lunedì 27 marzo 2017

Lui era diverso

Il mendicante sentì tintinnare una moneta sul selciato accanto a lui ed allungò una mano per prenderla, ma non vedeva ed, a tentoni, spazzò per terra raccogliendo solo polvere ed un altro frammento di disperazione. I viandanti gli passavano accanto con passi frettolosi in una confusione disordinata che somigliava al frenetico ronzio di un alveare quando tra le api cade un corpo estraneo a disturbarle. Nessuno si fermava, ma spesso le persone si scontravano tra loro e poi si toccavano in segno di scusa o solo per scansarsi. Anche se il negozio del barbiere lungo la via aveva esposto un cartello di chiusura in vetrina, molti uomini provavano a spingere la maniglia trovando la porta serrata. Qualcuno scendeva dal marciapiede per attraversare la strada, ma a pochi era concesso di raggiungere il lato opposto rimanendo incolume. Le macchine non si fermavano mai e la fortuna non era sempre dalla parte dei pedoni che tentavano l’avventura. Le stesse autovetture spesso cozzavano tra loro, poiché nessuno rallentava agli incroci, ed ai bordi delle carreggiate si ammucchiavano rottami e pezzi sparsi di ferraglia. Il motivo per il quale in città regnava quel caos era semplice ed evidente: tutti gli abitanti vivevano senza la testa. Non si conosceva la causa della malformazione né era spiegabile il mistero per il quale i corpi conducevano un’esistenza pressoché normale pur con quella amputazione. Sia i maschi che le femmine potevano provare dei sentimenti ed, in qualche maniera, si nutrivano e lavoravano. I bambini nascevano dalle loro unioni e crescevano, quando con molta buona sorte riuscivano ad evitare i continui pericoli. Esisteva l’amore e l’amicizia, ma tutto si esprimeva tramite il tatto, visto che sopra al collo non c’erano labbra per baciare, occhi per riconoscersi o orecchie per sentire. Era quella la normalità nella piccola città e nel resto del mondo, per quanto quegli abitanti ne sapessero. Ma la natura ogni tanto si diverte a fare degli scherzi e tanto fu lo stupore della madre di Davide quando si avvide che il figlio era nato con un cranio sviluppato. La povera donna mantenne il segreto sperando che forse, un giorno, quell’escrescenza sarebbe caduta da sola. Il ragazzo crebbe con due grandi occhi blu ed una folta chioma e, solo fra tanti, poteva udire il rumore del mare e cantare delle melodie che s’inventava, perché nessuno sapeva cos’era la musica. Era consapevole della sua diversità e un po’ se ne vergognava, ma gli altri, non vedendolo, non se ne accorgevano quasi mai. Un giorno incontrò una ragazza con appesa al collo tronco una catenina con scritto “Alice” e se ne innamorò. Lei aveva una figura sinuosa e bellissima e le sue mani, affusolate e pallide, sembravano due farfalle svolazzanti mentre cercava di farsi capire o di esprimere qualche concetto. Davide la toccò per presentarsi e guidò i polpastrelli di lei sulla sua figura per darle un’idea di sé, ma stette bene attento a non portare l’esplorazione oltre il collo per non rivelare la sua deformità. S’incontrarono più volte, dandosi appuntamento su di una panchina nel giardino comunale, ed anche se solo lui poteva sentire il profumo dell’erba o vedere il colore del cielo, nei loro cuori nacque la passione. Il ragazzo avrebbe protetto la sua innamorata e quello che lui aveva in più nei sensi, Alice l’avrebbe compensato con la dolcezza. Davide era deciso a chiederle di sposarlo e quindi, in un giorno di primavera, le diede appuntamento andandole incontro con un grade fascio di primule e giaggioli tra le braccia. Quando s’incontrarono si vedeva chiaramente, dal fremito del corpo e dalla mimica