venerdì 15 dicembre 2017

Harraseeket Inn

La neve scendeva lenta e grave, nell’aria ferma di una serata di metà inverno. Con delicatezza, ma inarrestabile, pian piano si posava lungo le strade deserte, sulle pensiline degli autobus e sopra le auto parcheggiate. Soffici guanciali spuntavano sopra i tavolini dei bar lasciati all’aperto, mentre una bianca galaverna scintillante si aggrappava precaria ai rami spogli degli alberi.Nel silenzio ovattato si udiva solamente il suono chioccio delle gocce d’acqua che cadevano ad intermittenza dalle stalattiti di ghiaccio appese alle grondaie delle case, ed ogni forma di vita sembrava sospesa, bloccata in un’istantanea scattata dal freddo. Alti lampioni in fila lungo la strada, come immobili sentinelle del Generale Inverno, spandevano una luce fioca, appena sufficiente ad illuminare la Main Street, dall’indiano in legno alto tre metri all’ingresso del paese fino alla fine della strada, verso nord. Forse il sole all’indomani avrebbe risvegliato la natura, o un vento improvviso avrebbe scosso il paesaggio, ma in quel momento tutto era congelato in una sorta di fatalistica attesa. L’ultimo locale prima che la statale si rituffasse nel buio in direzione del Canada era il Bistrò del “TuscanBrick” che prometteva di servire una cucina italiana, anche se di toscano aveva soltanto giusto un mattone. Qui sorseggiò ancora un caffè prima di presentarsi all’appuntamento.
Aveva scoperto la costa nord orientale degli Stati Uniti in un fine settembre di qualche anno prima quando capitò da quelle parti per lavoro. Guidando lungo la A1, rimase colpito dal paesaggio pennellato nei toni del rosso e del giallo, in un miscuglio di colori che ricordava la tavolozza di un pittore espressionista. La tiepida brezza che entrava dai finestrini aperti si alternava a gelidi refoli d’aria proveniente dalle zone artiche, mentre la combinazione tra il sole, testimone di un’estate trascorsa, ed il freddo, ambasciatore dell’inverno ormai prossimo, lo fecero sentire stranamente vivo. Percorrendo la strada fiancheggiata da alberi d’acero e querce che portava al Wolf Neck, abbandonò improvvisamente dietro di sé i chilometri ed i foschi pensieri immergendosi nel tripudio di una natura trionfante. In quel momento ritrovò una parvenza di serenità, e niente avrebbe potuto desiderare maggiormente di quanto gli era spesso sembrato irraggiungibile.
Una volta tornato a casa non dimenticò quella sensazione di pace e di soffocata allegria che di solito si trova solamente in fondo ad un bicchiere. Quando casualmente intercettò sul web l’annuncio per un lavoro da svolgere in una piccola città nel Maine, ci pensò a lungo ed alla fine decise di buttarsi nell’avventura.
Freeport era un paesotto in stile nuova frontiera: una lunga strada principale con ai lati una spruzzata di graziose casette costruite in legno e qualche albergo a conduzione familiare, il mare ad est e la campagna tutt’intorno. Un luogo dall’anima schizofrenica, tanto calmo e poco popolato nei giorni feriali, quanto caotico e pieno di gente nei fine settimana e durante le festività, quando una marea di compulsivi schiavi dello shopping arrivava a bordo di qualunque tipo di mezzo di trasporto per approfittare dei tanti negozi “outlet” per i quali la cittadina era famosa. Gli venne da sorridere la prima volta che vide i visi arrossati, eccitati ed avidi dei visitatori che scrutavano le vetrine. Pensò che assomigliassero a quelli incontratiad Amsterdam, nella zona a luci rosse. L’unica differenza era che nella città olandese i richiami sollecitavano la lussuria ed invece in quel paese si stuzzicava la cupidigia, ma le espressioni vogliose di chi desiderava senza poterselo permettere erano più o meno le stesse. L’affollamento durava dall’orario di apertura degli esercizi commerciali fino a prima della cena. Allora i pullman ripartivano, le automobili lasciavano i parcheggi e tutto si spengeva come un falò che avesse bruciato con impeto fino all’ultimo dollaro per poi acquietarsi in attesa di riprendere vigore con l’arrivo della successiva ondata di potenziali clienti.
Spesso aveva pensato di voltare la pagina del libro della sua esistenza per aprire un capitolo nuovo da scrivere con altre parole, ma non aveva mai avuto né il coraggio né l’occasione per fare il grande balzo finché non lesse l’annuncio dell’Harraseeket Inn: l’albergo offriva un impiego dalle dieci di sera fino alle sei del mattino come “night manager”. Le mansioni non erano chiare, ma l’orario sembrava adattarsi perfettamente al suo ritmo circadiano, col quale non era mai riuscito a sintonizzarsi appieno, e l’idea di farsi pagare per assecondare l’insonnia, gli sembrava tanto assurda quanto invitante. Immaginava che durante la notte il lavoro si sarebbe svolto a rilento, con ampi intervalli di quiete, ed approfittandone avrebbe potuto ritagliarsi abbastanza tempo libero per leggere e scrivere in santa pace. Sarebbe andato a letto all’alba, dopo aver assistito al sorgere del sole, per svegliarsi poi verso mezzogiorno, perdendo solo una parte della mattina che, rinchiuso in qualche ufficio, non avrebbe comunque vissuto. Nel pomeriggio, avrebbe girellato per quel villaggio dove il saluto ricorrente quando ci s’incontrava era un: “Have a nice day!”, e sembrava detto con sincerità. Era consapevole che lo stipendio non sarebbe stato alto, ma non aveva grandi pretese.
Si diceva che Mrs. Grey, la proprietaria, avesse raggiunto i novant’anni, ma non ne dimostrava più di settanta. Piccola, magra e con la crocchia grigia dai capelli sempre ben tirati, sembrava una maestra all’antica che con disciplina e severità teneva in riga i suoi dipendenti. Sempre però con un sorriso che la rendeva inattaccabile da ogni problema di gestione che ritesse irrilevante, come ad esempio le condizioni di lavoro dei suoi sottoposti che non si potevano permettere di lamentarsi per qualche ora lavorata in più o per le spettanze non riconosciute. Lei diceva che erano tutti una grande famiglia e che, come in tutte le famiglie che si rispettino, si doveva sempre dare il massimo con generosità e senza mugugni, altrimenti non si era degni di stare nell’ambito della comunità. Non si poteva negare che curasse ogni più piccolo particolare con amore e questo i clienti non mancavano di notarlo segnalando il suo albergo come uno dei più accoglienti della costa.
La padrona gli fece un esame veloce e non volle sapere altro che il suo nome e da dove venisse. Guardò il passaporto e lo fissò a lungo negli occhi; questo per lei, veterana nel giudicare il suo prossimo, poteva bastare. Prese servizio quella stessa sera.
Non ne fu deluso. Dopo le undici di sera, quasi tutti i clienti si ritiravano nelle rispettive stanze mentre qualche tiratardi al bar preferiva la compagnia del bourbon alle chiacchere con gli impiegati. Quindi lui riprese in mano Guerra e Pace per affiancarsi ad Andrej nella battaglia di Borodino e, nel silenzio di una notte nel Maine, sentì chiaramente i colpi di cannone e le urla dei feriti. Un’altra sera accompagnò Renzo dall’azzeccagarbugli e, con tutta la buona volontà, non riuscì a convincere il contadinotto a lasciare a casa i polli per prendere qualche moneta, che sarebbe stata più convincente nel perorare la sua causa. Ebbe anche la tentazione di ributtarsi nell’inferno a fare il terzo incomodo tra Dante e Virgilio, ma forse loro gli avrebbero chiesto quali fossero i suoi peccati lasciandolo in qualche girone a trastullarsi con il contrappasso e pertanto pensò bene di soprassedere. Sbagliò solo quando si fece coinvolgere da un quasi compaesano. Steven King era nato a Portland, a pochi chilometri da dove stava lui, e per questo si fidò nel seguirlo a trovare uno strano pagliaccio. Vedendo che tutte le ombre intorno al suo desk si animavano pagina dopo pagina evocate dal racconto del maestro dell’horror, chiuse il libro ed aprì un fumetto di Milo Manara.
Cominciò anche a scrivere un romanzo, ma sapeva bene di non esserne all’altezza e spesso rileggeva, cancellava, strappava e tornava indietro in un complicato labirinto nel quale non riuscì mai ad aggrapparsi ad alcun filo di Arianna.
Le lunghe ore passate in solitudine lo fecero riflettere su tanti aspetti della sua vita passata e su quello che avrebbe potuto riservargli il futuro. Ma soprattutto si domandò cosa stesse facendo tanto distante da casa e da cosa stesse scappando. La risposta era facile: fuggiva da se stesso, dalla sua vita, cercando di estraniarsi e di perdersi lontano, nel desiderio di lasciare dietro di lui niente altro che lui. Ma come allontanarsi da chi non ti può lasciare neanche per un istante? Quale posto avrebbe potuto raggiungere per nascondersi alla consapevolezza di sé? E quanto sarebbe durata l’illusione di una catarsi impossibile? Si ritrovò cresciuto o invecchiato, prese coscienza o si rassegnò. Dovette arrendersi alla realtà anche se, in un recesso nascosto della sua anima, volle custodire un bagliore irragionevole di speranza.
Lasciò un biglietto dicendo che era dovuto partire all’improvviso. Non chiese neanche la liquidazione, sicuro di fare cosa gradita alla signora Grey.



