“Buuzzz – buuzzz – buuzzz” Lo smart phone sul comodino
improvvisamente s’illuminò di luce propria e, seppure con la suoneria
disattivata, si agitò emettendo una vibrazione tanto fastidiosa quanto
penetrante. Anche se erano appena le sei del mattino, quello che anticamente si
chiamava telefono e che ormai era diventato quasi un alter ego per tutti gli
schiavi di una connessione globale forzata, non lo trovò impreparato. Aveva
puntato la sveglia per essere sicuro di alzarsi all’ora giusta, ma un chiodo
fisso nella mente gli aveva fatto passare una notte agitata tra brevi periodi
di sonno e lunghi momenti di veglia. Accolse quindi come una liberazione il
richiamo isterico del cellulare e, come fanno i cani uscendo dall’acqua, scrollò
la testa per liberarsi dalle scorie dei sogni che ancora gli frullavano dentro.
Poi tirò fuori le gambe e mise i piedi sul pavimento in cerca delle pantofole.
Quella mattina aveva molto lavoro da fare e tante cose alle quali dedicare la
sua attenzione, ma non riusciva a cancellare l’idea che lo stava perseguitando
dalla sera prima. Ne era stato tanto colpito perché forse, finalmente, avrebbe
potuto dare una svolta alla sua vita. Erano anni ormai che subiva un sopruso
dietro l’altro e la sua pazienza era giunta al limite. Sentiva che se non
avesse fatto qualcosa nel più breve tempo possibile, sarebbe esploso come una
pentola a pressione con la valvola tappata, ma fino a quel momento non aveva
avuto ben chiaro cosa avrebbe dovuto fare. L’ennesima notte insonne aveva finalmente
portato il proverbiale consiglio, ed ora si sentiva lucido e determinato come
mai prima nella vita. L’avrebbe ucciso. Adesso comprendeva la ragione per la
quale aveva sempre tenuto ben oliata la Beretta che suo padre aveva lasciato
nel cassetto della scrivania. Non era mai andato a sparare, ma tenere in
efficienza l’arma gli era sempre sembrato come un atto di doveroso rispetto nei
confronti del defunto genitore e poi perché sentiva che, in qualche modo, il
proprio destino era legato a quell’oggetto tanto inquietante quanto
rassicurante. E quindi era giunto il momento: gli avrebbe sparato. Si vedeva
nell’atto di togliere la sicura del revolver, puntare e tirare il grilletto.
Uno sbuffo di fumo sarebbe uscito dalla canna ed una detonazione l’avrebbe
assordato mentre, come in un film al rallentatore, avrebbe visto la pallottola
uscire per raggiungere il bersaglio. Si sarebbe goduto quei millesimi di
secondo con l’ansia del primo appuntamento d’amore, quando l’attesa
dell’avvenimento era tanto eccitante quanto lo stesso incontro. E poi avrebbe
visto nascere un fiore rosso sulla fronte della vittima ed il suo sguardo
spengersi con un’espressione mista di stupore ed ammirazione. Certo,
ammirazione per il coraggio che lui avrebbe dimostrato nell’eseguire il suo
compito e per la fredda determinazione nel rendersi protagonista di un atto che
con un solo colpo avrebbe cambiato irrevocabilmente il destino di due persone. Era
curioso di verificare se avrebbe provato compassione, ma non lo riteneva
probabile. Si sentiva un po’ come l’aquila che ghermisce il coniglio, senza
cattiveria ma senza neanche pietà, assassina solo per la necessità di farlo.
Non c’era scampo: l’avrebbe ucciso. Cosa gli aveva fatto per meritarselo? Lo
sapeva lui cosa gli aveva fatto, e questo era sufficiente. Tra i due, il
succube era senz’altro chi in quel momento giocava il ruolo del carnefice. L’assassino
poteva essere boia per un momento, ma la vittima era stata un aguzzino per tutta
la vita ed adesso era giunta la sua ora. Senza esitazione: l’avrebbe ucciso. Fece
una telefonata al lavoro per dire che non sarebbe andato, si vestì con cura ed
uscì dall’appartamento assicurandosi di aver spento tutte le luci. Nella tasca
del soprabito avvertiva il peso dell’arma che lo faceva sentire meno solo e
sicuro di sé come mai prima gli era successo. Si diresse a grandi passi dove
sapeva l’avrebbe trovato. L’immaginava di spalle, forse stava parlando ad altre
persone, con la solita aria spavalda ed ignaro di stare pronunciando le sue
parole finali e di cachinnare per l’ultima volta. L’avrebbe chiamato, per farlo
voltare, e poi…l’avrebbe ucciso. Non avrebbe detto niente perché lui sapeva, e
se non si fosse reso conto, sarebbe stato uguale. Dopo pochi isolati entrò nel
bar senza aver perso niente della sua determinazione. Il locale era affollato da
impiegati in pausa pranzo che flirtavano con segretarie dai tacchi alti e da
mangiatori compulsivi di hamburger e patatine. La sua vittima era là, lo
sentiva. Era pronto: l’avrebbe ucciso. Aveva soltanto ancora un ultimo dubbio
da risolvere, ma in fondo non era importante. Mentre puntava l’arma si chiese
chi, fra quella massa di sconosciuti, sarebbe stato il predestinato. In quel
momento una tra le persone appoggiate al banco del bar si voltò casualmente ed
il suo sguardo incrociò quello del giustiziere. L’uomo con la pistola in mano s’illuminò
di un sorriso soddisfatto: il destino glielo aveva indicato. Se Pietro avesse
seguito il consiglio della moglie e non fosse uscito quella sera, se il bar
fosse stato chiuso, se lui avesse accettato l’invito a giocare al biliardo, se…Ma
l’appuntamento era al bancone del bar con un bicchiere in mano e la Morte non l’avrebbe
perdonato se l’avesse mancato. Se a Carlo fosse tremata la mano, ma la Morte
non l’avrebbe perdonato se avesse esitato. In fondo, andò tutto come era
previsto e tutti giocarono il ruolo in commedia per il quale erano giunti a
quel punto. E’ un universo ordinato. Può essere una consolazione.
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