delle mani, che Alice era felicissima, e di slancio lo abbracciò. Carezzava il suo amato e lo stringeva con ardore, ma nell’entusiasmo le sue estremità salirono su per il collo di Davide. Invece di trovare un troncone, come in lei stessa ed in tutti gli altri, Alice sentì qualcosa di inaspettato: una cosa tonda piena di umidi anfratti e pelosa. Lo allontanò bruscamente ritraendosi schifata. Il suo amore era un mostro! Si spaventò moltissimo e corse via agitando le braccia disperata. Davide sentì crollargli il mondo addosso. Poteva capire la ragazza, ma lui non aveva nessuna colpa nell’essere com’era. In fondo quello che avrebbe dovuto importare era solamente il sentimento che sentiva dentro di sé e non il suo aspetto esteriore. Passò giornate piangendo e maledicendosi. Cosa contava bearsi dei tramonti o del canto degli uccelli, a cosa gli servivano queste superflue capacità se non poteva essere felice? Non dormì per molte notti interrogandosi su come avrebbe potuto convincere Alice ad accettarlo o sulla maniera di farsi in qualche modo perdonare per la bugia che le aveva detto. Era stata una piccola menzogna dettata dalla paura di un rifiuto, ma anche se lei non avesse tenuto in conto l’inganno, certamente non sarebbe mai stata in grado di vincere la repulsione nel sentire una testa quando l’avrebbe toccato. Si arrovellò ancora per giorni, finché per caso non si trovò a sfogliare un vecchio libro con delle illustrazioni che doveva appartenere ad un’altra era o ad un mondo perduto. Lì trovò la soluzione del suo problema ed il suo volto, dapprima perennemente corrucciato, si aprì in un largo sorriso. Si armò di una certa quantità di travi e di legname e si procurò gli attrezzi necessari. Passò anche dal fabbro che, pur non capendo il motivo della richiesta, gli fornì quanto di meglio aveva in bottega. Si mise quindi al lavoro di buona lena per fabbricare il macchinario che aveva in mente. Segò, piallò, inchiodò, passò funi e grasso per lubrificare ingranaggi e guide di scorrimento, e dopo un certo tempo poté finalmente rimirare la sua opera compiuta. Il manufatto era imponente e lucido di cera e vernice, e Davide lo guardò compiaciuto e soddisfatto, era sicuro che avrebbe funzionato alla perfezione. Chiuse il libro con la figura che l’aveva ispirato e lesse la didascalia scritta sotto: “ghigliottina”. Tutti i corpi di sua conoscenza vivevano senza testa e non c’era pertanto alcuna ragione che anche il suo non avrebbe fatto lo stesso, e quindi si stese sulla panca appoggiando il collo in corrispondenza della lama. In mano teneva la corda per sbloccare la caduta della mannaia, ma prima di procedere guardò per un ultima volta in direzione della finestra. In quel momento pioveva e le gocce d’acqua avevano disegnato un reticolato iridescente sui vetri, mentre uno spicchio di luna cercava di farsi largo tra le scure nubi spandendo un lattiginoso chiarore che si rifletteva sui tetti bagnati delle case. Davide era consapevole che avrebbe perso questo e tutti gli altri spettacoli della natura, ma pensando ad Alice, con un sospiro, tirò la fune e la macchina fece il suo dovere. La testa rotolò sul pavimento con gli occhi chiusi ed un sorriso sulle labbra. Dopo qualche minuto di immobilità, Davide si rialzò dal ceppo anche se un po’ malfermo sulle gambe. Barcollò in direzione della porta ed, a tentoni, trovò l’uscita dirigendosi verso l’abitazione della sua amata. Doveva abituarsi alla sua nuova condizione e spesse volte inciampò andando a sbattere contro altre persone o i muri delle case. Casualmente dette un calcio ad un bastone e lo raccolse per aiutarsi, mentre sentiva il cuore traboccante di gioia.

