domenica 29 gennaio 2017

Al Cafè Louise

Il “Cafè Louise” è su Rue Croix des Petits Champs, all’angolo con Rue du Pelican. E’ un piccolo bistrot, molto ben tenuto da madame Paulette, una bella donna sulla sessantina che si dice abbia aperto il locale dopo aver smesso la professione più antica del mondo. Forse è un pettegolezzo, ma ogni tanto capitano al bar strani personaggi, con occhi imploranti, che fermano la proprietaria e si mettono a parlare con lei sottovoce agitando le mani come per cercare di convincerla su qualche argomento. Lei scuote sempre la testa con un sorriso cortese e, dopo aver loro offerto una birra, li allontana con gentilezza. Poi, sbuffando e parlottando tra sé, riprende in mano lo straccio che aveva momentaneamente posato e, chissà perché, trova qualsiasi pretesto per rimproverare il povero Pierre, dietro al bancone, urlandogli contro improperi irripetibili in un patois incomprensibile. Il tavolino fuori, sotto l’arco di foglie d’edera, è il mio. Intendiamoci, non ho nessun accordo che mi dia il diritto di sedermi costantemente allo stesso posto, ma sono un cliente abituale e arrivo sempre presto alla mattina. Se il garçon può, cerca di dirottare gli altri avventori altrove affinché io possa accomodarmi nella la mia postazione abituale. Questo privilegio mi costa una mancia equivalente ad un modesto affitto, ma mi fa sentire a casa mia pure in una città dove non sono nato. Sul tavolino tondo in formica color legno, apro il mio portatile avendo cura di lasciare spazio per il piattino con il croissant fragrante e per la tazza colma di un buon cafè au lait bollente. Sono ormai due anni che vivo a Parigi, inviato dal giornale per il quale lavoro, ed in qualsiasi stagione, salvo non piova a dirotto, chi vuole può trovarmi sempre là. Normalmente raccolgo le idee e butto giù un pezzo da trasmettere a Roma, ma capita spesso che mi fermi a guardare la vita dei parigini che passano per strada o entrano nel locale, immaginando le loro storie, oppure che mi perda in pensieri nostalgici o sognanti. A volte torno la sera e quell’angolino al buio, rischiarato solo da una fioca luce e da un piccolo moccolo sul tavolo, diventa un rifugio nel quale scaricare le tensioni della giornata o dove volare in mondi migliori di questo.
-Pierre, un Pernod, si vou plait. - Chiesi al cameriere in una fredda sera di marzo, intabarrato nel mio vecchio giaccone foderato di pelo. A quell’ora un piccolo beveraggio alcolico ci stava bene ed il freddo giustificava un apporto calorico e consolatorio. La giornata era stata pesante, tra le mille rotture di scatole che un inviato straniero doveva sopportare nella giungla dei corrispondenti esteri in concorrenza per giungere per primi sulle notizie più importanti, ed avevo intenzione di rilassarmi per ricaricare le batterie. Cominciai a fantasticare. “Quante donne avrò avuto? Bon, – sorrisi tra me – non quante Julio Iglesias, ma neanche quante Alvaro Vitali, forse. Ricordo quella brunetta che piangeva quando facevamo l’amore e la bionda che era ferma nella convinzione di non doversi concedere prima del matrimonio. Poi ci fu il periodo dell’Università dove i Collettivi erano il pretesto per qualsiasi forma di scambio, diciamo così, culturale. Una certa Ambra aveva un curioso modo di concepire una conoscenza, o forse prendeva tale termine in senso strettamente biblico. Claudia, invece, era una gourmet. Quando andavamo a ballare col gruppo d’amici, lei faceva un giro con tutti. All’epoca si usavano ancora i lenti e la “studiosa” si stringeva al maschio di turno per sentire quanto e come lui reagisse alla sua presenza ed, in base all’entità della reazione, concedeva la sua confidenza. Quante donne hanno forgiato la mia età e quante invece mi hanno lasciato lì a metà. Alcune mi hanno detto “amore mio” altre mi hanno fatto perdere tempo e denaro. Quella con gli occhioni neri e quella che mi dava un po’ di pazzia; quella che aveva “sentimenti veri” e quella che con la quale bevevo bicchieri di vino. E quella che non ho baciato mai.
-Pierre, cambia il bicchiere e portami una bottiglia di champagne, sempre si vou…eccetera. – Una sorta di dolce euforia pretendeva di essere festeggiata.
-Bravo, versa e lascia qui. – Riempii un calice, e poi un altro, brindando al passato ed assolvendomi per tutte le piccole e grandi mancanze che mai erano giunte al punto di diventare peccati. Faceva freddo, si era alzata una nebbia fatta di goccioline d’umidità e le strade sembravano essersi svuotate, o forse la vita si era nascosta. Non importava, fu una bella serata in compagnia della vedova Clicquot e di tanti ricordi di un tempo ormai passato.   

