sabato 25 febbraio 2017

L'ultimo bicchiere

Ogni volta che posava il bicchiere cercava di rimetterlo esattamente sul circoletto d’umido lasciato sopra il piano del tavolo all’osteria. Si dice che non bisogna mai bere da soli e che questa abitudine è il primo passo che porta dallo sfizio al vizio. Ma lui voleva parlare con qualcuno che lo capisse, che non contradicesse le sue affermazioni, anche se erano delle sciocchezze, ed il piccolo contenitore di vetro con la sorella maggiore dal collo stretto, gli sembravano la compagnia migliore. “In vino veritas” si diceva, ma quale era la verità che rispondeva alle domande che gli scarruffavano il cervello? E chi avrebbe dovuto essere sincero, lui che aveva pagato la consumazione o lo stesso vino che, in qualche maniera, doveva giustificare la sua funzione? Non sapeva, un po’ gli girava tutto attorno, ma molto più gli giravano le balle, in senso figurato. Era certo che, qualche mescita addietro, si fosse seduto incazzato per un motivo preciso e molto importante. Aveva tirato a sé la sedia e poi si era lasciato cadere sbattendo il pugno sul tavolo con tutta la rabbia che il torto subito gli aveva fatto montare dentro. Ricordava distintamente quel senso d’impotenza che gli faceva sfarfalleggiare lo stomaco e di come fosse certo di aver subito un sopruso. Una grave offesa certamente, anche se adesso non ricordava esattamente quale fosse. In realtà aveva poca importanza, e se quella gli era passata di mente c’erano talmente tanti motivi per arrabbiarsi che, di fronte al vino, uno valeva l’altro. Ad esempio si sentiva offeso da Giovanni che aveva rinnegato la sua amicizia senza che lui ne avesse colpa, oppure provava rancore contro una certa Rossana che semplicemente non aveva capito. Poi sentiva che avrebbe potuto prendere a botte quello che lo aveva sorpassato in coda senza chiedergli scusa o che avrebbe urlato volentieri contro il barista che gli serviva sempre un caffè di merda. Per non parlare del fetente più bastardo che conoscesse: il destino. Ecco, contro di lui aveva una lista di rimostranze così lunga che non sarebbe bastato un rotolone Regina a contenerne tutte le voci.
-Barista, la bottiglia è bucata! Non vedi che il vino non c’è più? Portane ancora.  - Diventava sempre più difficile centrare il circoletto, ma ci si metteva d’impegno, con lo sguardo fisso e la mano ferma, forse solo un po’ ondeggiante. Ma in fondo a cosa serviva prendersela così? Non si può andare contro il mulini a vento e basta un naso più grosso del normale per allontanare quella Rossana, tanto insensibile quanto bella. “Chi non mi ama, non mi merita.” Pensava, con lo strano paradosso che non amandosi neanche lui stesso, forse non era degno di avere una qualche considerazione di sé. Ingoiò un pezzo di pane che facesse da base per il rosso ruscello destinato al suo stomaco. Eppure sentiva la mancanza di qualcosa, o di qualcuno, e questo lo rendeva triste. In quel momento entro nell’osteria un “parcheggiatore”, come lo chiamano a Napoli, strimpellando una chitarra scordata dal suono metallico. Pur non sapendo la domanda, il suonatore gli rispose intonando una canzone che mai si sentiva nelle trattorie frequentate da avventori distratti.  “Vedi cara, è difficile spiegare i fantasmi di una mente. Vedi cara, è difficile spiegare, è difficile capire, se non hai capito già.” Era proprio così. Spesso si era chiesto a che servisse la parola se non c’era l’empa… aspè, riprova…l’empatia. Ecco, ok! Quello che si dice, al massimo, può essere l’ombra di ciò che si sente dentro, e chi è veramente interessato, se non innamorato, dovrebbe capire tutto solo con uno sguardo, o con una carezza. Ma questo che c’entrava con quel fesso che gli aveva fregato il posto nella coda? Soffocò una risata, ed un rutto, mentre la sua autostima andava calando di pari passo con il livello del vino.
Si sentì toccare sul braccio.
-Signore, signore, volete una rosa? – Alzò gli occhi ed incrociò lo sguardo con una ragazza vestita di mille colori con un fascio di fiori tra le braccia.

-Vattene. -   Le disse, cacciandola con un gesto della mano. Ancora un’ingiustizia della vita, ed un piccolo rimorso per la mancanza di una generosità che sarebbe costata poco. Si versò un altro bicchiere per portarsi verso l’incoscienza. Poi si accasciò sul tavolo con la testa appoggiata al braccio. Non dormiva, ma era stanco. Con gli occhi chiusi, nell’incavo del gomito, voleva fare come lo struzzo quando nasconde la testa nella sabbia. La speranza sarebbe potuta essere il cameriere che, con compassione, non lo disturbò, o nella fugace pacca sulla spalla di un amico che l’aveva riconosciuto. Oppure nella rosa che quella zingarella gli lasciò sul tavolo senza essere pagata perché aveva visto qualcuno più bisognoso di lei o, semplicemente, nella notte che lasciava spazio al nuovo giorno. Ma lui non se ne accorse.

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