Lungo il corso di quella città, per molti anni a venire, due amanti senza testa passeggiarono tenendosi per mano. Lei aveva qualche fiore di primula e giaggiolo appuntato sulla veste e lui si appoggiava ad un bastone. Anche senza occhi, si vedeva che erano felici.


   

sabato 25 marzo 2017

Brahms, mi piace?

Ma Brahms mi piace davvero? Ero a Parigi per un congresso che si era rivelato noiosissimo a proposito delle nuove tecniche odontoiatriche di implantologia al titanio. Il terzo giorno non ce la feci più. Con l’animo di un liceale che fa la marachella di nascosto ai genitori, non mi presentai nell’aula dove diversi dotti conferenzieri avrebbero continuato a dibattere con pedanteria sulle più recenti scoperte per curare pazienti sempre più esigenti, destreggiandosi con abilità tra le suggestioni economiche proposte dalle case farmaceutiche e gli ultimi scrupoli della deontologia professionale. Con lo stesso vago rimorso di quando marinavo la scuola, ma con la medesima leggera ed incosciente euforia, quel pomeriggio di aprile uscii dal mio albergo di Avenue Montagne senza una meta precisa. Ero deciso a godermi la primavera parigina ed il senso di libertà che si prova quando nessuno ti conosce e non hai la responsabilità di indossare alcuna maschera. Un boulevard dopo l’altro ed, alle sei del pomeriggio, stanco della camminata, mi fermai ad un Cafè per una birra. Presi posto nella veranda, in uno dei tanti tavolinetti di ferro battuto, mentre il chiacchiericcio delle persone intorno faceva da sottofondo per una scena di vita del tutto diversa da quella a cui ero abituato. Il liquido ambrato e fresco appannava il bicchiere dandomi il sollievo richiesto dai primi caldi e dalla lunga passeggiata, e la mia mente vagava su pensieri piacevoli. Non poteva essere altrimenti in una città così bella. L’aria fresca faceva ondeggiare i mandorli già in fiore e le persone in cammino sui marciapiedi sembravano comparse di un film di Cukor. Avevo lasciato la mia famiglia lontana per il tempo di adempiere a questo noioso dovere e avevo ancora due giorni di giustificata libera uscita che intendevo godermi appieno. Intendiamoci: senza alcun fine malizioso, ma la routine quotidiana fatta di bollette da pagare, problemi sul lavoro e tutto il resto che normalmente si affronta per andare avanti, alla lunga diventano un fardello pesante da caricarsi sulle spalle.
Stavo quindi sorseggiando la mia birra con un sorrisetto sulle labbra e nel contempo osservavo i passanti, quando la mia attenzione fu attratta da una giovane signora. Molto elegante, con un grande cappello grigio a completare una mise in tinta, passeggiava lungo il marciapiede. Andava con una strana andatura claudicante che denotava una zoppia molto pronunciata o un grave problema con la sua scarpa destra. Ad un certo punto, evidentemente, la signora non ce la fece più. Si appoggiò al muro del palazzo vicino e, con molta non calanche, si tolse la calzatura. Guardò dentro con evidente fastidio, scrollò la scarpa e ne fece uscire un sassolino, al quale leverei comodamente il diminutivo. Poi, sempre con molta classe e come se fosse sola nel suo boudoir, si rimise la decolté e riprese il suo cammino. Non so perché quella scena mi affascinò tanto. Non era successo niente di speciale, e forse era proprio questo. Quella donna aveva compiuto dei gesti quotidiani, e quasi volgari, con una eleganza ed una disinvoltura che forse solo una parigina può avere. Cosa mi scattò nella mente? Certo non l’istinto predatore del pappagallo latino né, tantomeno, la voglia di una poco probabile avventura. Mi alzai dal tavolino, lasciando una cifra che probabilmente avrebbe pagato almeno cinque delle mie consumazioni, e