giovedì 23 novembre 2017

Una notte misteriosa

-Elementare Watson, elementare.
Io non gliel’ho detto mai, ma questa sua presunzione di avere il cervello più fino di qualsiasi altra persona, mi ha sempre urtato profondamente. Nel mio ruolo di biografo ufficiale di Sherlock Holmes, ho descritto il mio supposto amico come una persona eccezionale, di grande sensibilità ed altruismo. In realtà, è ora che lo confessi, il detective privato più famoso di Londra è un gran fanfarone, tutto fumo e pochissimo arrosto. Per farvi un esempio:
-Allora Watson, com’era il tempo a Leigh on Sea?
-Perbacco Holmes, come avete fatto a capire che torno adesso da una gita al mare?
-Ah, ah, ah! Elementare, per non dire puerile. Avete il tacco della scarpa destra con ancora un po’ di fanghiglia appiccicata ed un piccolo rametto di “crithmum maritimum” o finocchio di mare infilato tra i capelli. Si tratta di una pianta alofila (dal greco halo = sale e phyte = pianta) che alligna con particolare vigore nella contea dell’Essex. Poi ricordo che tempo fa, sfogliando una rivista illustrata, ve ne usciste con un apprezzamento particolarmente vivace su quella cittadina. E quindi…
-Già, già.
-Ritengo inoltre che abbiate assai gradito il pasticcio di montone che avete gustato al tavolo del “Blue Boar” il pub locale. Certamente non vi sarete fatto mancare una buona pinta di birra ed una chiacchierata con l’ostessa che, vi dirò di più, era una giovane dai capelli rossi e ben in carne.
-Santi Numi! Questa poi…Come sapete dove mi sono fermato a mangiare e addirittura l’aspetto della proprietaria del locale?
-Osservo e deduco. Sul bavero della vostra giacca si nota distintamente una briciola di pasta brisee che, a pranzo, si serve spesso ripiena di montone, e poi dovreste spazzolare via quel capello fulvo che spicca nettamente sulla vostra spalla. Lo dico per voi e per non indurre strani pettegolezzi. In quanto al nome del locale, siccome anch’io mi recai un lustro addietro da quelle parti, ricordo come solo al Blue Boar vidi servire ai tavoli una donna dalla fulva capigliatura.
-Come al solito mi stupite, Holmes.
-Elementare, Watson, elementare.
Così lui fece bella figura facendomi sembrare un cretino. Salvo sapere successivamente che, poco prima che salissi le scale verso il nostro appartamento, un vetturino aveva lasciato nelle mani di Holmes una sciarpa che avevo dimenticato al pub con la preghiera di consegnarmela unitamente ai saluti dell’ostessa ed all’invito a rinnovare la visita per gustare nuovamente il montone. Altroché capacità deduttive: fumo, solo fumo.   
Comunque, non era questo che volevo raccontare.
Era la sera della vigilia di Natale, io ed Holmes avevamo cenato abbastanza presto facendo onore ai manicaretti preparati dalla signora Hudson con la cura e la devozione richiesti dalla solenne ricorrenza. Eravamo ormai al Christmas Pudding, accompagnato da una dosa generosa di Porto, quando il mio commensale, forse intenerito dall’atmosfera festiva, si abbandonò a confidenze per lui del tutto inusuali.
-Caro Watson, - mi disse a bassa voce con aria sognante – ricordo quando io e mio fratello Mycroft aspettavamo questa magica notte con ansia e trepidazione. Come tutti i bravi bambini, eravamo soliti preparare una letterina per Babbo Natale che poi consegnavamo per la spedizione nelle mani di nostro padre. Mi dovete credere, eravamo assolutamente sicuri che, durante la notte, il vecchio panzone vestito di rosso ci avrebbe portato i regali richiesti e, per l’emozione, non riuscivamo a chiudere occhio fino a tarda ora. Naturalmente il giorno dopo trovavamo vicino al camino, o sotto l’albero, tanti pacchetti ed, in qualche modo, ci sentivamo ricompensati per tutti i buoni voti riportati a scuola durante l’anno trascorso. Da lì, forse, nacque la convinzione che le azioni di ciascuno vengono sempre ripagate con la moneta corrispondente: chi ben si tiene, ne ricaverà vantaggio, ma chi si comporta male ne subirà le nefaste conseguenze.
-Amen! –Interloquii con la lucidità concessami dall’ennesimo bicchierino sorseggiato con gusto – Così deve essere, a ciascuno il suo e…amen! – Mi rendo conto che avrei potuto fare di meglio in sede di commento, ma fu già tanto riuscire a liberare la lingua dalle pastoie del liquore.
-Però, fedele amico, l’esperienza della vita mi ha poi insegnato che non sempre il destino si comporta in maniera corretta. Spesso i buoni soffrono mentre i malvagi godono, e solo chi ha fede in una ricompensa futura da riscuotere in un’altra vita può credere ancora che valga la pena camminare rettamente in questo mondo pieno di ingiustizie.
-Sento dell’amarezza in queste parole, Holmes. In fondo se Babbo Natale continua a tornare tutte le notti di ogni ventiquattro dicembre, ci deve essere una brace di speranza che arde ancora sotto la cenere della disillusione, e ciascuno di noi può sempre aspettarsi un dono.
-Ho sempre saputo che siete un sognatore ed un eterno bambino, caro il mio dottore. Ma la mia lente d’ingrandimento non ha mai rilevato le impronte del passaggio di nessun Babbo Natale ed ormai ho smesso di credere alle favole da molto tempo.
Finimmo la conversazione con qualche altra rimembranza dei tempi andati e quando la pendola batté le undici, cedemmo al richiamo del sonno. Io mi ritirai nella mia stanza con un trattato di anatomia da sfogliare per fini soporiferi, ed Holmes prese con sé una scatoletta che sapevo contenere quei medicinali ai quali ricorreva sempre più frequentemente. 
Non riuscii a finire il capitolo riguardante la rotula e le sue articolazioni, che caddi nel sereno oblio dei giusti. Ma il ripieno del tacchino servito per cena non ebbe la creanza di transitare velocemente attraverso il mio stomaco, anzi si soffermò a lungo causandomi un senso di disagio che innescò mille fantasmagorici sogni ed uno sgradevole senso di pesantezza. Pertanto non saprei dire se fu immaginario o reale il trambusto che mi parve di udire proveniente dal salotto in un’ora imprecisata della notte. Comunque non ci feci caso più di tanto, impegnato com’ero a combattere a fianco di Don Chisciotte contro degli strani mulini che al posto delle pale mostravano la faccia scorbutica della signora Hudson.
La mattina successiva i fumi notturni si dissolsero ed aprii gli occhi sentendomi di ottimo umore e con una strana eccitazione addosso. Spalancai la finestra della mia camera abbeverandomi dell’aria fresca mentre un pallido sole faceva sembrare bella anche Baker Street, a quell’ora deserta ed imbiancata da un rilucente manto di candida neve appena caduta.
-Watson, Watson, non dovevate! – Il richiamo stentoreo della voce del mio amico mi giunse imperioso da oltre la porta. Evidentemente si doveva essere alzato prima di me ed ora, in salotto, richiedeva la mia presenza.
-Cosa? - Urlai di rimando, solamente per avere una risata come risposta. Incuriosito affrettai le abluzioni mattutine per raggiungere Holmes.
-Allora Sherlock, che vi prende? Cosa non avrei dovuto fare? – L’investigatore con la pipa stretta tra i denti e con indosso una sgargiante vestaglia di velluto rosso, mi guardò con aria maliziosa.
-Questo pacchetto con scritto sopra il mio nome. Eravamo d’accordo di non farci alcun regalo quest’anno, ma mi accorgo che non siete stato di parola.
-Veramente Holmes, io…
-Aspettate! Anche questo…Mi accorgo adesso che vi siete voluto disturbare addirittura con un altro presente. Fatemi vedere. – Pronunciando queste parole, l’uomo si chinò per raccogliere un’altra scatola che era scivolata dietro una poltrona vicino al camino.
-No, questo non è per me. Capisco che abbiate voluto creare un clima festoso, ma giungere fino al punto di incartarvi da solo un regalo e scriverci sopra il vostro nome, mi sembra un po’ eccessivo.
-Ma, vi assicuro…
-Siete impagabile, Watson. Avete voluto farmi una sorpresa che non ricevevo dai tempi dell’infanzia. Non so come ringraziarvi.
-Un momento, Holmes, fatemi parlare. Questo fatto dei pacchetti…non sono stato io! E’ la prima volta che li vedo e la vostra sorpresa è pari alla mia.
-Che intendete? Se non mi state prendendo in giro, state affermando di non essere stato voi a portare in casa i due regali.
-Esatto, proprio così.
-Beh, questo è un mistero. Voi non l’avete fatto, io non ci avevo pensato minimamente, come può essere? – La mente analitica del detective si mise in funzione automaticamente. – Consideriamo inoltre che ieri sera i pacchetti non c’erano e che l’appartamento è stato chiuso a chiave per tutta la notte. Altre entrare in questi locali non ce ne sono e poi chi si sarebbe disturbato a farci trovare dei pacchetti nella mattina di Natale? Piuttosto Watson, apriamoli e vediamo cosa contengono. – Ci precipitammo a scartare ognuno il suo regalo con la frenetica curiosità di due bambini. Quando vidi il mio rimasi a bocca aperta. Era un libro d’antiquariato che desideravo da molto tempo e che non ero mai riuscito a trovare da nessuna parte.
-E voi Holmes, cosa avete trovato? – Mi accorsi che il mio amico aveva gli occhi lucidi mentre tirava fuori dalla scatola una piccola scultura raffigurante un puledro.
-E’ Autumn Glory, il cavallo che possedevo da ragazzo. Fu l’unico mio amico per buona parte della mia giovinezza e la compagnia di tante giornate altrimenti solitarie. Mi capiva e sapeva consolarmi come nessun altro e quando morì piansi tutte le mie lacrime. Non l’ho mai dimenticato. – Restammo entrambi assorti e pensierosi per alcuni istanti, stupiti di quei regali tanto giusti per ognuno di noi.
-Comunque Holmes, al di là del fatto che questi doni ci facciano piacere, la domanda rimane: chi è il latore? E come ha fatto ad indovinare cosa portarci? Ma, soprattutto, come è potuto entrare in salotto? Siete voi l’investigatore: orsù, fate onore alla vostra fama! – Io ero molto incuriosito, ma vidi che il mio amico si stava concentrando per raccogliere il guanto di sfida lanciato alla sua intelligenza. Cominciò a camminare per la stanza sbuffando fumo dalla pipa come la ciminiera di una locomotiva e nello stesso tempo parlottava tra sé.
-Nessuna entrata…salvo la canna fumaria del camino, naturalmente…due pacchetti ben incartati…il mio nome in forma confidenziale…anche Watson…rumori nella notte…fuliggine sul tappeto…porte sbarrate…niente di rubato…coincidenza con la festività…
-Ebbene? – Sollecitai distogliendolo dalla sua maratona casalinga.
-Allora, caro Watson, è un classico delitto della porta chiusa. Salvo che qui non c’è crimine, anzi un’opera buona. Il meccanismo però è lo stesso: apparentemente senza soluzione. Nessuna possibilità di entrare, né di uscire, e solo un elemento nuovo sulla scena che prima non c’era. Non si tratta di cadaveri, bensì di regali, ma sembrano incongrui ugualmente.
-Quindi?
-Bisogna pertanto ricorrere alla teoria dell’esclusione.
-Che dice…
-Enuncia come al momento in cui si escludano tutte le cause impossibili di un certo avvenimento, le ipotesi che rimangono, anche se improbabili, devono essere quelle vere.
-Nel nostro caso?
-Non può essere entrato nessuno, ma c’è un personaggio che non passa attraverso le porte e che conosce i desideri di tutti. Si muove soltanto la sera di Natale e porta la felicità in ogni casa. Non si fa vedere, ma lascia il segno del suo passaggio nel cuore di chi crede in lui. E’ un signore anziano che però non invecchia mai, esattamente come i sogni che ci portiamo dentro fin dall’infanzia. Viene cercando di fare meno rumore possibile e poi si allontana nel cielo notturno. Insomma, l’identikit è chiaro: si tratta di Babbo Natale!
-Perbacco Holmes, è la prima volta che vi vedo contento di non aver preso un colpevole!
-Buon Natale, Watson!
-Buon Natale, Holmes! – Arrossisco mentre lo scrivo, ma devo confessare che per la prima volta, e forse l’ultima, ci abbracciammo sorridendo come due bambini. Magari quest’ultima frase la cancello.






sabato 4 novembre 2017

L'anno legale

Una volta all’anno, nella notte tra il 28 e il 29 ottobre, le convenzioni internazionali stabilirono che si dovessero mettere indietro le lancette dell’orologio di un anno. Gli economisti avevano calcolato che, cancellando ogni dodici mesi un analogo periodo già vissuto, si sarebbe rimandata la vecchiaia praticamente all’infinito risparmiando milioni di bitcoin.  Da quando fu presa tale decisione, ogni individuo censito all’anagrafe mantenne l’età che aveva in quel momento. Di conseguenza i bambini continuarono a giocare come stavano facendo, mentre gli adolescenti furono felici di andare a scuola, tanto ormai conoscevano a memoria le materie sulle quali venivano interrogati. Gli adulti si compiacquero della loro maturità, mentre i vecchi allontanarono la paura della morte. L’INPS gioì: non aumentò il monte pensioni da pagare, mentre chi lavorava continuò a versare contributi all’infinito. Le case farmaceutiche poterono programmare con precisione il numero dei pannolini e dei pannoloni da produrre basandosi sul numero esatto dei consumatori già esistenti ed i preti seppero esattamente di quante ostie approvvigionarsi per le prime comunioni che si ripetevano costantemente con lo stesso numero di catecumeni. I genitori furono contenti di rimandare all’infinito il momento in cui i figli se ne sarebbero andati da casa, mentre i ragazzi dovettero convivere con il desiderio inappagato di passare dal motorino alla macchina. Insomma, pur con qualche piccolo inconveniente, il risparmio per la società risultò evidente e di fronte al rimpinguamento della casse dello Stato, ogni obiezione venne rintuzzata. Solo la Natura non era d’accordo. Le Grandi Organizzazioni Mondiali non erano riuscite a modificare il ciclo delle stagioni e gli effetti provocati dallo scorrere del tempo su tutti gli organismi viventi. Gli alberi continuavano a trasformarsi partendo dal germoglio fino all’alto fusto, i cuccioli degli animali diventavano individui formati ed in generale ogni cosa mutava per poi deperire. Ma l’uomo, no! Si era deciso di non darla vinta al tempo che passava e tale proposito fu mantenuto rigidamente. Per ingannare l’orologio biologico fu deciso di istituire una Commissione e fornirla dei poteri più ampi di controllo e coercizione. Fu chiamata: “Il Gran Consiglio dei Chirurghi Estetici” e si riuniva regolarmente per imporre ad ogni essere umano di sottoporsi all’annuale restyling atto a mantenere un aspetto fisico sempre uguale.  Da quel giorno si videro in giro facce tirate tutte uguali che stentavano a sorridere per mancanza di pelle utile da tendere sul viso, donne con seni lievitanti e mani maculate, capigliature di tutte le sfumature, dal paglierino al fulvo, senza alcuna concessione al bianco, pance tirate senza grasso ma con grandi collane di cicatrici. Si facevano concorsi per “Miss Botulino” o “Mister Estrogeno” e il Nobel per la Letteratura non fu più assegnato per mancanza di concorrenti. Divenne Presidente della Federazione una maschera di cera che rappresentava un uomo di cinquant’anni, anche se si diceva ne avesse più di ottanta. Solo i poveri invecchiavano manifestamente, gli altri non era dato di sapere.