giovedì 26 gennaio 2017

Abbandono

-Non c’incontreremo più, devo partire. Il lavoro mi porta all’altro capo del mondo, e non voglio rinunciarci. Sono anni che fatico per diventare quello che sono e non posso lasciarmi scappare questa occasione.
-E noi? – disse lui.
-Noi ci siamo incrociati. Abbiamo unito per un po’ le nostre vite e ci siamo dati reciprocamente quello che potevamo. Ma la vita va dove vuole e noi non possiamo opporci, o forse non sarebbe giusto. – Gli rispose.
-E’ stato uno sbaglio o un capriccio?
-No, nessuno dei due. E’ stato un magnifico incontro, lo sfioramento di due stelle che però hanno orbite diverse. E’ l’universo che gira senza che noi lo si possa fermare o modificare in alcun modo. Non devi essere triste, pensa ai momenti vissuti insieme che non avremmo avuto se non ci fossimo incontrati.
-Ma ci siamo amati.
-Certamente, per un attimo io ti ho accarezzato e tu mi hai stretto a te. In quel momento abbiamo fuso i nostri cuori con la massima sincerità e con slancio, ma è stato solo un lampo di felicità che ha brevemente illuminato le nostre vite. Adesso devo andare.
-Ti ho stretto a me, abbiamo dormito insieme, ci siamo svegliati baciandoci: tutto questo non conta niente?
-Hai toccato il mio seno, ho sentito il tuo profumo. Hai bevuto il mio amore e ho preso la tua passione, ed è stato bellissimo. Lo porterò sempre con me.
-E se ci ritroveremo?
-Non ti preoccupare, non ci sarà niente di imbarazzante. Sarà un ricordo, un bel souvenir di attimi vissuti intensamente.
-Va bene, se hai deciso così. Ma non scorderò le mie dita tra i tuoi capelli e le nostre labbra che si sfioravano. Quando ballavamo stretti in camera mia al suono di quella canzone di tanti anni fa che facevo girare su un vecchio disco in vinile. Le risate guardandoci dritti negli occhi e la fame dopo l’amore. Le passeggiate che finivano nel giardino del vecchio marinaio, e poi l’erba umida sotto i nostri corpi. E tu che mi sussurravi parole in lingue sconosciute che dicevano sempre la stessa cosa, ed io che mi perdevo in te. Le colazioni in quel ristorantino in riva al mare e la pensione con le lenzuola che odoravano di lavanda. Ed io che avevo quasi paura di sfiorarti e di scoprire i mille paesaggi nascosti del tuo corpo, mentre come con un divino strumento, le mie dite toccavano la tua pelle facendo nascere melodie inebrianti. Non dimenticherò mai cosa mi dicevi dopo, mentre cancellerò subito questo nostro ultimo incontro.
-Non fare…
-Non ti preoccupare. Non puoi togliermi il ricordo di quando ti sentivo piccola tra le mie braccia e del tuo languido abbandono. Di come mi sembrava che unendoci ci fondessimo nei corpi e con lo spirito. Soprattutto mi rimarrà il tuo sapore mentre ti baciavo e l’odore del tuo respiro che si confondeva col mio.

Lei allungò la mano per un ultimo saluto. Lui le prese il palmo e, delicatamente posò un bacio sulla tenera carne dentro il pugno. Una vergognosa lacrima le scese sul volto e, di slancio, lo abbracciò. Non si erano ancora lasciati.