cominciai a seguire la donna. Che intenzioni avevo? Non lo sapevo. Nessuna, se non la curiosità di vedere come si muovesse un animale tanto diverso dalla fauna alla quale ero abituato. Lei, liberata dal fastidioso impiccio, si mosse spedita verso la strada che conduceva verso l’Opera Bastille. Standole dietro non potei fare a meno di notare come il movimento dei suoi fianchi ricordasse il moto sinuoso delle onde del mare. Ciò che in un’altra donna ed in un altro posto avrei considerato voluto e civettuolo, in lei sembrava insito alla sua natura, parte del suo essere donna fatta per essere ammirata, e forse amata. Si diresse spedita verso il teatro ed entrò puntando al botteghino. Io sempre dietro, con la speranza che non se ne avvedesse. Comprò un biglietto ed entrò nella sala. Mi avvicinai alla locandina per vedere quale spettacolo fosse in programmazione. Era la sinfonia n. 3 di Brahms diretta dal Maestro Von Rischovich con l’orchestra dell’Opera di Berlino. Mi piace la musica, un po’ tutta. Dovessi fare una classifica metterei prima il rock/blues poi il pop, quindi l’opera e poi la sinfonica. Spesso, la sera, mi siedo al computer per scrivere le mie cose mettendo le cuffie dove risuonano i classici degli anni sessanta. Se proprio mi sento in vena di intellettualismi, posso mandare la quinta di Beethoven o un Mozart; raramente Chopin, troppo triste. Brahms, sinceramente: sconosciuto. Ero arrivato fino a lì, l’avventura è l’avventura: comprai il biglietto ed entrai nella sala. C’era poca gente sparsa senza un ordine preciso. Individuai subito il cappello grigio. I posti erano numerati, ma nessuno mi avrebbe detto niente se mi fossi messo dietro la signora in una poltrona libera. Così feci. Perché e con quale scopo? Non so e nessuno, con tutta sincerità. L’orchestra era schierata ed, ad un cenno del primo violino, tutti i suoi componenti si alzarono per accogliere con un applauso il Maestro. Due colpi al leggio ed il concerto iniziò. Fui rapito dai primi movimenti, ed il basso accompagnamento dei violoncelli sottolineò una melodia che mi prese con la forza che solo la musica può avere. Il cappello avanti a me ogni tanto si muoveva seguendo l’andamento del concerto, s’impennava sottolineando un rullo dei timpani o si voltava da una parte all’altra come per dare maggiore attenzione ad una parte degli strumenti. Finché non ci fu una pausa tra i due tempi dell’esecuzione. In quel momento osai qualcosa che mai avrei immaginato potesse essere nel mio carattere. Mi sporsi verso la signora avanti a me e le dissi, in inglese visto il mio scarsissimo francese:
-Mi scusi avrebbe un programma del concerto? - Lei si voltò. Le vidi, per la prima volta, gli occhi. Si dice che quello che affascinò Richard Burton fu il viola profondo degli occhi di Liz Taylor. Non saprei definire, o non ricordo, il colore dei suoi occhi, ma il suo sguardo mi inchiodò alla poltrona del teatro.
-Le piace Brahms? - mi chiese. Non seppi rispondere. La domanda era troppo difficile. Lo sguardo troppo impegnativo. Già solo il contatto verbale troppo pericoloso. Troppo, troppo di tutto. Biascicai qualcosa in risposta e mi ritrassi spaventato da una Circe che avrebbe potuto essere domata solo da un Ulisse molto più forte di me.
All’intervallo uscii dal teatro fiero di aver resistito alla tentazione di quella sirena, ma anche con un po’ di rimpianto per un’avventura non vissuta. Fui saggio o solamente pavido? Mi lasciai scappare una Leslie Caron da accompagnare al “Lapin Agile” di Montmartre? Je ne sais pas. Forse è meglio vivere con l’illusione di un sogno che si sarebbe potuto realizzare piuttosto che con il segno rosso di uno schiaffone sulla guancia. Forse.