Nicolino venne alla luce in una casetta spersa in un bosco di larici sulle pendici delle montagne e sua madre non volle denunciarlo all’anagrafe per non essere costretta ad allattarlo all’infinito. Anche per i nuovi nati valeva infatti il principio del tempo rinculante e per un genitore poteva essere un problema avere un pargolo con la barba al quale si era costretti a cambiare il pannolino. Quindi lui crebbe come un “buon selvaggio” senza coercizioni imposte dalla società civile. Verso gli otto anni volle andare in città. Prima d’allora non aveva mai visto altri adulti oltre la madre e trovarsi con tanta gente intorno che lo guardava con occhi spiritati dalla strana espressione, fu per lui uno shock. L’apparizione di un giovane individuo, all’apparenza non condizionato, fu subito segnalata alle autorità che non persero tempo a fermalo per portarlo innanzi al Presidente ed al Consiglio per decidere della sua sorte. Nicolino non seppe trattenersi. Quando vide il Capo del Governo con la fronte spianata, un sorriso falso di trentadue denti di porcellana e gli occhi che non riuscivano a chiudersi del tutto per mancanza di pelle, rimase stupefatto. Poi notò anche il collo avvizzito e le mani adunche e capì. Con la sincerità dell’innocenza, in mezzo a tutti i notabili ed alla gente accorsa per l’occasione, se ne uscì gridando: “Quell’uomo sembra giovane, ma è VECCHIO!” Una risata seppellì il potere con i suoi soprusi e tutti, vergognandosi, si accontentarono solo dell’ora legale abbandonando per sempre la presunzione di fermare il tempo. 

giovedì 19 ottobre 2017

Tre petali e un fiore

Colgo un fiore in un campo
E poi un tre petali in un altro.
Aspiro il profumo di un ricordo
E lo lego con la melodia di una canzone.
Sento nell’aria un balzo del cuore
E lo prendo come l’ultimo treno di un desiderio
Perso, sperso, solitario, illusorio, vago, vano,
Bello, triste, disperato e unico per vivere.
E riempio le mie braccia di un fascio di corolle
Di mille colori e di cento promesse
Legandolo con il filo di un sentimento che mai,
mai per l’eternità di un mai, si potrà sciogliere.
Poi lo dono a te, se lo vuoi.
E tu lo prenderai per metterlo sul davanzale
Della finestra che si apre sulla tua vita.
Ogni mattina guarderai il sole e sentirai quel profumo
Che ti parlerà del mio amore, ovvero di me,
E ti consolerai, ma piano che il mondo non senta.




domenica 27 agosto 2017

Rano

<Rano! Rano! Rano!> Il soprannome lo aveva perseguitato per tutte le prime classi delle elementari, poi lui si irrobustì, distribuì qualche pugno ben assestato ai più spiritosi e fu lasciato in pace. O meglio, continuarono a chiamarlo “Rano”, ma con simpatia e rispetto, per non farlo arrabbiare. Era un ragazzo dotato di un fisico prestante e di un’intelligenza vivace. Entrava facilmente in simpatia, anche per le sue battute pronte che non risparmiavano nessuno tra i compagni ed i professori, ma gli occhi un po’ sporgenti e la bocca larga lo facevano somigliare ad un batrace, per il divertimento di chi l’incontrava. Divertimento che durava poco, spento da una battuta salace e, ove non bastasse, dalla minaccia di passare alle vie di fatto. Andava bene a scuola e, specialmente nelle materie letterarie, era sempre tra i primi. Il professore lo chiamava spesso vicino alla cattedra per declamare qualche poesia ed, in quei momenti, sembrava che il Rano si trasfigurasse, tanto si immedesimava nei versi che stava leggendo. Era così ispirato da riuscire, in qualche maniera, ad affascinare anche i compagni che rimanevano in silenzio ad ascoltarlo, con grande gioia dell’insegnante. La sua generosità nel passare sottobanco le versioni di latino e nel suggerire sempre quando gli occhi imploranti di qualche disperato sotto interrogazione lo fissavano come l’ultima speranza, gli avevano dato una popolarità che spesso si confondeva con l’affetto. E poi, sapeva ascoltare. A ricreazione i compagni maschi spesso dicevano a lui quello che non avrebbero detto a nessun altro e se avevano qualche problema, o volevano soltanto sfogarsi, erano sicuri di trovare una spalla sempre disponibile ed un vero amico. Le femmine, se possibile, erano ancora più assillanti. Gli riconoscevano una sincerità ed una lealtà rara tra i coetanei dell’altro sesso, e gli confidavano “tutto” aspettando un consiglio che, venendo da un maschio, erano certe non sarebbe stato influenzato da gelosie o invidie.
Ma era brutto.
Le ragazze, dopo averlo ascoltato, e magari ringraziato con un bacetto sulla guancia, si allontanavano da lui per correre appresso ai bellocci della scuola, lasciandolo solo e spesso malinconico. Al Rano mancava l’amore. Il suo cuore traboccava di quel sentimento che sentiva così forte e disperato, ma se non provava mai alcuna paura nell’affrontare qualunque prova la sua giovane vita gli sottoponesse, non si sentiva in grado di proporsi a nessuna ragazza, tanto era certo di venire rifiutato. Era conscio del suo aspetto ed era sicuro di rendere ridicola qualsiasi parola dolce dovesse uscire dalla sua larga bocca e che uno sguardo languido si sarebbe rivelato patetico riflesso nei sui occhi a palla.
In particolare c’era lei: Rossana. Erano compagni dalle elementari, e lui l’amava da allora. Può sembrare esagerato parlare d’amore per un bambino o poi per un ragazzino e quindi per un giovane uomo, ma i sentimenti non hanno età e sono tutti importanti ed intensi per chi li vive. Si erano conosciuti con il grembiulino ed il Rano aveva sentito subito che se lei gli avesse chiesto la merenda, o qualsiasi altra cosa, lui sarebbe stato pronto a sacrificarsi. Di Rossana gli piacevano le prime trecce e dopo la frangetta, le fossette sulle guance e come correva appresso alla palla. Piangeva con lei quando la rimproveravano e gioiva per lei quando gli raccontava qualche storia bella. Erano da sempre amici e lui, avendo il timore di perderla se si fosse spinto troppo in là, era stato costantemente attento a rendersi disponibile, ma con un certo distacco per mascherare la bufera che la vicinanza della ragazza gli scatenava dentro ogni volta che s’incontravano.
Un giorno Rossana gli si avvicinò dopo la scuola, nel tragitto per andare a casa. Sembrava imbarazzata, ansiosa, preoccupata per qualcosa che gli doveva dire, ma che forse non aveva il coraggio di affrontare.
-Senti Cì, è da tanto che ci penso. Noi ci conosciamo da sempre e, tu lo sai, io ho sempre tenuta cara la tua amicizia. Anzi, in tutto questo tempo credo che tra noi sia nato qualcosa che è più grande di una semplice amicizia. Vero?
-Certamente. – Rispose lui. – Tu sai che io per te farei qualsiasi cosa.
Mentre pronunciava queste parole, il cuore del ragazzo faceva le capriole come impazzito. Forse lei si era finalmente accorta del suo sentimento e lo ricambiava. Forse, dopo tanto tempo, la sua pazienza veniva premiata. Forse la forza dell’amore si era sprigionata da lui e aveva travolto le difese della ragazza. Forse lei aveva riconosciuto tutti i piccoli e grandi segnali che Rano le aveva lanciato per farle capire quanto fosse importante per lui. Forse il Dio dell’amore ricompensava in quel momento tutte le pene che aveva sofferto. Forse anche per lui era venuto il tempo delle rose e del miele. Oh, Gesù, forse, forse, forse.
-Lo so, Cì. Anch’io, ed è per questo che ti volevo parlare. Sai Cì, ultimamente mi sta succedendo qualcosa che non mi aspettavo. E’ come se mi sentissi pronta a sbocciare. Fatti conto un fiore che ha vissuto per mesi sotto la neve e che con i primi caldi apre la corolla per ricevere i raggi del sole. Quello di cui parliamo sempre tra amiche, sta succedendo anche a me: provo una sensazione nuova.
-Ti capisco. – Disse Rano, ancora prudente, ma eccitato come non mai.
-Ecco Cì, vedi, non so come dirlo.
-Dimmelo, o non dirmelo, non importa. Lascia che il sentimento fluisca dalle tue labbra e tutte le parole del mondo non avranno più significato di fronte allo splendore di una scheggia d’emozione.
-Vedi Cì, forse l’avrai già capito: sono innamorata.
“Oh, vita meravigliosa! Che il mondo si fermi e s’inchini al miracolo! Io sono pronto ed ho il cuore tra le mani pronto ad offrirlo a lei: Rossana. Oh, Rossana!” Così pensava il Rano, mentre lei faceva una breve pausa per poi riprendere il discorso.
-Sì Cì, finalmente ho trovato l’amore, e tu, intelligente come sei, l’avrai senz’altro già capito.
-Forse, cara. Ma, ti prego, parla. – Lui ormai era sicuro che la ragazza avrebbe pronunciato il suo nome legandosi con una promessa. Sentiva che la sua amata finalmente l’avrebbe ricambiato.
-Ecco Cì, tu sei il mio più caro amico e te lo devo dire: mi sono innamorata di Cristiano. – Il sole si spense ed il tempo, per il giovane, si fermò. Gli calò un velo sugli occhi e la sua anima si ripiegò affranta in fondo, in fondo, sotto lo spesso strato della delusione. Il Rano si era sbagliato, aveva equivocato, non era lui l’oggetto del desiderio di Rossana. Ma d’altronde cosa si aspettava? Era brutto, lo era sempre stato e lo sarebbe stato per sempre. Rossana era bella ed era naturale che s’innamorasse di uno bello come Cristiano. Pazzo! Pazzo e ridicolo a sperare qualcosa d’impossibile. Il suo ruolo era quello dell’amico e si sarebbe dovuto accontentare.
-Ah, bene. E quindi? – Disse lui con la voce strozzata, sperando che la ragazza non s’accorgesse di niente.
-Ti volevo chiedere un favore. – Disse lei. – Cristiano non si decide a dichiararsi, sai che non è uno di molte parole. Vedi Cì, dovresti andare da lui e dirgli che anche se è timido e non vuole parlarmi, almeno mi mandasse un sms o una mail con delle parole carine e poi…da cosa nasce cosa. Non credi, Cì, che così si potrebbe sbloccare la situazione? – Le parole di lei gli arrivarono come dal fondo di una galleria, ovattate e rimbombanti, ma ne colse il senso.
-Certo Rossana, andrò da Cristiano e glielo dirò.
-Grazie, Cì. Sapevo di poter contare su di te. – Certo, tutti potevano contare su di lui, ma i suoi conti non tornavano mai ed a nessuno importava.
Questo Cristiano era un bellimbusto dalla risata facile e dagli scherzi grevi. Era il capitano della squadra di pallacanestro della scuola e non c’era domenica in cui si giocava una partita, che un manipolo di ragazzette non occupasse le gradinate dei Palazzetti per incitarlo con il loro tifo adorante. Il “pavone” ovviamente faceva la ruota collezionando amorazzi tanto numerosi quanto fugaci. Il Rano non capiva come una ragazza intelligente e sensibile come la sua Rossana, potesse aver perso la testa per un simile stolido manzo. Ma tant’era, ed avendo preso con lei un preciso impegno, fece in modo di trovare un momento nel quale Cristiano fosse solo per potergli parlare.
-Ciao bello!
-Oh Rano, che vuoi?
-Ho un’ambasciata per te.
-Un’ambasciata? Che vuol dire?
-Vabbè, ti devo dì ‘na cosa.
-Cosa?
-C’è una che ti batte i pezzi e vorrebbe che ti facessi avanti.
-Ancoraaa? Dille di mettersi in fila, alla pischella.
-No, ascolta. Lei è una tipa speciale. Che ti costa? Mandale un messaggio o una mail dicendo che l’hai notata e vorresti uscire con lei. Poi vedrai tu come comportarti. – Cristiano ci pensò un po’ su, ma poi la vanità vinse la pigrizia e disse:
-Uhmmm, d’accordo. Posso mandare un sms con scritto: “Vediamoci.” – Al Rano ribolliva il sangue: quel cerebroleso non era degno dell’attenzione di Rossana, e lei, se era vero che si era innamorata, non meritava di essere trattata come una delle tante. Ancora una volta decise di sacrificarsi per far felice la sua amata.
-Senti Cristiano, se le scrivi così, certamente non la colpisci. Lei è una ragazza romantica e vuole sentire parole che significhino qualcosa. Devi sforzarti un po’ di più.
-Ahò, non mi va’. E poi io non so scrivere, non sono capace.
-Non ti preoccupare, - disse il Rano – per questo ti posso aiutare. Ti preparo il testo di qualche mail che copierai sulla tua casella di posta per poi mandarle a Rossana, così lei ti apprezzerà e tu la conquisterai definitivamente. D’accordo?
-Se lo dici tu…
Per il Rano era un compito facilissimo. Nelle mail riversò tutto il suo sentimento e la sua sensibilità. S’immedesimò nell’oggetto dell’amore di Rossana e, con le parole, la prese per mano facendola volare per i cieli dell’immaginazione dove s’incontrano i destini degli amanti. Lui scrisse, e Cristiano firmò, quelle missive elettroniche che vennero ricevute dalla ragazza come la prova che l’amore puro e totalizzante del quale aveva letto nei romanzi rosa esisteva veramente e che lei ne era finalmente la protagonista.
Andò avanti per qualche tempo, finché i due giovani non si dettero un appuntamento. Il Rano ne era al corrente ed il giorno dopo andò da Cristiano per sapere come fosse andata.
-Male. – Disse il ragazzo. – Ci siamo visti, Rossana ha cominciato a parlare ripetendomi le frasi delle mail, io mi sono sentito in imbarazzo perché non sapevo cosa dire e l’ho piantata lì. Me ne sono andato inventando una scusa.
-Non è possibile! – Rispose l’altro. – Non la puoi trattare così. Adesso vado a casa ed, a nome tuo, le scrivo subito un’altra mail per metterci una pezza. - Il Rano era quasi offeso per interposta persona ed immaginava la delusione di Rossana. Il suo amore per lei era tanto grande che soffriva nel pensarla amareggiata e voleva almeno far uscire di scena Cristiano nella maniera più dignitosa.
Si precipitò al suo computer e, dopo aver impostato l’indirizzo della ragazza, cominciò a scrivere inventando una storia che, in qualche modo, potesse giustificare la fuga di Cristiano. Come al solito l’avrebbe firmata col nome dell’amico sperando così che lei non ci rimanesse troppo male. Era assorto nella creazione quando sentì bussare alla porta della sua stanza.
-Tu? Cosa ci fai qui? – Il Rano rimase stupefatto nel vedere Rossana che era andata a trovarlo. Per la sorpresa alzò le dita dalla tastiera del pc senza pensare di spengerlo.
-Cì, non sai cosa è successo. Ero all’appuntamento con Cristiano quando… - In quel momento Rossana notò il monitor del computer sul quale spiccava la mail indirizzata a lei, e capì.
-Tu, sei stato tu, Cì? Le hai scritte tutte tu quelle bellissime mail firmate da quell’altro? Ma perché l’hai fatto?
-Non capisci, Rossana? Per me è stato come parlarti per la prima volta a cuore aperto. Ho potuto dirti che ti amavo senza la paura di essere ridicolo e senza crearti l’imbarazzo di dovermi rifiutare.
-Cì, Rano, ma io la tua dichiarazione l’aspettavo da tanto tempo. Anche la tresca con Cristiano l’avevo montata per ingelosirti e darti coraggio. Finalmente ci sono riuscita.
Cirano e Rossana, contrariamente ai loro omonimi letterari, cominciarono la loro storia suggellando il patto d’amore con un bacio che, come si sa, altro non è che una chiocciola rosa tra le parole “amo@te.”