sabato 21 gennaio 2017

Del terzo Tipo

Un racconto di fantascienza oggi? Impossibile! E’ stato scritto tutto sugli extraterrestri, sui mondi al di fuori del sistema solare e sugli alieni in visita sulla Terra. Che mai ci si può ancora inventare proiettato nel futuro che sia improbabile ma plausibile? Niente, assolutamente niente. Questo fu il pensiero di Quentin quando venne chiamato dal direttore di “Cronache dal futuro”, un magazine di racconti che perlopiù riproponeva i racconti di Asimov o trame basate sui vecchi romanzi pubblicati da “Urania” di Mondadori. Eppure il dispotico capo pretendeva un qualcosa di originale da presentare ai lettori stufi di rileggere sempre storie che già conoscevano. Lui, che pagava le bollette e parte dell’affitto con le dieci cartelle dattiloscritte consegnate settimanalmente, non poteva permettersi il lusso di rifiutare l’incarico. Si versò un’abbondante dose di bourbon, che pensava potesse aiutare la sua immaginazione, e ponderò i diversi scenari che avrebbero potuto fare da sfondo ad una avventura nell’ignoto avvenire.
-Partiamo dai protagonisti. – pensò – Un extraterrestre simpatico ed antropomorfo, è stato sfruttato mille volte. Ai nostri giorni un tipo come ET meriterebbe la cittadinanza onoraria, se non altro perché, pur essendo un extracomunitario, non vuole fermarsi dove è arrivato ma fa di tutto per tornarne a casa sua. Di omuncoli con testone e occhi da mosca è pieno il web e se venissero incontrati al bar sotto casa, sarebbero amabilmente presi in giro senza alcuna paura. Quale altra forma aliena potrebbe essere inventata che i vari “Man in Black” 1,2,3 etc.… non abbiano già immaginato? Nessuna, praticamente il cinema ha tarpato la fantasia degli scrittori. Vabbè, immaginiamo un astronauta in missione verso una galassia distante anni luce e che si perde nel cosmo. “Odissea 2001”, “Lost in Space” e “The Martian”: tutti su questo tema, non se ne può più. Vabbè, ma la fantascienza vale anche per il passato, vedi Jules Verne e “Ritorno al Futuro”, ma anche “A Spasso nel Tempo” con De Sica e Boldi: non si può, mi rifiuto!
Quentin era praticamente disperato. Qualcosa che, teoricamente, avrebbe dovuto essere una miniera senza fine di idee, in realtà presentava un filone sfruttato fino all’esaurimento, e lui non sapeva dove sbattere la testa.  Tante volte era stato salvato dal foglio bianco. Si metteva davanti al word del pc, con la schermata vergine, e le dita incominciavano a vagare sulla tastiera, come dotate di una vita autonoma. Il fenomeno era affascinante: gli sembrava che dentro di lui, vivesse un’entità indipendente, con idee e fantasie slegate dalla sua personalità che prendevano vita solo quando una pagina bianca richiamava la sua attenzione. Ma in questa occasione il suo “query” sembrava non sortire effetto alcuno. Chiamò il suo migliore, o forse unico, amico:
-Se non presento un racconto di almeno duemila parole entro giovedì prossimo, posso considerarmi disoccupato. Tu che mi consigli?
-Tranquillo – rispose un certo Allyson, addetto ad un distributore di benzina sulla A1 – La fantascienza è un campo che non ha limiti. Basta che, con la fantasia, ti posizioni un passo oltre alla realtà, e quello che razionalmente sembra impossibile, diventa plausibile in un universo dove ci sono più cose tra il cielo e la terra di quante l’immaginazione non possa concepire. Dunque prendi come punto di partenza, chessò, Alfa Centauri e buttati oltre. L’universo è tanto più grande delle nostre miserie!
Ci mancava un benzinaio filosofo! Ma come dargli torto, e Quentin si mise al lavoro con lena e buona volontà. “Il propulsore a ioni di idrogeno improvvisamente collassò. La ridondanza dei sistemi ausiliari di comando prese il sopravvento ed il colonnello Armaduk, del Gruppo interforze della Milizia Extraplanetaria, si inserì nel sistema individuale di percezione per tranquillizzare tutti i membri dell’equipaggio.” Beh, non sembrava male come “incipit” per un racconto, e lo scrittore si tirò su le maniche per essere più comodo nel battere sulla tastiera del personal computer. Come spesso succedeva, la sua mente si perse nei mondi dell’immaginazione, ma improvvisamente il campanello della porta del suo appartamento squillò richiamandolo alla realtà. Non voleva alzarsi dalla postazione di lavoro, ma l’ansia di immaginare il portiere con una cartella esattoriale da consegnargli, lo fece decidere ad andare ad aprire.  
-Chi è?
-Umph. Xxxczzrrye!
L’acufene lo condizionava, così, anche senza aver capito la risposta, aprì.
Fu stupito nel vedere un blob verde con antenne oculate ed estremità palmate nel vano della porta, ma prese l’occasione al balzo e condusse il nuovo arrivato vicino al computer.

L’editore fu enormemente soddisfatto da quel racconto di fantascienza che sembrava proprio uscire da un’esperienza personale.  

sabato 14 gennaio 2017

Quarant'anni fa.

C’è qualcosa che non invecchia con gli anni. Il cuore sembra sempre sveglio ed irrequieto e non si rassegna alla sua età. Oggi, in gran segreto, m’ha ricordato una ragazza di quaranta anni fa. Nel millenovecentosettantasette, vestita con un abito a disegni floreali e con delle margherite nei capelli, io la incontrai anche se non ricordo dove. Forse fu in un negozio, oppure la notai mentre ballava da sola sulla pista di quel locale notturno che frequentavo, non so. Ricordo solo gli occhi cerchiati dalla matita blu ed il suo sguardo nel quale mi persi fin dal primo momento. Le giurai eterno amore e lei mi disse il suo nome, che non ricordo più. Andammo insieme…dove non saprei dire e lei mi sussurrò…chissà cosa. Il mio cuore la cerca ancora, come se non fossero passati tanti anni, e rimpiange quella ragazza di quarant’anni fa. Ripenso al primo bacio che le diedi, tremando di emozione e di passione, un bacio posato su quelle labbra dolci e tenere. Poi, partimmo, ma per dove chi lo sa. E lei mi disse…non so più. Ecco, adesso mi ricordo, si chiamava con un nome lungo e breve: giovinezza.