venerdì 17 marzo 2017

Il futuro è cambiato



-Vedi caro, il futuro è cambiato.
-Ma nonno, come è possibile che cambi qualcosa che non è ancora avvenuto?
-Non te lo so dire, nipote mio, ma quando avevo intorno ai dieci anni, più o meno la tua età, nel domani che immaginavo c’era il cielo solcato da macchine volanti con alla guida personaggi vestiti con tute attillate dai colori sgargianti. Anche i giornali e la televisione raccontavano di imminenti meravigliose scoperte che avrebbero migliorato la vita sulla Terra. Una cagnetta era già stata lanciata nello spazio per verificare se un essere vivente sarebbe sopravvissuto e ben presto anche un uomo avrebbe avuto la possibilità di arrivare su altri pianeti.
-Beh, a parte i dischi volanti, poi in realtà gli astronauti sono scesi sulla Luna, no? E quindi quel futuro si è in parte avverato.
-In un certo senso, ma il sogno della conquista dello spazio era legato al progresso scientifico per migliorare la vita degli uomini, e questo è avvenuto solo marginalmente.
-Ho capito, ma forse quella storia era il vero futuro d’allora.
-Certo, ma era un inganno.
-Che vuoi dire?
-Quando diventai più grande, diciamo intorno ai vent'anni, dell'avventura spaziale erano rimasti solo alcuni sassi nelle teche di qualche museo e poco altro. La Luna era tornata nella sua silenziosa solitudine e chi si era confrontato nella conquista del cosmo si concentrò solo nella corsa agli armamenti. L’immagine del futuro dei giovani come me, allora si modificò. Non più proiettati in scenari fantascientifici, ma impegnati nel cambiare la società qui sulla Terra.
-Facevate bene, vero nonno?
-Diciamo che le intenzioni erano buone, nipotino mio, ma le illusioni di una generazione si scontrarono con la realtà. Noi volevamo la pace nel mondo, la fratellanza tra gli uomini e qualcuno immaginava addirittura una nuova era. Si diceva che la forza di una rivoluzione non violenta avrebbe portato ad una società più giusta e libera per tutti.
-Sarebbe stato bellissimo.
-Dici bene: sarebbe. Perché non andò così, ed anzi le guerre continuarono un po’ dappertutto, in maniera esplicita o sotterranea, e neanche uno dei peccati dell’umanità fu redento. E il nostro futuro cambiò ancora. Forse perché le nostre aspettative si dimostrarono campate in aria, o per il fatto che cominciammo ad invecchiare, lasciammo i canti di protesta per intonare la marcia dei sette nani: “andiam, andiam, andiamo a lavorar…”
-Ah, ah, ah! In miniera?
-No caro, più che altro in Borsa. Ovvero pensammo che visto che non avevamo potuto sovvertire il “sistema” l’avremmo sfruttato per fare soldi. Se vogliamo trovare l’aspetto umanitario, potremmo dire che si cercava un benessere diffuso, anche se dai risvolti edonistici.
-Edo…che?
-Goderecci, materialistici, prosaici? Fatti tu un’idea, anche se non capisci. La voglia era di fare crescere i consumi con la speranza che la festa non sarebbe mai finita. Ma finì, e il futuro cambiò ancora.
-In meglio?
-Bambino mio, fu una culata, con rispetto parlando. Avevamo vissuto spinti a comprare qualsiasi prodotto perché questo faceva girare l’economia, ma in realtà erano solo debiti che poi avrebbero presentato il conto. Venne quindi la “crisi”. In sé questa non è una brutta parola perché significa soltanto un punto di svolta, ma dopo ci deve essere una ripartenza. Purtroppo, invece, è stato come salire su una scala mobile in senso opposto al movimento degli scalini. Fai tre passi veloci e ti sembra di andare avanti, ma il meccanismo ti riporta indietro dove stavi prima, se non più giù. E devi stare attento a non fermarti o a distrarti perché altrimenti rischi il capitombolo.
-Eh?
-Voglio dire che da quel periodo viviamo preoccupati più che altro di tirare avanti, senza grandi prospettive né speranze. Il futuro è ancora cambiato.
-Mamma mia, nonno! Anch’io dovrò andare su e giù per la scala mobile?
-Tu che pensi?
-Non lo so, ma quando dormo sogno un prato senza confini dove corro felice. La giornata è piena di sole e mi viene voglia di cantare a squarciagola. Poi vedo un amico, ci mettiamo a giocare e siamo felici. Non ci sono persone tristi e io sogno…sogno che può essere vero. Sarà così il mio futuro?
-Nipotino mio, sarà sicuramente così. Perché il futuro è dei sognatori e saranno loro che salveranno il mondo. Devi sognare la felicità ed inseguire i tuoi sogni, e se sarai bravo ad acchiapparne anche uno solamente avrai cambiato la tua vita. Un vecchio scienziato intelligentissimo, si chiamava Einstein, disse che solo quelli che sono abbastanza folli da pensare di cambiare il mondo lo cambiano davvero, ed i sogni fanno parte della follia.
-Sì, nonno. Io sarò un sognatore e cambierò anche il tuo futuro.
-Ne sono certo. Vieni qui, abbracciami.