giovedì 3 agosto 2017

Piero Angela

Piero Angela mi mette a disagio. Con quell’aria tra il professore di matematica ed il colonnello sabaudo, ogni volta che lo guardo sembra quasi che mi rimproveri per non aver fatto i compiti o per le scarpe non lustrate a specchio. Tratta ogni argomento con una levità distaccata, come ad intendere che qualsiasi cosa si può prendere in considerazione, ma per lui sono solo quisquilie in relazione al livello in cui vive, dove la materialità è sublimata in una forma di eterea e panteistica saggezza cosmica. A volte, raramente e con rispetto parlando, scivola nella pedanteria, ma lui può permetterselo come un vecchio asceta che si sforzi vanamente di indottrinare degli allievi scapocchioni. Naturalmente non mi azzardo a cambiare canale e solo una lieve intermittente “cecagna” mi è d’aiuto con brevi, malcelati, pisolini nel tirare fino alla fine di un “Super Quark” senza cedere alla tentazione dell’abbandono. L’eminente giornalista è uso contornarsi di una congrega di collaboratori che forse esistono solo sui titoli di coda o sono defunti da molto tempo, visto che appaiono unicamente nelle trasmissioni del loro Guru. I nomi di questi inviati sono chiaramente frutto della fantasia del deus ex machina del programma, che si vuol velare di una democraticità fittizia, mentre probabilmente è solo lui che, uno e plurimo, tira le fila delle varie puntate. Giangi Poli: non esiste, chi l’ha mai incontrato a una riunione di condominio o dal barbiere? Paco Lanciano: improbabile, col nome di un peones messicano ed il cognome di una periferia. Lorenzo Pinna: ogni tanto si fa vedere, ma non si è mai presentato: sospetto.
Qualche sera fa, il Gandalf di RAI 1, con un sorrisetto velatamente sadico, ha portato in studio un grande mappamondo sezionato per mostrarne l’interno. Ha messo in evidenza, supportato e mai contradetto dal sedicente esperto di turno, come la nostra beneamata Terra assomigli a un arancino siciliano. La panatura corrisponde alla crosta terrestre, la parte del riso sono rocce in movimento e la mozzarella filante è il nucleo centrale. (Il paragone gastronomico è mio, mi scuso per la volgarità non confacente a cotanta rubrica). Questo nocciolo magmatico pare sia composto da un materiale fluido ed incandescente a circa seimila gradi centigradi che mette in movimento tutta la massa che lo contorna, fino a sfociare in superfice nelle manifestazioni vulcaniche o nei terremoti. Angela ha posizionato, come in un puzzle che non combacia, le varie placche continentali con le relative faglie di scorrimento, annunciando serafico che lo sfregamento di quei tasselloni provocherà l’armageddon e che noi, ovviamente, non possiamo farci niente. Lo sapevamo o l’avremmo potuto supporre. Siamo consci e consapevoli della nostra inanità di fronte alla forza della natura, ma ricordarcelo dopo cena, a cosa serve? Forse a farci andare a letto pensando che sotto ai nostri piedi c’è una specie di perenne barbecue in attesa di fare di noi salcicce; oppure a distoglierci dallo schiacciare quella fila di formiche vicine al tavolo della cucina che, in fondo, nell’ordine del creato hanno la nostra stessa, identica, rilevanza?

 L’aria sulla quarta corda di Bach, con i titoli di coda, consente finalmente di cambiare canale. Un sano Vanzina d’evasione, da qualche parte, lo si trova.

domenica 30 luglio 2017

Ali per volare

Lei non voleva la favola, voleva la follia. Un bar downtown con troppo fumo e la musica che rimbombava nelle orecchie. Non era un posto per signore, ma lei non si sentiva una signora, specialmente in quel momento. Si era elegantemente tolta un bell’anello dall’anulare e l’aveva ridato ad un ragazzo che aveva tutto per renderla felice. Almeno così diceva sua madre andando perfettamente in sintonia con la parte razionale del cervello della ragazza.  In quel momento doveva vincere sul ragionamento e sapeva di poter contare su un unico alleato che in poche sorsate avrebbe l’avrebbe rimessa in sintonia con il suo io profondo. Le promesse erano le solite: casa, bambini, sicurezza economica. E tanta rassegnazione. Ma non faceva per lei, almeno fino a quando si fosse sentita in grado di governare la sua vita e le fosse rimasta la speranza di far spuntare quelle ali che sentiva di avere sottopelle dietro la schiena.

Un tizio, anzi decisamente un amico, che forse aveva incontrato in quello stesso locale, gli aveva diagnosticato con precisione il suo male. Era una patologia senza virus o batteri, ma non per questo meno invalidante. Quel tipo, che non ricordava esattamente chi fosse, dopo una breve conversazione, aveva buttato lì una sentenza che, chissà se per intuizione o casualità, aveva centrato quello che lui sentiva ma non aveva mai ammesso neanche con se stesso.
-Sei condizionato dai legami che ti sei stretto intorno da solo. - Gli aveva detto. – Le responsabilità del lavoro, ma soprattutto il carico degli affetti, ti frenano. Rifletti: quanto tempo ti resta ancora per seguire i tuoi sogni?
-Non si può avere tutto. – Aveva risposto. – E io sono contento di rinunciare a una parte di vita immaginaria per quello che ho. Mi sento fortunato nel sentirmi importante per qualcuno e le fantasticherie di libertà le lascio alle ore notturne ed al fondo dei bicchieri. – Ma forse quelle parole erano solo un alibi per la sua mancanza di coraggio.

I due si guardarono da una parte all’altra del bancone del bar.   




sabato 22 luglio 2017

Il giorno prima d'incontrarti

Credo di essere uscito di casa verso le otto e mezzo per andare al lavoro. Poi mi sono seduto alla scrivania ed ho acceso il computer. Mi aspettavano mille mail e relazioni da evadere. Scrissi a lungo e poi spensi tutto per andare a pranzo.

Il giorno prima d’incontrarti.

