anche stupito di quanta apparente e vacua ricchezza fosse nelle mani di una piccola parte di un mondo egoista e sordo. Tutto l’insieme di questa ingiustizia l’aveva, ormai che era vecchio, portato a chiedersi quello che aveva paura a pensare anche sottovoce a se stesso. Dov’era la Giustizia Divina o, ancora più dolorosamente, dov’era Dio di fronte alla sofferenza dell’Uomo che Lui aveva creato? Era sicuro di commettere un peccato mortale nel dubitare della presenza dell’Essere Supremo, e nello stesso tempo non voleva porsi quelle domande che implicavano anche l’inutilità stessa della sua intera vita, se mai avessero comportato una risposta contraria ai dogmi nei quali aveva sempre creduto. Però i dubbi lo assillavano in continuazione, e le sue passeggiate finivano sempre più raramente con la serenità di un tempo. Avrebbe voluto, anche solo per una volta, avere un segno, una manifestazione, che lo rassicurasse. Gli sarebbe bastato un cespuglietto che avesse preso fuoco mentre lo guardava o un ruscello che improvvisamente avesse interrotto il suo corso.  Cosa sarebbe costato all’Onnipotente far ruotare, poco poco, il sole nel cielo o far cadere qualche fiocco di neve in agosto? Sarebbe stato un piccolo sforzo che avrebbe salvato la sua anima e gli avrebbe ridato la pace. Un miracolino l’avrebbe fatto felice, piccolo, un emolumento simbolico che don Luigi credeva anche di meritare a fronte di tutta una vita al Suo servizio.
Una sera di primavera il cielo era limpido e le prime stelle della notte brillavano spendenti nell’aria tersa ed ancora fresca. Ma Don Luigi era particolarmente angosciato e preda dei suoi demoni. Era quasi disperato sentendo che nessuno rispondeva alle domande del suo cuore e, quasi in lacrime, si fermò in una piccola radura volgendo il viso verso la volta celeste e spalancando le braccia.
-Dio, se ci sei, dammi un segno! – gridò con tutto il fiato dei suoi stanchi polmoni.

Non c’era una nuvola e la luna mostrava un sorriso che sembrava di compatimento. Improvvisamente un lampo squarciò l’atmosfera, senza che nessun rombo di tuono ne avvisasse l’arrivo. La splendente saetta colpì il buon curato che si accasciò a terra privo di vita. I compaesani trovarono poi il suo corpo e furono tutti stupiti da quell’evento atmosferico del tutto inusuale, ma soprattutto si meravigliarono di come sul viso del prete non ci fosse segno né di dolore né di spavento. Don Luigi sorrideva, sembrava felice: era la risposta che aspettava. 

venerdì 7 aprile 2017

Giggi er fascio e Sergio er tromba

Quasi tutti i giorni, verso metà mattinata, Sergio faceva la sua passeggiata nel parco cittadino. Entrava dalla porta dei leoni e percorreva, di buon passo, il sentiero ghiaioso fino al cancello che portava alla rotonda. Da qui, svoltando sulla sinistra, affrontava la salitina verso il tempietto greco, e ritorno. A volte si allungava fino alla terrazza panoramica, ma doveva essere una giornata nella quale la schiena non si era fatta sentire ed il ginocchio non gli doleva, e questo non era tanto frequente. All’uomo piaceva percorrere i viali alberati specialmente in autunno, quando era tutto un infuocarsi dei gialli e rossi del fogliame ed i primi freddi facevano pregustare il ritorno a casa per gustarsi un buon tè caldo e profumato. Aveva invece in antipatia la primavera. La trovava “cafona” con quel vestirsi di fiorellini variopinti come una contadina nei giorni di festa. Per non parlare dell’allergia al polline e della sensazione di essere vestito sempre in maniera inadeguata: o troppo coperto soffrendo il caldo, o quasi estivo alla mercé dei refoli più freschi. Il giardino, in quell’orario, era poco frequentato. I bambini erano a scuola e gli adulti in età lavorativa stavano