martedì 29 novembre 2016

Una Favola di Natale

Devo dire che ero anche un po’ contrariato. Avevo in agenda un appuntamento di lavoro nei pressi di via Veneto ed, all’ultimo momento, proprio mentre stavo entrando nel portone, mi giunse telefonata che, con mille scuse, rimandava l’incontro. Accadeva qualche giorno fa, verso metà novembre, in un pomeriggio autunnale che, come succede a volte, aveva truccato Roma con tutte le sfumature del rosso e del giallo facendola sembrare ancora più bella. Approfittando del regalo di quell’inaspettato tempo libero, decisi di fare una passeggiata a Villa Borghese. Lasciai la macchina al parcheggio ed, attraversata Porta Pinciana, entrai nel parco dalla parte della Casa del Cinema. Potrei dilungarmi nel descrivere la magia di quell’oasi di pace nel cuore della città e di come tante volte, per fretta o disattenzione, non ci rendiamo conto della fortuna di vivere a contatto con meraviglie della natura e dell’arte, ma basti dire che il cipiglio ingrugnito con il quale misi piede sulla prima aiuola, si trasformò in breve in un sorriso quasi di beatitudine. Allungando il passo mi diressi verso Piazza di Siena, mentre intorno a me il silenzio era rotto soltanto dallo scroscio delle fontane e dalle voci dei bambini che giocavano rincorrendosi. C’era pochissima gente, qualche mamma con la carrozzina e sparuti volenterosi uomini di mezz’età che, correndo e sbuffando, sembrava stessero scontando una pena che si erano inflitti da soli. I raggi del sole al tramonto bucavano le fronde dei pini disegnando arabeschi di luce in movimento, e tutto l’insieme faceva pensare di aver varcato la soglia della realtà per entrare in un mondo al di fuori del tempo.  Decisi di sedermi su una panchina per pensare un po’ ai casi della vita, ma volevo trovarne una che non fosse all’ombra. Mi guardai intorno e l’unica che mi sembrava adatta era già in parte occupata. “Guarda quello – pensai – mancano ancora svariate settimane alle Feste ed è già travestito da Babbo Natale. Deve essere la pubblicità di un negozio o per un parco giochi, anche se ritengo sia un po’ presto.” Mi sedetti accanto a lui e, per educazione, gli rivolsi un:
-Salve! – L’uomo mascherato, comodamente seduto e con le mani intrecciate sul pancione, sentendo il saluto, alzò il capo e rivolse lo sguardo verso di me. Notai subito come fosse truccato con maestria. Infatti barba e capelli, bianchissimi e lunghi, sembravano proprio i suoi, attaccati benissimo al faccione rubizzo ed acconciati con molta naturalezza. Anche le rughe sul viso avevano un aspetto genuino e, nell’insieme, sembrava proprio un vecchio normale, anche se un po’ sovrappeso e vestito di rosso. Forse aveva voglia di chiacchierare e mi rispose con un vocione profondo:
-Buona sera, signore.
-Non vorrei disturbarla – dissi io – se vuole mi sposto.
-No, non si preoccupi, non mi disturba affatto. Stavo solo prendendomi una pausa nel giro di prova che faccio sempre sul tragitto che poi percorrerò per lavoro.
-Ah, capisco: molto professionale, da parte sua. Conoscere le vie più adatte, e magari maggiormente affollate, dove portare un messaggio promozionale, mi sembra la premessa per riscuotere un buon interesse. – In realtà mi interessava pochissimo dell’attività di quel pover’uomo che immaginavo costretto a camminare per le vie del cento con un campanaccio in mano gridando ogni tanto “Ohh, Ohh, Ohh,” ed il nome del suo datore di lavoro, ma mi sentivo particolarmente rilassato e mi faceva piacere scambiare due parole. “Che strano!” Esclamerebbe chi dei miei conoscenti, mi avesse visto in quel momento. Io, per carattere, sono…diciamo riservato, qualcuno direbbe scontroso o peggio, ed attaccare bottone con gli sconosciuti non rientra certamente tra le mie abitudini ma, chissà perché, allora mi sembrò assolutamente naturale.  
-Sono talmente tanti anni che faccio la stessa attività che ormai penso di essere esperto, ma un sopralluogo in anticipo non fa mai male. – continuò il vecchio.
-Giusto. E che giro farebbe? Solo per le vie del centro della città o anche in periferia?
-No, no, la mia attività è molto più vasta. Consideri che parto dal Polo Nord e poi vado un po’ dappertutto. – “Ahh” - pensai divertito - “vuoi giocare a fare il personaggio, eh briccone? Bene, adesso voglio proprio vedere se ne sei all’altezza”. Bisogna sapere che se ci fosse una cattedra di Babbonatalogia all’Università, io ne potrei essere comodamente il professore o, quanto meno, l’assistente più preparato. Fin da bambino sono stato affascinato dalla favola del Natale e penso di sapere ogni vicenda relativa al vecchio portatore di doni ed a tutta la combriccola dei suoi aiutanti. Nella libreria della mia cameretta ci saranno stati almeno una ventina di libri, più o meno illustrati, relativi a storie, racconti e notizie inerenti la notte del 24 dicembre, con leggende e tradizioni provenienti dai più svariati paesi. Sono, quindi, un profondo conoscitore della materia e se il vecchio voleva provare a fare l’attore con credibilità, avrebbe dovuto passare il mio esame, ma ero sicuro di prenderlo in castagna.