Poi ripresi a fare quello che dovevo, come al solito. Alle sei mi alzai e chiusi tutte le cartelle aperte. Lo schermo del pc svanì nascondendo i problemi lasciati per il giorno dopo e mi infilai il giaccone per tornare a casa.

Il giorno prima d’incontrarti.

Una rapida cena, due uova o qualcosa di simile. Il vino versato nel bicchiere che sembrava valere sempre meno di quello che l’avevo pagato, in compagnia di quel crampo allo stomaco che non passava neanche con una falsa promessa di tranquillità.

Il giorno prima d’incontrarti.

Un po’ di televisione e la lettura svogliata di un libro comprato mesi prima che non aveva il potere di distrarmi. A letto, sapendo di dover combattere l’ultima battaglia del giorno contro il sonno che non voleva portarmi via con sé.

Il giorno prima d’incontrarti.

E quindi: la notte. I demoni e le care presenze di tanti anni prima, follie di colori mischiati in un magma sul quale galleggiavo come una barca in balia di frustrazioni mal digerite e di venti di speranza che non sapevo governare.

Il giorno prima d’incontrarti.

Poi tutto questo è tornato ed io ho ripreso in mano la mia vita seduto alla stessa scrivania. Il vino non sa di niente come al solito ed il sonno è sempre il nemico della sera. Ai sogni si aggiungono i ricordi ed un sordo dolore mi strappa una lacrima quando meno me l’aspetto.

Il giorno dopo averti perduto.


sabato 15 luglio 2017

Tarzan, o dovrei dire Wilma?

Che Tarzan fosse gay, nella giungla, lo sapevano tutti. Conviveva ormai da tempo con uno scimpanzé maschio di pelo fulvo di nome “Chita” dal quale si separava raramente. Peraltro, tra gli animali della foresta, non era neanche un caso isolato. I babbuini, ad esempio, sono famosi per il loro insaziabile appetito sessuale che sfogano con qualsiasi altro componente del loro branco senza andare tanto per il sottile tra il dare e l’avere, se così si può dire. Pure i bonobi, primati anch’essi, usano il sesso per far pace tra loro e poi giacere con un bonobo o una bonoba indifferentemente. Addirittura i maestosi leoni spesso lasciano i compiti virili, come la caccia o la protezione del gruppo, alle leonesse e si raggruppano in clan di soli maschi dediti all’ozio ed ad altre attività, compreso il sesso. Quindi la preferenza sessuale di quella strana scimmia senza peli non faceva di certo scalpore. Bisogna anche dire che, essendo l’unico esemplare della razza umana presente in quella zona della foresta, Tarzan non aveva mai saputo che esistessero anche i suoi corrispettivi al femminile e per lui Chita era il massimo della “liaison amoureuse” desiderabile. Lo scimpanzé era dolce, affettuoso e teneva in ordine la tana sull’albero, anche se a volte dava di matto, ed in quei casi bisognava lasciarlo stare. Il buon selvaggio lo sopportava, anche se spesso sbuffava ed era tentato di rompere il rapporto, ma ormai stavano insieme da tanto tempo ed, al di là di qualche occasionale bisticcio, formavano una coppia affiatata e riconosciuta da tutti. A proposito, Tarzan è un nome che venne dato all’uomo successivamente, ma in origine, forse riprendendo il verso di quegli urletti che lanciava ogni tanto, gli altri animali lo chiamavano “Uiiii-llmaaaa” che, per brevità, trascriveremo in “Wilma”.
La vita della coppia trascorreva serena e mentre Chita si dedicava ad esperimenti di “tricoterie” con un filato di liana dapprima masticato e poi abilmente intrecciato, Wilma sfogava la sua creatività preparando manicaretti a base di una “concassé” di vegetali spolverata da una granella di insetti vari che era un vero “bijoux”. La comunicazione fra i due avveniva a versi e gesti, ma spesso nascevano delle incomprensioni che poi erano superate grazie alla loro grande affinità elettiva di amorosi sensi. La ritrovata armonia veniva spesso festeggiata scatenandosi in un ballo tipo “zumba despacito” e poi, una volta caduti a terra stremati, con reciproci peeling delle rispettive zecche e pulci.
Un giorno la routine della foresta fu sconvolta da un caos assolutamente inaspettato e, per molti, spaventoso. Una mandria di strane bestie, rumorosa ed invadente, penetrò la sempiterna cattedrale di verde sradicando la vegetazione al suo passaggio e mettendo in fuga gli animali che mai prima d’allora avevano visto niente di simile. Dal suo rifugio sull’albero, anche Wilma scorse la strana invasione e quale fu il suo stupore nell’accorgersi che molti dei soggetti di quel branco sembrava avessero una certa somiglianza con se medesimo. Qualche volta si era specchiato in un laghetto e si era sempre allontanato da quell’immagine con tristezza poiché non ritrovava niente di simile in tutti gli altri componenti del suo habitat usuale, ma adesso era certo di vedere qualcosa di familiare tra i nuovi arrivati. Gli invasori, urlando e sbraitando in uno strano idioma, occuparono la radura tra i baobab con una quantità di oggetti rumorosi e luminosi come magici fuochi senza fiamme. Il capo branco era un giovane maschio riccioluto dalla voce stentorea e con una mimica vivace. Anche lui doveva possedere una sessualità incerta o omnicomprensiva, visto che dai compagni veniva interpellato con due nomi di genere differente. Spesso lo chiamavano “Angela”, e quindi si sarebbe supposto femmina, ma rispondeva anche quando veniva interpellato come “Alberto”, facendo pensare il contrario.
Un animale del branco degli invasori improvvisamente urlò:
-Silenzio…3,2,1…La Foresta Questa Sconosciuta…Prima…CIAK! – A quel punto il tipo chiamato Angela, parlando in una specie di banana tutta nera, attaccò:
-Buonasera. Vi siete mai chiesti, cari telespettatori, cosa mangia l’armadillo pezzato e come si riproducono le libellule giganti? Perché il rinoceronte, a volte, fissa l’orizzonte come fosse assente senza accorgersi dell’uccello pingitore che gli strappa i peli delle orecchie? E come mai la rana toro non si ecciti vedendo i tulipani rossi? Ecco, a queste ed ad altre domande altrettanto interessanti e di stretta attualità daremo un vasta spiegazione durante le tre ore di durata di questo programma. – L’uomo continuò a parlare per molto tempo, mentre dalle fronde degli alberi e dai cespugli attorno, tutta una variegata fauna seguiva stupita ed affascinata lo spettacolo. Era lo stesso, identico, atteggiamento degli utenti davanti agli schermi televisivi, ma questo gli animali non lo sapevano.
-Dopo questa breve introduzione – proseguì il presentatore ormai con la gola secca dopo aver parlato per cinquantatré minuti – lascio il microfono alla collega Jane che vi stupirà rivelandovi il trucco adottato dallo scarafaggio stercorario per rendere perfettamente sferiche le palline di m…fango. – A momenti Wilma cadeva dall’albero. Da lassù aveva visto un’apparizione inaspettata e sconvolgente. Una creatura bellissima e piena di grazia e leggiadria che in confronto i cigni perdevano in eleganza, per non parlare di quella buzzurra di Chita. Il cuore gli balzo nel petto ed una sensazione strana ed inebriante si impossessò di lui come quella volta che si scolò il succo fermentato di dieci noci di cocco. Anzi, di più, molto di più. Doveva assolutamente vedere da vicino quella meravigliosa femmina, si capiva che fosse tale, e magari toccarla. Avventatamente decise di catapultarsi sul terreno e ghermire quella preda ambitissima e poi portarla via con se. Di slancio afferrò la liana più vicina e cominciò a dondolarsi, poi, presa la spinta, si lanciò da un tralcio all’altro per raggiungere l’obiettivo. Mentre si librava tra gli alberi, gli parve carino avvisare e presentarsi urlando il suo nome: “UIIILLLMAAAA!!!!”. La troupe si spaventò e, guardandosi attorno, si avvide del selvaggio in avvicinamento.
-Tarzan! – Gridarono le persone indicandolo. Infatti era stato immediato associare la figura di quel nerboruto indigeno con il personaggio letterario conosciuto da tutti. Wilma cadde esattamente ai piedi di Jane e, con grandi gesti cercò di far capire alla donna come fosse realmente interessato ad approfondire la loro conoscenza. Lei lo guardò con occhi languidi e gli disse:
Oh, Tarzan. – Wilma non capiva a chi si rivolgesse, ma stava guardando lui. – Finalmente un vero uomo! – Era una serie di equivoci che andavano presto chiariti. Battendosi sul petto, l’uomo articolò:
-Wilma!
-Si, Tarzan, capisco il tuo verso. Ma tu sei Tarzan, vero? – Siccome è risaputo che nel momento del corteggiamento l’uomo direbbe qualsiasi cosa per compiacere la compagna, Wilma rinnegò il suo nome e rispose:
-Umm, Umm! Io Tarzan, tu Jane. – La troupe scoppiò in un appaluso mentre Alberto Angela contattava, via telefono satellitare, gli uffici di viale Mazzini con la proposta di una nuova serie in dodici puntate intitolata: “Il ritorno di Tarzan, l’uomo scimmia.”

Chita vide tutto e giurò solennemente che non si sarebbe messa mai più con un uomo. E se non avesse mantenuto la promessa, che…gli shatush gli venissero per sempre sbiaditi!