adempiendo ai loro compiti. Lui era ormai in pensione da qualche anno e, con la fine della sua attività, invece di avvilirsi come qualcuno dei suoi coetanei, riteneva di aver acquisito una saggezza nuova. Aveva avuto sempre un carattere fumantino, anche troppo, e spesso si era lasciato trascinare dall’entusiasmo prendendo decisioni avventate o menando le mani invece di discutere, ma adesso si sentiva quasi “zen”, un imperturbabile asceta. Specialmente verso i vent’anni, con l’impegno politico, non c’era fine settimana che non facesse a cazzotti in nome di quella ideologia che in seguito l’avrebbe tanto deluso. Sergio era stato un “compagno” duro e puro, come si diceva allora, ed anche il bolscevico più ortodosso sarebbe sembrato pavido ed indeciso in confronto all’incrollabile fede nel comunismo del militante italiano. Se avesse dovuto fare un bilancio dei tanti anni passati in Sezione, l’entusiasmo sprecato e le botte ricevute non erano stanti neanche lontanamente ripagati dal raggiungimento di quegli ideali che sembravano allora sacrosanti. Ma era acqua passata. Adesso, scherzando, diceva che perfino il Dalai Lama sarebbe sembrato aggressivo a paragone della sua nuova serenità. Gli piaceva fare le sue passeggiate in solitudine, ed anche se incontrava qualche conoscente, spesso faceva finta di non vederlo per non dover chiacchierare.
Quella giornata di metà aprile era nata male. Sembrava che i pollini più irritanti avessero deciso di provocare le mucose del suo naso, e per Sergio era un continuo starnutire e soffiare nelle migliaia di fazzolettini di carta che gli riempivano le tasche. Non voleva darla vinta alla primavera e quindi si era avventurato lo stesso tra i platani grondati di bianchi fiocchi e le redivive graminacee pensando che, in qualche maniera, si sarebbe abituato ai fastidiosi allergeni e che, dopo l’ennesimo starnuto, la parte tanto sollecitata sarebbe diventata quasi insensibile. Ovviamente non fu così ed, ormai sfiancato dall’impari combattimento, decise di fermarsi su una panchina per chiudere gli occhi e sfiammare le pupille. Purtroppo la seduta più vicina era già occupata da un signore, più o meno della sua età, che non gli sembrava aver mai visto prima. Non ne poteva più e si accasciò vicino all’estraneo accennando un segno di saluto che era il massimo della confidenza che era disposto a concedere. Ma lui era l’eccezione. Gli altri suoi coetanei bramavano di attaccare bottone con qualsiasi persona a portata di mano, e quindi:
-Buongiorno. – disse il vecchietto arrivato prima.
-Uhmmm.
-Vedo che lei non ama la bella stagione.
-Per me non è bella, fottuta primavera!
-Ah ah ah. Vedo che lei è un fan della Goggi. No, quella era “maledetta” primavera. Scusi, sto scherzando. Mi permetta di presentarmi: Luigi de Cortes, tanto piacere.
-Piacere mio. – Rispose Sergio, anche se pensava tutt’altro. Quel signore elegante, con un bel panama bianco, gli dava particolarmente sui nervi. Sembrava agiato e compiaciuto, con l’aria di leggera strafottenza tipica dei pensionati con un cedolino di importo superiore alla media.
-Io vengo raramente in questo giardinetto. Di solito rimango in villa o vado in campagna.
-Giardinetto…è il parco cittadino. Mi sembra bello.
-Sì, abbastanza. Anche se non è particolarmente curato. Si vede che i fiori sono stati piantati a caso, senza tenere conto delle nuance di colore. Ma al giorno d’oggi…
-Cosa?
-Non c’è più il senso estetico, il gusto del bello. Tutto viene fruito dalle masse che, perlopiù, sono ignoranti e si accontentano. – Abbiamo detto che Sergio si trovava in un momento di irritazione psico-fisica, e sentir parlare male delle masse, di quelle stesse masse per le quali si era tanto speso, era come sale sulle sue ferite.
