sabato 25 marzo 2017

Brahms, mi piace?

Ma Brahms mi piace davvero? Ero a Parigi per un congresso che si era rivelato noiosissimo a proposito delle nuove tecniche odontoiatriche di implantologia al titanio. Il terzo giorno non ce la feci più. Con l’animo di un liceale che fa la marachella di nascosto ai genitori, non mi presentai nell’aula dove diversi dotti conferenzieri avrebbero continuato a dibattere con pedanteria sulle più recenti scoperte per curare pazienti sempre più esigenti, destreggiandosi con abilità tra le suggestioni economiche proposte dalle case farmaceutiche e gli ultimi scrupoli della deontologia professionale. Con lo stesso vago rimorso di quando marinavo la scuola, ma con la medesima leggera ed incosciente euforia, quel pomeriggio di aprile uscii dal mio albergo di Avenue Montagne senza una meta precisa. Ero deciso a godermi la primavera parigina ed il senso di libertà che si prova quando nessuno ti conosce e non hai la responsabilità di indossare alcuna maschera. Un boulevard dopo l’altro ed, alle sei del pomeriggio, stanco della camminata, mi fermai ad un Cafè per una birra. Presi posto nella veranda, in uno dei tanti tavolinetti di ferro battuto, mentre il chiacchiericcio delle persone intorno faceva da sottofondo per una scena di vita del tutto diversa da quella a cui ero abituato. Il liquido ambrato e fresco appannava il bicchiere dandomi il sollievo richiesto dai primi caldi e dalla lunga passeggiata, e la mia mente vagava su pensieri piacevoli. Non poteva essere altrimenti in una città così bella. L’aria fresca faceva ondeggiare i mandorli già in fiore e le persone in cammino sui marciapiedi sembravano comparse di un film di Cukor. Avevo lasciato la mia famiglia lontana per il tempo di adempiere a questo noioso dovere e avevo ancora due giorni di giustificata libera uscita che intendevo godermi appieno. Intendiamoci: senza alcun fine malizioso, ma la routine quotidiana fatta di bollette da pagare, problemi sul lavoro e tutto il resto che normalmente si affronta per andare avanti, alla lunga diventano un fardello pesante da caricarsi sulle spalle.
Stavo quindi sorseggiando la mia birra con un sorrisetto sulle labbra e nel contempo osservavo i passanti, quando la mia attenzione fu attratta da una giovane signora. Molto elegante, con un grande cappello grigio a completare una mise in tinta, passeggiava lungo il marciapiede. Andava con una strana andatura claudicante che denotava una zoppia molto pronunciata o un grave problema con la sua scarpa destra. Ad un certo punto, evidentemente, la signora non ce la fece più. Si appoggiò al muro del palazzo vicino e, con molta non calanche, si tolse la calzatura. Guardò dentro con evidente fastidio, scrollò la scarpa e ne fece uscire un sassolino, al quale leverei comodamente il diminutivo. Poi, sempre con molta classe e come se fosse sola nel suo boudoir, si rimise la decolté e riprese il suo cammino. Non so perché quella scena mi affascinò tanto. Non era successo niente di speciale, e forse era proprio questo. Quella donna aveva compiuto dei gesti quotidiani, e quasi volgari, con una eleganza ed una disinvoltura che forse solo una parigina può avere. Cosa mi scattò nella mente? Certo non l’istinto predatore del pappagallo latino né, tantomeno, la voglia di una poco probabile avventura. Mi alzai dal tavolino, lasciando una cifra che probabilmente avrebbe pagato almeno cinque delle mie consumazioni, e cominciai a seguire la donna. Che intenzioni avevo? Non lo sapevo. Nessuna, se non la curiosità di vedere come si muovesse un animale tanto diverso dalla fauna alla quale ero abituato. Lei, liberata dal fastidioso impiccio, si mosse spedita verso la strada che conduceva verso l’Opera Bastille. Standole dietro non potei fare a meno di notare come il movimento dei suoi fianchi ricordasse il moto sinuoso delle onde del mare. Ciò che in un’altra donna ed in un altro posto avrei considerato voluto e civettuolo, in lei sembrava insito alla sua natura, parte del suo essere donna fatta per essere ammirata, e forse amata. Si diresse spedita verso il teatro ed entrò puntando al botteghino. Io sempre dietro, con la speranza che non se ne avvedesse. Comprò un biglietto ed entrò nella sala. Mi avvicinai alla locandina per vedere quale spettacolo fosse in programmazione. Era la sinfonia n. 3 di Brahms diretta dal Maestro Von Rischovich con l’orchestra dell’Opera di Berlino. Mi piace la musica, un po’ tutta. Dovessi fare una classifica metterei prima il rock/blues poi il pop, quindi l’opera e poi la sinfonica. Spesso, la sera, mi siedo al computer per scrivere le mie cose mettendo le cuffie dove risuonano i classici degli anni sessanta. Se proprio mi sento in vena di intellettualismi, posso mandare la quinta di Beethoven o un Mozart; raramente Chopin, troppo triste. Brahms, sinceramente: sconosciuto. Ero arrivato fino a lì, l’avventura è l’avventura: comprai il biglietto ed entrai nella sala. C’era poca gente sparsa senza un ordine preciso. Individuai subito il cappello grigio. I posti erano numerati, ma nessuno mi avrebbe detto niente se mi fossi messo dietro la signora in una poltrona libera. Così feci. Perché e con quale scopo? Non so e nessuno, con tutta sincerità. L’orchestra era schierata ed, ad un cenno del primo violino, tutti i suoi componenti si alzarono per accogliere con un applauso il Maestro. Due colpi al leggio ed il concerto iniziò. Fui rapito dai primi movimenti, ed il basso accompagnamento dei violoncelli sottolineò una melodia che mi prese con la forza che solo la musica può avere. Il cappello avanti a me ogni tanto si muoveva seguendo l’andamento del concerto, s’impennava sottolineando un rullo dei timpani o si voltava da una parte all’altra come per dare maggiore attenzione ad una parte degli strumenti. Finché non ci fu una pausa tra i due tempi dell’esecuzione. In quel momento osai qualcosa che mai avrei immaginato potesse essere nel mio carattere. Mi sporsi verso la signora avanti a me e le dissi, in inglese visto il mio scarsissimo francese:
-Mi scusi avrebbe un programma del concerto? - Lei si voltò. Le vidi, per la prima volta, gli occhi. Si dice che quello che affascinò Richard Burton fu il viola profondo degli occhi di Liz Taylor. Non saprei definire, o non ricordo, il colore dei suoi occhi, ma il suo sguardo mi inchiodò alla poltrona del teatro.
-Le piace Brahms? - mi chiese. Non seppi rispondere. La domanda era troppo difficile. Lo sguardo troppo impegnativo. Già solo il contatto verbale troppo pericoloso. Troppo, troppo di tutto. Biascicai qualcosa in risposta e mi ritrassi spaventato da una Circe che avrebbe potuto essere domata solo da un Ulisse molto più forte di me.
All’intervallo uscii dal teatro fiero di aver resistito alla tentazione di quella sirena, ma anche con un po’ di rimpianto per un’avventura non vissuta. Fui saggio o solamente pavido? Mi lasciai scappare una Leslie Caron da accompagnare al “Lapin Agile” di Montmartre? Je ne sais pas. Forse è meglio vivere con l’illusione di un sogno che si sarebbe potuto realizzare piuttosto che con il segno rosso di uno schiaffone sulla guancia. Forse.

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