martedì 4 luglio 2017

Joshua Logan

Nei primi giorni d’aprile dell’anno del signore 1567, col sorgere del sole, un brigantino armato per una lunga traversata lasciò il porto di Southampton prendendo il mare aperto. Il vento era debole ed il trinchetto e la maestra si gonfiavano a tratti, solo il necessario per spingere avanti la nave. Sul cassero, in piedi, Joshua Logan scrutava la vastità dell’oceano che, spaventoso ed ignoto, appariva calmo e sornione come un gigantesco ondeggiante sudario pronto ad accogliere le velleità dei pazzi che osavano provocarlo. Il capitano era un marinaio di lungo corso ed i sette mari erano stati i suoi compagni fin dalla giovinezza. Una presenza fonte di vita e di morte, consolatrice nelle notti d’estate e nemica durante i fortunali, un rilucente specchio di mille illusioni ed un inferno di gorghi senza fondo e di montagne d’acqua. La paura, l’angoscia, il senso d’impotenza di fronte alla forza della natura, le privazioni di cibo e la solitudine durante gli interminabili viaggi, avevano precocemente incanutito la lunga barba ed i capelli dell’uomo, mentre il cuoio della sua pelle rifletteva la corazza avvolta intorno alla sua anima. Tutto il tempo, gli anni, passati lontano dalla civiltà con la sola compagnia di un manipolo di marinai spesso raccolti tra la feccia dei porti, avevano forgiato il suo carattere dandogli la capacità di comandare, ma togliendogli, ad una ad una, ogni illusione sull’animo umano. Aveva visto i più abietti istinti animaleschi manifestarsi nelle occasioni di pericolo o nella lotta per sopravvivere. Mai una forma di compassione aveva mosso un individuo verso l’altro, se questo significava andare contro il proprio egoismo, e solo nei momenti di tranquillità quelli che chiamava i suoi uomini si dimostravano diversi dagli animali più feroci. A terra una imbiancata di civiltà frenava i comportamenti ribelli, ma a bordo solo il pugno di ferro del comandante poteva far convivere chi era scampato alla forca od i fuggiaschi con l’anima più nera della pece.
La nave trasportava mercanzia varia da una sponda all’altra dell’oceano fermandosi nei porti della costa del nuovo mondo dove i coloni europei stavano costruendo città sempre più grandi. Le Americhe erano ricche di ogni ben di Dio derivante dalla lussureggiante natura dei suoi territori, ma i regnanti europei volevano l’oro strappato agli indigeni e per questo barili di perline e specchietti riempivano le stive dei bastimenti come merce da barattare in cambio del prezioso metallo. A volte le pepite ed i gioielli arrivavano in Europa sporchi del sangue di chi non aveva voluto farsi ingannare, ma questo non importava minimamente ai cristiani committenti.
Poteva capitare che qualche gentiluomo chiedesse un passaggio sui mercantili, magari perché aveva l’urgenza di partire, ed in questi casi una piccola cabina veniva approntata vicino a quella del capitano. Così successe in quel viaggio, ed il sacchetto di sovrane d’oro consegnato nelle mani di Joshua Logan compensò abbondantemente il fastidio di avere un ospite a bordo. Il passeggero era un giovane distinto, forse nobile, che non desiderava rivelare la sua identità. Durante tutto il viaggio rimase chiuso nel suo alloggio, uscendo solo per prendere i pasti insieme agli ufficiali, ma senza concedere alcuna confidenza. Al comandate sembrava un paino azzimato ed in cuor suo lo disprezzava considerandolo un debole protetto solo dai suoi privilegi nei confronti di un mondo feroce che, senza lo scudo dei suoi natali, l’avrebbe sopraffatto in un baleno. Ma, siccome aveva pagato, lo sopportò per tutto il viaggio fino a destinazione.
Dopo più di due mesi per mare, il vascello arrivo nella Baia di Chesapeake e qui si ormeggiò per concludere i suoi traffici. La sosta prevista era di una settimana ed, allo scadere del tempo, la ciurma al completo si ritrovò a bordo. Doveva risalire anche il passeggero, ma di lui non si avevano più notizie. Il capitano decise di aspettarlo ancora un giorno e mandò due dell’equipaggio a cercarlo nelle bettole del porto o nelle locande dove donne accoglienti facevano dimenticare la misura del tempo ad uomini distanti dalle loro famiglie. I marinai non riuscirono a trovare il gentiluomo e neanche ebbero alcuna informazione su dove potesse essere finito, e lo riferirono al capitano. Logan, con una magnanimità che non sapeva neanche lui di avere, aspettò ancora un giorno, ma poi, abbandonando l’uccellino implume al suo destino, all’alba successiva dette l’ordine di salpare.
Trascorsi i primi giorni della traversata di ritorno, nei quali fu occupato a stabilizzare la rotta ed a redigere l’inventario di carico per il giornale di bordo, il capitano volle entrare nella cabina del passeggero. Intendeva frugare tra gli effetti personali del gentiluomo per capire chi realmente fosse ed avere qualche indicazione per avvertire, una volta giunti in porto, i familiari che forse l’attendevano. Il marinaio non aveva nessuna paura ad ammettere di aver levato le ancore senza aspettare, il codice della navigazione gli dava questa facoltà. Anzi, gli imponeva di aver cura innanzi tutto del buon esito del viaggio, compresa la puntualità negli spostamenti, anche se questo avesse comportato trascurare gli interessi o le necessità di qualsiasi persona fosse imbarcata sul veliero. E poi, pensava Logan, se quel disgraziato fosse stato tanto abile o fortunato di non farsi vincere dalle mille insidie del nuovo mondo e dei suoi abitanti, avrebbe potuto rimediare un passaggio su di un bastimento successivo. Guardò quindi nel baule ai piedi del letto dove erano stipati vestiti ed oggetti personali. Con un sorriso di scherno e di superiorità, tirò fuori abiti dai colori sgargianti, camicie ornate di trine ed una serie di orpelli che l’uomo di mare aveva visto solamente in qualche ricevimento di gala. Joshua pensava che quei vestiti denotavano tutta la decadenza di personaggi buoni solo a vivere sulle spalle di chi, come lui, affrontava la vita nella sua cruda realtà. Al capitano scappò addirittura una sonora risata immaginando il damerino, tremante, alle prese con una di quelle tempeste nelle quali si trovava spesso a sguazzare fiero ed impavido.  Continuò a rovistare e finalmente trovò un diario con la copertina in marocchino rosso con sopra impressa una frase in latino: “Amor vincit omnia” e, ancora una volta, sogghignò. Lo aprì e cominciò a leggere. “Mia cara, scriverò su queste pagine ogni giorno con l’illusione di averti vicino e di parlarti. Tu sai quanto mi è costato partire, ma non avrei potuto sottrarmi al tuo desiderio più grande. La malattia ti sta togliendo tanto e l’unico modo per me di aiutarti è nell’alleviare, per quanto io possa, almeno qualcuna delle tante pene che ti affliggono. Quando esprimesti la volontà di riabbracciare nostro figlio partito verso le Americhe e del quale non avevamo più notizie, feci mia la missione di ritrovarlo, ad ogni costo. Conosci le mie paure, il terrore che ho del mare, la debolezza del mio fisico che tante volte mi ha reso inferiore ai miei coetanei. Il dottore che l’ultima volta che ti visitò, guardò anche me, mi diede alcune pozioni e fece mille raccomandazioni che, di fronte al compito che m’attendeva, dimenticai in fretta. Non mi importa di rischiare la salute o peggio, saprò soffocare ogni ansia e mi illuderò di essere, almeno per questa volta, degno di compiacerti. Troverò il nostro ragazzo e per farlo m’inventerò quello che non m’appartiene. Mi ispirerò al tuo coraggio e lo farò mio, negherò i miei limiti e scherzerò coi demoni della mia pavidità e ti prometto di portare a termine il compito dettato dal tuo e dal mio amore. Ci riuscirò, vedrai, e se così non fosse avrò comunque pagato il prezzo della felicità di averti avuto accanto a me.”
Il capitano non si aspettava di trovare, in poche righe, il racconto di una vita e soprattutto il ritratto di una persona del tutto differente da come l’aveva giudicata. Si rese conto che l’uomo dimostrava una forza d’animo inimmaginabile. Il coraggio non è affrontare con sventatezza i pericoli o non provare la paura, al contrario il vero coraggio sta nel vincere le proprie paure e rischiare disinteressatamente per amore o per un ideale. Logan si pentì di aver giudicato basandosi sulle apparenze. Sotto l’aspetto di un personaggio insignificante si celava un vero uomo, se essere uomini significa vivere dando un senso alla propria esistenza che vada oltre la soddisfazione dei bisogni contingenti. Continuò a sfogliare le pagine del diario e, mentre approfondiva la conoscenza del passeggero, nel contempo rimetteva in discussione anche se stesso. Per le vicissitudini della vita, il capitano aveva avuto raramente l’occasione di parlare con qualcuno che non si vergognasse delle proprie debolezze e che traesse la forza dal sentimento e non dai muscoli. Capì che la domanda che, nelle notti in coperta, spesso si poneva sul significato della propria vita come guardiano di un manipolo di disperati, era mal posta poiché altro è il destino di ogni essere umano. Rifletté, Logan, rifletté a lungo.
Un giorno, a metà navigazione, il nostromo andò dal comandante a riferire che l’addetto alla cambusa aveva aperto il barile del rum e si era ubriacato. Questo, a bordo, era un delitto abbastanza grave. Il liquore era un diritto di tutti ed era concesso a razioni ben definite e solo su indicazione del capitano. Bere alla spalle degli altri era un furto particolarmente odioso ed estremamente malvisto dal resto della ciurma. La punizione, secondo consuetudine, doveva comportare cinquanta scudisciate legati all’albero di maestra. Logan chiamò il marinaio colpevole e, già contravvenendo agli usi, ascoltò le ragioni che indusse a sua discolpa. Venne fuori una storia di nostalgia della famiglia lontana e di disperazione per un amore che forse il disgraziato non avrebbe più ritrovato. Balle, pensò Logan, ma influenzato dal diario del gentiluomo, volle vedere un’anima sofferente sotto la brutalità del cambusiere. Per quella volta lo graziò.

La ciurma non la prese bene e quella notte stessa il capitano Joshua Logan fu ucciso nella sua cuccetta con un largo squarcio che gli aprì la gola da un orecchio all’altro.      

lunedì 5 giugno 2017

Sei già di un altro

Il baretto del parco stava per chiudere i battenti ed il vecchio cameriere, come tutte le sere, rassettava il disordine lasciato dai clienti durante il giorno. Trascinava le seggiole d’alluminio sulla ghiaia rimettendole vicino ai tavolini tondi sui quali, con uno straccio bagnato, dava una rapida passata per togliere le briciole ed i residui di gelato. Non vedeva l’ora di tornare a casa e, con l’ennesima sigaretta accesa tra le labbra, borbottava tra sé contro i clienti che non si decidevano ad andar via. Ce l’aveva con una coppia, neanche più tanto giovane, che era arrivata un paio d’ore prima e si era sistemata in un angolo un po’ in disparte, ordinando due beveraggi rimasti a metà. Sarebbe potuto andare da loro e dirgli che era ora di sloggiare, e fra breve l’avrebbe sicuramente fatto, ma c’era qualcosa che lo tratteneva. Li aveva notati perché parlavano poco ed avevano un’espressione seria, forse triste. Non erano in lite, si tenevano per mano, anzi si aggrappavano uno all’altra come legati da una sorta d’amore disperato. Il cameriere vedeva ogni giorno uomini e donne bisticciare o ridere, a volte urlavano e qualcuno amoreggiava sfacciatamente, ma quei due sembravano vivere un sentimento tanto profondo che non aveva bisogno di esprimersi con le parole. Però non erano felici, e si notava. Sembravano in attesa, forse di trovare un coraggio che sentivano di non avere o per raccogliere la forza di dire parole importanti. Lo stanco inserviente doveva chiudere, ma si sentiva quasi in imbarazzo ad andare a disturbali. Pensava che, scuotendoli da quello strano torpore, avrebbe spezzato il loro incantesimo riportandoli alla realtà e forse ad una decisione che non volevano prendere. Mentre il giardinetto dimenticava le voci dei bambini durante il giorno e si avvolgeva in un silenzio fatto di malinconia e mistero, il cameriere diede alla coppia altri cinque minuti e, sospirando, continuò le sue faccende.

Ecco, d’un tratto non parli più. Tu ricominci a pensare, io lo so, al nostro amore. Noi stiamo bene insieme, che cosa importa se tu già sei di un altro, per la vita legata a lui. Anche se asciughi quelle lacrime, si vede che hai pianto ed anche se cerchi di sorridere si vede che sei ancora triste. Noi ci vogliamo bene e a me non interessa che tu appartenga a lui. Noi ci vogliamo bene, ed allora dimentichiamoci che hai fatto una promessa. Forse eri troppo giovane, ed io non c’ero. Una volta hai detto “per sempre”, ma il nostro sempre vive negli attimi nei quali stiamo insieme. La cosa più importante adesso è che stiamo bene insieme. Anche se tu già sei di un altro.

Mi guardi e leggo il tuo pensiero. E’ vero, io sto con lui, lui vuole me, ma tu sei entrato nella mia vita ed ora non so, non so più. I momenti che rubiamo al destino sono preziosi, e quando ti stringo a me sembra che niente altro abbia più importanza. Vorresti che io fossi tua, e forse il tuo amore è così grande che non t’importa che io non possa appartenere esclusivamente a te, se questo significasse rischiare di perdermi. Lo so che un dì il nostro amore dovrà finire, ma nonostante ciò dobbiamo stare insieme. Stringimi la mano e dammi la forza per abbandonarmi e scordare che, anche se stiamo bene insieme, io sono già di un altro.