-Caro signore, non è colpa del popolo se una classe dirigente plutocratica e dittatoriale ha sempre oppresso la povera gente. Se il proletariato avesse avuto accesso ai privilegi di chi ha sempre comandato, avrebbe imparato anche a combinare i fiorellini.
-Forse. La sento particolarmente acceso sulla questione. Non mi dica che lei è un nipotino di Stalin, quello zotico marxista.
-Non ho questo privilegio, altrimenti avrei saputo come comportarmi con chi sfotte la povera gente. – Mentre andava avanti questo battibecco, nella mente di Sergio si accendevano remoti ricordi. Il suono della voce di quel tale Luigi, la sua fisionomia, anche il modo di muoversi, gli stessi occhi con quel lampo di sfida, gli evocavano qualcosa. Stette per qualche in momento in silenzio, scavando e disseppellendo nei tempi andati, e poi improvvisamente se ne uscì:
-Ecco chi sei! – Urlò in faccia all’altro. Luigi fece un salto dalla panchina degno di un uomo assai più giovane di lui e, istintivamente, mise le mani avanti per ripararsi da quella furia inaspettata.
-Chi sono?
-Sei “Giggi er fascio” che guidava un gruppo de’ disgraziati a incendiarci le vetrine fuori dalla Sezione del Partito!
-Noooo, e tu sei Sergio detto “er tromba” per come urlavi ai tuoi compagni in occasione dei comizi.
-Esatto. – Gli rispose il primo che sentiva rinascere tutte le antiche rivalità e gli incominciavano a prudere le mani. –Ecco perché sei così stronzo. Ahò, non sei cambiato per niente, non te so’ bastate tutte le mazzate che hai preso.
-Guarda, che se le ho prese le ho anche date. Mi ricordo ti inseguii col casco in mano per insegnarti a vivere. Come scappavi…
-Chi scappava? A bello, aridimmelo se c’hai er coraggio. – Urlando e sbraitando, Sergio prese l’altro per il bavero della giacca alzando il pugno pronto a calarlo con forza, ancora una volta, sull’aristocratico naso. Anche Luigi era pronto al combattimento: rosso in faccia e digrignando i denti sembrava un mastino pronto al balzo verso il collo del nemico.
In quel momento passò un bambino di circa sei anni che, vedendo i due anziani personaggi dai capelli bianchi e con le rughe sul volto in piena lite e pronti ad azzuffarsi, si fermò guardandoli stupito.
-Cosa state facendo? Ma non vedete che siete due vecchi? I nonni non possono litigare, ormai sono vecchietti.
La vocina del fanciullo paralizzò i contendenti, e quella parola: “vecchi” li schiaffeggiò entrambi con la violenza della verità. Si scostarono e si ricomposero, un po’ vergognandosi del brutto spettacolo che stavano offrendo di sé.
-Hai ragione. – disse Sergio. –Siamo vecchi ormai, e dovremmo essere saggi o quanto meno cercare di dare il buon esempio. Scusaci, ci stavamo comportando male. – Anche Luigi si rivolse al piccolo:
-Si, certo, stavamo giocando. In fondo ci conosciamo da tanti anni, abbiamo vissuto esperienze simili e tutt’e due abbiamo un lungo percorso di vita. Potremmo dire di essere quasi amici. – Riprendendo il solito aplomb, Luigi si rivolse a Sergio:
-Mi sovviene la poesia di De Filippo: “’a livella” quando dice che, di fronte alla morte, le umane passioni perdono di significato. Certamente noi ancora non siamo trapassati, ma forse dovremmo mettere tutto nella giusta prospettiva e non sottoporre le nostre coronarie ad ulteriori sforzi, nevvero? – Sergio lo guardò perplesso, ancora accaldato dal recente sforzo.
-A Luì, senza passione se more, anche se forse c’hai ragione e dovremmo prenderla con più calma. Ma poi, la morte? Come te viene in mente? E parla per te! – Con queste parole, ed un’energica grattata nelle parti basse, Sergio diede un buffetto al piccolo impiccione, si alzò e riprese la sua passeggiata. Gli rimase per sempre il rimpianto di quell’ultimo pugno non dato.