giovedì 9 marzo 2017

L'appuntamento

“Buuzzz – buuzzz – buuzzz” Lo smart phone sul comodino improvvisamente s’illuminò di luce propria e, seppure con la suoneria disattivata, si agitò emettendo una vibrazione tanto fastidiosa quanto penetrante. Anche se erano appena le sei del mattino, quello che anticamente si chiamava telefono e che ormai era diventato quasi un alter ego per tutti gli schiavi di una connessione globale forzata, non lo trovò impreparato. Aveva puntato la sveglia per essere sicuro di alzarsi all’ora giusta, ma un chiodo fisso nella mente gli aveva fatto passare una notte agitata tra brevi periodi di sonno e lunghi momenti di veglia. Accolse quindi come una liberazione il richiamo isterico del cellulare e, come fanno i cani uscendo dall’acqua, scrollò la testa per liberarsi dalle scorie dei sogni che ancora gli frullavano dentro. Poi tirò fuori le gambe e mise i piedi sul pavimento in cerca delle pantofole. Quella mattina aveva molto lavoro da fare e tante cose alle quali dedicare la sua attenzione, ma non riusciva a cancellare l’idea che lo stava perseguitando dalla sera prima. Ne era stato tanto colpito perché forse, finalmente, avrebbe potuto dare una svolta alla sua vita. Erano anni ormai che subiva un sopruso dietro l’altro e la sua pazienza era giunta al limite. Sentiva che se non avesse fatto qualcosa nel più breve tempo possibile, sarebbe esploso come una pentola a pressione con la valvola tappata, ma fino a quel momento non aveva avuto ben chiaro cosa avrebbe dovuto fare. L’ennesima notte insonne aveva finalmente portato il proverbiale consiglio, ed ora si sentiva lucido e determinato come mai prima nella vita. L’avrebbe ucciso. Adesso comprendeva la ragione per la quale aveva sempre tenuto ben oliata la Beretta che suo padre aveva lasciato nel cassetto della scrivania. Non era mai andato a sparare, ma tenere in efficienza l’arma gli era sempre sembrato come un atto di doveroso rispetto nei confronti del defunto genitore e poi perché sentiva che, in qualche modo, il proprio destino era legato a quell’oggetto tanto inquietante quanto rassicurante. E quindi era giunto il momento: gli avrebbe sparato. Si vedeva nell’atto di togliere la sicura del revolver, puntare e tirare il grilletto. Uno sbuffo di fumo sarebbe uscito dalla canna ed una detonazione l’avrebbe assordato mentre, come in un film al rallentatore, avrebbe visto la pallottola uscire per raggiungere il bersaglio. Si sarebbe goduto quei millesimi di secondo con l’ansia del primo appuntamento d’amore, quando l’attesa dell’avvenimento era tanto eccitante quanto lo stesso incontro. E poi avrebbe visto nascere un fiore rosso sulla fronte della vittima ed il suo sguardo spengersi con un’espressione mista di stupore ed ammirazione. Certo, ammirazione per il coraggio che lui avrebbe dimostrato nell’eseguire il suo compito e per la fredda determinazione nel rendersi protagonista di un atto che con un solo colpo avrebbe cambiato irrevocabilmente il destino di due persone. Era curioso di verificare se avrebbe provato compassione, ma non lo riteneva probabile. Si sentiva un po’ come l’aquila che ghermisce il coniglio, senza cattiveria ma senza neanche pietà, assassina solo per la necessità di farlo. Non c’era scampo: l’avrebbe ucciso. Cosa gli aveva fatto per meritarselo? Lo sapeva lui cosa gli aveva fatto, e questo era sufficiente. Tra i due, il succube era senz’altro chi in quel momento giocava il ruolo del carnefice. L’assassino poteva essere boia per un momento, ma la vittima era stata un aguzzino per tutta la vita ed adesso era giunta la sua ora. Senza esitazione: l’avrebbe ucciso. Fece una telefonata al lavoro per dire che non sarebbe andato, si vestì con cura ed uscì dall’appartamento assicurandosi di aver spento tutte le luci. Nella tasca del soprabito avvertiva il peso dell’arma che lo faceva sentire meno solo e sicuro di sé come mai prima gli era successo. Si diresse a grandi passi dove sapeva l’avrebbe trovato. L’immaginava di spalle, forse stava parlando ad altre persone, con la solita aria spavalda ed ignaro di stare pronunciando le sue parole finali e di cachinnare per l’ultima volta. L’avrebbe chiamato, per farlo voltare, e poi…l’avrebbe ucciso. Non avrebbe detto niente perché lui sapeva, e se non si fosse reso conto, sarebbe stato uguale. Dopo pochi isolati entrò nel bar senza aver perso niente della sua determinazione. Il locale era affollato da impiegati in pausa pranzo che flirtavano con segretarie dai tacchi alti e da mangiatori compulsivi di hamburger e patatine. La sua vittima era là, lo sentiva. Era pronto: l’avrebbe ucciso. Aveva soltanto ancora un ultimo dubbio da risolvere, ma in fondo non era importante. Mentre puntava l’arma si chiese chi, fra quella massa di sconosciuti, sarebbe stato il predestinato. In quel momento una tra le persone appoggiate al banco del bar si voltò casualmente ed il suo sguardo incrociò quello del giustiziere. L’uomo con la pistola in mano s’illuminò di un sorriso soddisfatto: il destino glielo aveva indicato. Se Pietro avesse seguito il consiglio della moglie e non fosse uscito quella sera, se il bar fosse stato chiuso, se lui avesse accettato l’invito a giocare al biliardo, se…Ma l’appuntamento era al bancone del bar con un bicchiere in mano e la Morte non l’avrebbe perdonato se l’avesse mancato. Se a Carlo fosse tremata la mano, ma la Morte non l’avrebbe perdonato se avesse esitato. In fondo, andò tutto come era previsto e tutti giocarono il ruolo in commedia per il quale erano giunti a quel punto. E’ un universo ordinato. Può essere una consolazione.