Improvvisamente faceva freddo. Seduti sulla terrazza del piccolo bar, vedevano in lontananza le luci della città che raccontavano di vite in movimento o vissute dietro le finestre delle case. Tutti quelli che si affannavano a rincorrere l’esistenza come formiche di un enorme formicaio, portavano con sé la propria storia. Tutte differenti, ma ognuna simile alle altre nel cercare un significato che forse non esisteva. Si alzarono tenendosi ancora per mano e si guardarono negli occhi, senza proferire parola. Non serviva, in quel momento la cosa più importante è che stavano bene insieme, ed il resto del mondo, per loro, aveva cessato d’esistere. Avevano dimenticato che lei era già di un altro.


martedì 30 maggio 2017

Alias

La sua disgrazia era stata quella di aver frequentato L’Istituto San Clemente dei Padri Scapoliti a Paderno del Grappa. Per molti anni era stato convittore, dormendo e mangiando con molti altri ragazzi che, come lui, venivano indottrinati dai buoni sacerdoti. Gli avevano insegnato le dottrine umanistiche, i fondamenti della scienze matematiche e soprattutto l’educazione. Si vestiva con giacca e cravatta fin dall’età di sei anni, era controllato nelle letture e guardato a vista in quasi tutti i momenti della giornata. Veniva ripreso se perdeva troppo tempo al computer, oltre quello considerato legittimo per aiutarlo negli studi, la televisione era in una sala comune con il telecomando a disposizione solo del Responsabile, e del telefonino non si aveva notizia. In questi casi la famiglia ha le sue responsabilità, anche se dettate dalle migliori intenzioni. L’avevano scaricato in collegio per formarlo secondo i crismi della severità e del rigore pensando di dargli la stessa impostazione che prima di lui aveva formato il padre ed il nonno. Non solo. L’avevano chiamato Goffredo, che andava benissimo in un mondo popolato di Manfredi, Sveve e Leopoldi con qualche sporadico Clemente o Clementina, ma così facendo l’avevano reso vittima dei più sedicenti spiritosi che lo prendevano in giro chiedendogli se si era messo la maglia di lana, o cose simili. E’ evidente il facile “calembour” tra il suo nome e l’analoga espressione in dialetto veneto. Insomma: una vitaccia. Che durò fino all’esame di maturità, dopo il quale fu rispedito al mittente con un bel diploma in carta pergamena, con tanto di stemmi e svolazzi, e tanti cari auguri. Tornò a Roma, e qui comincia il dramma. Improvvisamente si trovò catapultato in un coacervo di Nandi, Giovà, Giorgè, Coso e Cosa che non avevano una corrispondenza nel Martirologio, ma erano sicuramente figli della tradizione popolare. Ogni aspetto della città era nuovo per lui. Vedeva che quasi tutti camminavano a testa bassa, e fu stupito nel capire che non si trattava di persone colpite da una perniciosa forma di cervicale, bensì della postura adottata per seguire quanto appariva sullo schermo del telefono cellulare. Camminando sentiva parlare qualcuno di “euri”, un’entità monetaria a lui sconosciuta; altri, particolarmente attaccati agli avi, invocavano ad ogni piè sospinto i “morti”, taluni facevano vocalizzi in continuazione articolando le vocali: “Aho’!”. A dir del vero, i giovani sembravano anche piuttosto complimentosi tra di loro apostrofandosi con un vicendevole: “Ah, bello!” al momento d’incontrarsi, ma quando lui provò a rispondere con un cortese “anche lei è prestante”, in caso l’interlocutore fosse maschio, oppure con: “mai quanto sia graziosa lei”, rivolto ad una femmina, venne guardato male e con sospetto. Strano. Anche esteticamente c’erano usi peculiari: la cravatta sembrava bandita dal collo degli uomini e molte signore dovevano essere imparentate con Tarzan, adornandosi di stoffe “animalier” maculate al di là della fantasia.
Goffredo non ci si trovava. Solo dentro casa si sentiva a suo agio, ma a contatto col mondo esterno era come un pesce fuor d’acqua, o un cavolo a merenda, il concetto è quello. Soprattutto si sentiva solo. Aveva provato ad attaccare discorso con qualche coetaneo, ma quando quelli parlavano di Totti lui non lo ricordava tra gli Imperatori di Roma né capitano di un qualsivoglia vascello. Poi discutevano di chi avesse il più recente Ahi Föhn, ma a lui sembrava che non ci fosse niente di appetibile in un asciugacapelli che provocava dolore. Specialmente la sera, i ragazzi si chiedevano dove fosse lo “sballo”, e Goffredo non capiva perché dovessero rincorrere una forma storpiata dell’arte di Tersicore. Dopo averci a lungo riflettuto, infine capì che la sua maledetta educazione lo aveva tagliato fuori dal mondo dei giovani e che, per essere accettato, si sarebbe dovuto adeguare al costume corrente.  Da ragazzo intelligente, trovò la soluzione più adatta: avrebbe studiato per diventare anche lui un…come dicevano? Ecco: “Coatto”, che non presupponeva l’essere in qualche modo forzati, dal latino “coactus” costretto, ma definiva una specie di “enclave” nella società, una forma estetica di appartenenza, un po’come nei Club inglesi, ma senza “regimental tie”.
Fece un rapido, ma intenso, master di romanità attingendo alle fonti più autorevoli. Si procurò diversi DVD con i film nei quali gli attori protagonisti, o i comprimari, parlassero con le espressioni più tipiche del dialetto che fu di Trilussa e Petrolini e le ripassò più volte. Divenne un fanatico di Mario Brega, der Monnezza, di Maurizio Mattioli e perfino di Christian De sica nelle sue interpretazioni più sguaiate. Non si può dire che giunse al limite di pronunciare correttamente lo “tze, tze” alla maniera di Bombolo, ma ci giunse dappresso. Da tutti questi campioni colse un insegnamento, ed ognuno gli fu mentore nel suo percorso verso la coattaggine.
Venne quindi il giorno dell’esame, ovvero si presentò al bar sotto casa per scambiare due parole con il gruppo di giovani che lì stazionava regolarmente. Saranno stati quattro o cinque ragazzi ed altrettante fanciulle, perennemente assorti ciascuno nel proprio device elettronico sorseggiando bevande energetiche e frizzantine.
-Bella, regà! – Esordì correttamente Goffredo.
-E tu dando eschi? – Gli rispose quello che sembrava il “primus inter pares”.
-Che nun m’hai mai visto? C’hai gli occhi foderati de prosciutto?
-Ohh, nun t’allargà, che sinnò te metto in tasca e te meno quanno c’ho tempo.
-M’arimbarzi! Dai che offro a tutti ‘na biretta. – All’offerta d’amicizia, i giovani non seppero sottrarsi e, con un investimento modesto, il neofita fu ben accetto in compagnia.
-Senti un po’. – Disse una biondina con grandi occhi blu e due trecce da collegiale – Ma tu, com’è che te chiami? – Il ragazzo aveva preparato la risposta e, rinnegando il nome che era stato del bisnonno ammiraglio, prontamente rispose:
-Oreste, ma me poi chiamà “er paino” perché dicheno che c’ho ‘na certa elioganza.
-E’ vero, me sembri un sorcio intinto all’olio! – Risero tutti alla battuta della ragazza, e forse perché lei fu la prima a degnarlo d’attenzione, Goffredo alias Oreste si perse nei suoi occhi blu cadendo innamorato a prima vista, come una pera cotta.
Si frequentarono in gruppo, ma uscirono anche da soli. Non si facevano mancare panini alla porchetta e grattachecche ed al ragazzo parve di avere trovato veramente un grande amore, di quelli che durano per tutta la vita. Anche lei, che si chiamava Jessica, ricambiava il sentimento ed entrarono sempre più in confidenza. Ma Goffredo, in fondo all’anima, sentiva un perenne cruccio. Il presupposto dell’amore è la sincerità, e lui viveva nella menzogna. Non aveva il coraggio di rivelarsi per quello che era alla sua amata e per questo si sentiva come se stesse perpetrando il più abietto dei tradimenti. Un giorno non ce la fece più. Prese Jessica da parte e, col cuore in mano, si confidò:
-Devo farti una confessione.
-Dimmi, amò. – Rispose lei vagamente allarmata. – Ahò, stai in campana, che se m’hai tradito te faccio due occhi neri che se te metti a masticà er bambù, er WWF e te protegge.
- No, stai tranquilla, non potrei mai. C’è altro. Vedi, in realtà non mi chiamo Oreste, ma il mio nome è Goffredo…- E continuò spiegando tutta la situazione e le motivazioni che l’avevano spinto a mentirle. Terminò dicendo:
-Ecco, mi sono aperto a te, come le corolle del biancospino alla luce della luna. Ti chiedo venia e spero che tu possa perdonarmi accettandomi per quello che sono.
La ragazza rimase con la bocca aperta per lo stupore per un tempo indefinito, ma era bella anche nell’imitazione della cernia. Poi si strinse le mani al petto e, guardando il fidanzato con occhi languidi ed inumiditi da una furtiva lacrima, così rispose:
-Oh, dolce mio amato. Anch’io ti mentii. In realtà il nome mio sempre agli altri celai, ma, in ver, mi appello Lucinda delle Piane di Grottaminarda. I famigli mi chiamano contessina, ma solo entro le mura dell’avita magione. Simil al tuo costume il mio, quando dovetti occultare la mia identità agli occhi dei ragazzi coetanei. Soffrii e soffro, nel soffocare quanto è di elevato nel mio spirto per non essere qual bianca mosca tra tutti.
Goffredo non poteva credere alla sua fortuna, aveva trovato l’anima gemella.