  

sabato 4 marzo 2017

la necessità dell'amore

Come sarebbe bello prendere una tela bianca e, con un gesto ispirato, riempirla con i colori più vivaci, magari spandendoli con un pennello o con le dita. E che meraviglia sarebbe chiudere gli occhi e seguire quella melodia che attraversa la mente e poi avere la capacità di tradurla in uno spartito. Ma sarebbe anche stupefacente saper usare le parole, non nella maniera di tutti i giorni, ma come strumenti per creare poesia o delle favole. E come sarebbe divino poter avere il controllo del proprio corpo per poi sfrenarlo nei movimenti della danza fino a giungere all’estasi dei dervisci. Tutte queste cose, o anche una sola, per buttarci dentro la propria anima, nascondendola tra i segni o manifestandola senza pudore per chi avesse il dono di riconoscerla. E parlare così di quei sentimenti che non devono essere detti, delle emozioni che vanno celate, delle visioni che non possono essere spiegate. L’arte come paravento dell’anima. Perché di un paravento si ha bisogno per nascondere la propria debolezza o solamente le pulsioni del cuore. Per non piangere al momento di un addio o per non gridare quando si sente un graffio dentro; ma anche per urlare quando non è permesso o per volare pur senza ali. Però il tocco dell’artista è riservato solo a pochi ed a chi non è concesso questo privilegio rimane solo una speranza: fidarsi dell’amore. Dell’uomo verso una donna, del genitore verso i figli, o sotto forma di compassione che tutto abbracci. Forse, e mai dubitativo fu più opportuno, questo sentimento, immateriale ma pesantissimo, è il solo legame che parla senza parole e fa capire senza spiegazioni. E’ una strana magia che rende possibile il tenersi per mano al di là del mare e di abbracciarsi per telefono. Altrimenti si è soli.