lunedì 22 maggio 2017

Il Vizio del Fumo

Filippo era sempre un po’ nervoso quando doveva andare dal dentista. Regolarmente, ogni sei mesi, si faceva controllare la bocca per snidare eventuali subdole carie o altri problemini che avrebbero potuto compromettere l’efficienza del suo apparato dentale. La periodicità della visita e la sicurezza che il dottore fosse ben fornito di anestetico, non lo facevano comunque stare tranquillo. Ricordava bene come avesse sofferto quando aveva dovuto sottoporsi ad una “canalare” e l’eventualità, seppure remota, di ricadere in quel tormento, gli si parava innanzi come un incubo ogniqualvolta s’approcciava allo studio medico. Anche quel giorno si trovava nella sala d’aspetto e fumava nell’attesa. Lo sapeva bene che era vietato, ma al momento non c’era nessun altro e lui ne approfittava per consolarsi con quel maledetto vizio che non riusciva a togliersi. Già sentiva i suoi nervi che, dopo l’ennesima lunga boccata, si stavano leggermente rilassando, quando improvvisamente la porta si aprì. Fece appena in tempo a buttare il mozzicone acceso nel cestino della carta straccia per non essere sorpreso in flagrante, che una ragazza più o meno della sua età, di una bellezza abbagliante, fluttuò dentro la stanza. Il verbo è assolutamente appropriato poiché al giovane parve che lei non camminasse come sono usi i mortali, ma simile ad una Venere botticelliana sfiorasse appena il pavimento muovendosi aggraziata ed eterea. Con l’immediatezza e la potenza di un fulmine a ciel sereno, Filippo si innamorò a prima vista.
-Buongiorno. Ma…cos’è quest’odore forte? – Disse la Dea arricciando quello che volgarmente si chiama naso e che in lei era una graziosa virgola posta a sottolineare i delicati lineamenti del viso.
-Quale? – Rispose il ragazzo tentando un disperato bluff.
-Puzza di bruciato. Oddio, il cestino! – Voltando i due laghetti alpini che altri più pedestremente avrebbero chiamato occhi, lei si accorse di una vivace ed allegra fiammella che si librava dal recipiente delle cartacce con l’intenzione di crescere per diventare un promettente piccolo incendio. Con la presumibile prontezza di Diana cacciatrice quando incrociava un cervo sulla rotta dei suoi dardi, la fanciulla prese una bicchiere di plastica dal distributore dell’acqua sistemato in un angolo e, riempito, ne verso il contenuto sull’improvvisata pira. Sfrigolando e sbuffando nuvolette di vapore, il fuoco nascente rintuzzò le sue ambizioni e poi, rassegnato, si spense.
-E’ stato lei? – Interrogò la donna guardando Filippo e contribuendo in tal modo ad aumentarne la confusione mentale.
-Chi, io? – Avrebbe voluto mentire, ma non si sentiva di ingannare chi sicuramente l’avrebbe comunque scoperto, dando di sé un’immagine di viltà. Quindi, assumendosi virilmente le proprie responsabilità, rispose: - Ebbene sì, l’ammetto. Ma non l’ho fatto di proposito.
-Vorrei ben vedere. Lei fuma?
-Confesso il mio vizio. Anzi, visto che siamo in tema di confidenze, le dirò che non è la prima volta che mi capita di incendiare cestini. Non so perché, saranno i miei trascorsi da pivot nella squadra di pallacanestro della Stella Azzurra, ma quando vedo un cesto sento l’irresistibile attrazione di buttarci dentro qualcosa. Purtroppo a volte mi capita di avere tra le dita un mozzicone, e questo ha fatto andare in fumo già un paio di appartamenti.
-Piromane “in pectore”, bene, bene. Ma non ci siamo presentati. Permetta, Annabella Galoppetti Pratolini della Frasca. Lilly, per gli amici, e lei se vuole può chiamarmi così. – Filippo ebbe l’impressione che alla ragazza non fosse dispiaciuto il piccolo incidente e che, forse era un abbaglio, lo guardasse con interesse.
-Filippo. – Disse lui tendendo la mano.
Per una magica frazione di tempo si era scordato dove si trovasse, ma venne a ricordarglielo stentoreamente l’infermiera  convocandolo per la visita e ponendo così termine al primo incontro tra i due giovani.
La seduta durò poco e Filippo uscendo si sarebbe aspettato di ritrovare la ragazza in attesa del suo turno, ma non fu così. Lei era sparita, dileguata, come un bellissimo sogno all’alba di un giorno nuovo. Il giovane ne fu quasi sconvolto, tanta era l’impressione che aveva ricevuto dalla donna, e senza neanche salutare Cinzia, l’assistente del dentista, si precipitò in strada. Camminando immerso nei suoi pensieri, non si accorgeva della vita intorno a lui, ma avvertì distintamente l’inno della Roma Calcio che inaspettatamente si sprigionò dalla tasca interna del suo doppiopetto. Era la suoneria del cellulare impostata sulla canzone della seconda delle sue passioni, adesso che aveva incontrato il “vero” amore della sua vita.
-Ciao, sono Lilly, ti ricordi di me? – Trillò una voce tanto argentina e melodiosa che avrebbe fatto invidia al campione mondiale degli usignoli.
-Certamente, non ti ho più visto dopo la mia seduta e non avrei sperato di risentirti.
-Mi perdonerai se ho insistito con la segretaria del dottore per avere il tuo numero, ma durante il nostro breve incontro mi sei rimasto particolarmente simpatico e ho pensato che mi sarebbe piaciuto rivederti. – Uno trionfo di fuochi d’artificio esplose nella mente del giovane e la serotonina, ormone della felicità, ebbe un picco di produzione ai limiti del sopportabile.
-Anche io ne sarei contento. – Rispose lui soffocando a stento l’entusiasmo. – Dimmi solo dove e quando.
-Sai, io abito in campagna e non vengo quasi mai in città, però potresti venire a trovarmi per il prossimo week end. Ti ospiterei per qualche notte, in villa non ci manca lo spazio. Ti andrebbe?
-Aspetta, fammi vedere l’agenda. Dunque, qui c’è il consiglio di amministrazione, poi devo fare un briefing, un meeting ed un brain storming con il think tank. Facciamo così, sposto l’incontro con Bill Gates che mi aveva proposto un aggiornamento del software per il mio ufficio e…va bene, dopodomani, sabato, sono da te.
Filippo seguì le indicazioni del navigatore che gli aveva fatto lasciare l’autostrada al casello di Firenze Sud ed, ormai da quasi un’ora, lo stava sballottando per strade provinciali e secondarie per giungere finalmente al cancello di un podere che corrispondeva all’indirizzo fornito da Annabella. Si fece aprire ed imboccò un viale costeggiato da alti cipressi. Guidò per qualche altro minuto per poi sbucare su di un vasto piazzale dominato dalla facciata di un edificio grandissimo. Lui si era aspettato di recarsi in una villa nei limiti della normalità, diciamo un po’ più vasta della bifamiliare che normalmente affittava a Riva dei Tarquini l’estate, ma l’edificio che gli si parò innanzi sembrava essere solo di poco più piccolo del Quirinale, ed altrettanto ridente. La ragazza lo stava aspettando sulla soglia del portone.
-Vieni, entra. Benvenuto a Villa Galoppetti Pratolini, accomodati. – Filippo si sentiva intimidito da tutta quella grandiosità, e l’imbarazzo gli fece venire voglia di una sigaretta, ma la soffocò.
-Tu vivi qui? – Le chiese.
-Solo in un’ala del maniero, la maggior parte delle stanze sono chiuse e servono solo come alloggio per i topi, i pipistrelli o qualche altro animaletto selvatico che abbia deciso di rinunciare alla vita all’aria aperta.
-E la tua famiglia?
-Dopo, a cena, la conoscerai. Siamo in pochi: mio padre, il conte Rodrigo, e la moglie di lui.
-Tua madre.
-Non proprio. Mamma ci lasciò quando ero bambina e babbo ultimamente ha pensato bene di risposarsi con una rumena che veniva a svolgere dei lavori domestici in villa. Si chiama Niculina, ma mio padre l’ha ribattezzata Sofia, come la nostra parente spagnola, ma diciamo che non ha esattamente lo stesso “allure”.
-Ho capito, situazione complessa.
-Non poi talmente. Basta finire tutte le parole con la “U”, un po’ come parlando il sardo, e lei, in linea di massima, coglie il senso di tutto. Ma basta presentazioni, adesso ti accompagno in camera tua e, dopo esserti dato una rinfrescata, scenderai nel salone delle armi dove prenderemo l’aperitivo. A proposito…
-Dimmi.
-Sapendo che sei un fumatore, ti ho fatto mettere sul comodino vicino al letto due gustosi e fragranti pacchetti di sigarette che spero gradirai. Non farti scrupolo a fumare nella stanza, sfogati pure come e quanto credi, ad libitum.
-Grazie, va bene, ma potrei anche contenermi, se vuoi.
-Nossignore! – Esclamò lei, improvvisamente agitata. –Non devi reprimerti per nessun motivo, anzi dacci dentro come il turco delle barzellette, senza freni. - Filippo non sapeva se essere stupito o lusingato da tante attenzioni e, ringraziando, seguì la ragazza su per le scale verso il piano nobile.
-Costui è colui? – Chiese il conte padre durante la cena indicando l’invitato.
-Sì papà. – Rispose l’angelo della magione.
-Carinu. – Disse la sedicente contessa. E la conversazione fluì stentatamente tra pause d’imbarazzo e banali commenti sul cibo. Ma a Filippo non interessava niente del contorno, gli bastava vedere seduta di fronte a lui la futura donna della sua vita e scambiare con lei sporadiche occhiatine d’intesa che forse significavano quello che lui non osava neanche immaginare. La parte mondana della serata ebbe termine e tutti si ritirarono verso le rispettive stanze augurandosi la buona notte.
-Buonanotte Filippo. – Con queste parole Lilly si accomiatò dal giovane, sbattendo un po’ le ciglia e facendo volteggiare per l’ultima volta lo chiffon del vestito. –Mi raccomando, prima di addormentarti, pensami almeno un pochino. Me lo prometti? – Non c’era bisogno di chiederlo. Il ragazzo dubitava di poter chiudere occhio quella notte, sovreccitato ed impaziente come poche altre volte in vita sua.
-Uscirò sul balcone per vedere la Luna e parlarle di te. – Le disse ispirato.
-No caro. Non devi uscire, pensami se vuoi, ma vicino al letto, al massimo seduto alla scrivania. Vedrai, viene meglio. – Lui non capì bene il ragionamento, ma avrebbe acconsentito a qualsiasi cosa fosse uscita da quella bocca color delle ciliegie.
Come previsto fu una notte di tregenda. Ogni diavoletto tentatore e qualsiasi immagine dalla più peccaminosa alla più casta, si dettero convegno dietro i lobi parietali di Filippo e lui non riusciva a prendere sonno in nessuna maniera. Arrivò a contare fino a trecentoquarantotto pecore che saltavano una staccionata su di un prato verde, ma nessuna di loro gli portò l’oblio. Fortunatamente aveva a disposizione un’ampia riserva di sigarette e ne fece man bassa. Ne accese una dietro l’altra, ma casualmente non trovò da nessuna parte un posacenere. I primi mozziconi li spense in bagno, poi si stufò e li buttò sul pavimento. Qualcuno volò oltre il cornicione verso il giardino, ma la maggior parte divenne il proiettile indirizzato verso il cestino sotto al tavolo. Il recipiente era stranamente colmo di fogli di carta leggeri, foglie secche e piccole tavolette di una sostanza che ricordava la diavolina. A questo punto è facile intuire come non ci volle molto che il cestino, seguendo il destino dei suoi predecessori appartenuti a Filippo, prendesse fuoco. Purtroppo il contenitore era sistemato molto vicino alle tende della finestra, che forse erano state pulite da poco perché emanavano un vago sentore di benzina, e le fiamme ci misero un attimo per propagarsi. Da una stoffa all’altra, da un mobile al successivo, in breve molta parte della villa era in preda all’incendio.
-Lilly, Lilly! – Chiamò il ragazzo precipitandosi fuori della sua camera per avvertire l’amata e metterla in salvo. Non la trovò al primo piano e quindi, in preda all’angoscia, corse verso l’ingresso per vedere se magari fosse già uscita. Nella concitazione del momento rimase un po’ stupito nel vedere, vestiti come andassero in vacanza, gli abitanti della casa schierati in cortile. Accanto avevano un paio di valige ciascuno e qualche servitore rimasto li stava aiutando a caricare altri bagagli sulla berlinetta di famiglia. Com’era possibile che nel tempo brevissimo tra lo scoppio dell’incendio e quell’incontro tutti si fossero preparati tanto alacremente e con cura? Ma era una domanda che Filippo ripose nei meandri della mente, non era importante adesso che poteva vedere come la sua amata fosse in salvo e, sembrava, di ottimo umore.
-Lilly, mia cara, stai bene? Non posso dirti quanto sia addolorato per questo incidente. Mi potrai perdonare?
-Non ti preoccupare, sciocchezze. Adesso vai, vai. E vaiiii!
E Filippo andò, ramingo ed esule dalla sua felicità. Dopo quel giorno, smise di fumare per punirsi della sua sbadataggine e per dimostrarsi forte di fronte al vizio. Non sentì più Annabella e l’aveva quasi dimenticata quando sul quotidiano che sfogliava ogni mattina lesse: “Risarcimento milionario pagato dall’assicurazione – La famiglia Galoppetti Pratolini ha incassato una cifra a sei zeri per l’incendio della villa secentesca nelle campagne fiorentine. La dimora era in vendita da molto tempo perché il conte non era più in grado di sostenere le spese di mantenimento, ma nessun compratore si era mai fatto avanti. Con i denari ricevuti, il conte Rodrigo con la consorte Sofia nata Rodeanu e la di lui figlia Annabella si sono trasferiti in un appartamento sul lungomare di Nizza per iniziare una nuova vita. La bella ereditiera è in breve divenuta la regina delle notti in Riviera ed un codazzo di play boys internazionali fanno a gara per contendersi i suoi favori.”
Filippo capì di essere stato manipolato, ma siccome era un bravo ragazzo, ne fu quasi contento. In fondo, anche se involontariamente, era stato l’artefice della felicità per la donna più bella che avesse mai incontrato, e questo gli bastava.