-Polo Nord, dice eh? A proposito, non ci siamo presentati. Io mi chiamo Stefano, lei?
-Klaus, Babadimiri, Gaghant Baba, Sinterklaas, Papai Noel, Viejito Pascuero, Weinhachtsmann, Ayioc Bασiλης, Noel Baba, Saint Nick e svariati altri. Per semplicità, facciamo solo Klaus.
-Klaus, bene. Dunque, dicevamo, lei partirebbe da Helsinki con la slitta?
-Rovaniemi, per la precisione. Sempre in Finlandia, ma un piccolo villaggio sperso ai confini del Circolo Polare Artico. Si, con slitta e renne, anche se ogni anno sembra che agli animali vada sempre meno di farsi una sgroppata notturna. – “Bravo- mi dissi- hai superato il primo tranello sul nome del luogo di provenienza. Ma adesso, caro mio, viene il difficile per te”.
-Si, si certo, Rovaniemi. A proposito delle renne, dodici vero?
-Nooo, cosa dice? Già mi danno da tanto fare quelle otto, che ci mancherebbe fossero di più.
-Con, aspetti…Rudolph, quella con il naso rosso, in testa.
-Ah,ah,ah! -  Quasi mi spaventai all’improvvisa risata dell’uomo: sembrava lo scoppio di un tuono e ci fu un frullio d’ali tra i rami dei pini intorno a noi: gli uccellini che si erano fermati ad ascoltare, volarono via spaventati.
-Questa è una storia del tutto inventata. – continuò il tipo dopo essersi ripreso dal momento di ilarità – La renna col naso rosso che si accende quando di emoziona: che stupidaggine. E’ stato soltanto il personaggio di un fumetto, del tutto irrealistico! Per fortuna che le altre renne non sono permalose, nessuno si ricorda il loro nome.
-Neanche lei?
-Caro signore, sono vecchio ma ancora non del tutto rincitrullito. Dasher, Dancer, Prancer, Vixen, Comet, Cupid Donder e Blitzen si offenderebbero moltissimo se mi dimenticassi come si chiamano.
-Capisco, ma mi parli un po’ del suo lavoro. Mi sembra un chiaro esempio di mansione part-time, diciamo uno stagionale. A parte la notte del 24 dicembre, che deve essere un vero inferno per lei, negli altri 364 giorni è tutta vacanza o si trasferisce alle Maldive a fare il capo villaggio alla Valtur? – Mi rendo conto che non ero molto cortese con il mio tono da presa in giro, ma cercavo di stuzzicarlo un po’ per vedere se, innervosendolo, gli avrei fatto svelare la sua vera identità. Il vecchio capì immediatamente le mie intenzioni e mi accorsi che era tentato di rispondermi per le rime, ma decise di far finta di niente continuando la conversazione. Assumendo il tono di un maestro paziente mentre parla con lo scolaro capoccione, così rispose:
-Sarebbe come a dire che uno scalatore fatica solo il giorno che arriva in vetta, mentre è chiaro che tutto il resto del suo tempo gli serve per prepararsi a raggiungere la meta. Il mio lavoro, anche se non lo chiamerei proprio così, si svolge nella stessa maniera. Undici mesi a preparare le consegne e solo un giorno per effettuarle. La sfido a trovare qualcosa di più difficile.
-Deve avere una bella organizzazione alle spalle. Si appoggia a qualche industria o laboratorio dalle sue parti?
-Ogni cosa è artigianale, caro amico. Ho una bella squadra di elfi che sanno fare di tutto.
-E lei organizza?
-Io, come si dice oggi, sono il front man, faccio public relations, curo la mail list e mi occupo dell’advertising. Poi c’è un folletto che si chiama Alabaster Snowball che verifica la lista dei bambini buoni, Bushy Evergreen che ha inventato e gestisce la macchina che rende magici i regali e gli operai: Askasleikir, Bjugnakraekir, Faldafeykir con tanti altri. Senza dimenticare le follette Sugarplum Maria, conosciuta anche come Mary Christmas, che assiste mia moglie nel preparare i dolci e Wunorse Openslae responsabile della slitta e delle renne. Tutti indispensabili.
Ero stupefatto, quell’uomo aveva tutte le risposte e le raccontava come fossero vere. O possedeva una fantasia fuori dal comune oppure era un pazzo del tutto immedesimato nel personaggio che stava interpretando. Oppure…c’era un’altra possibilità. Ma cosa andavo a pensare? Mi stavo facendo suggestionare dall’indubbio fascino del vecchio pancione. Avevo creduto di essere tanto furbo ed invece mi aveva smontato con il candore della sincerità. Non sapevo più cosa dire e rimasi in silenzio con la mente in subbuglio. Cosa mi stava succedendo, mi ero rimbambito tutto ad un tratto o stavo vivendo un momento eccezionale? Quello stesso momento che tante volte mi ero immaginato alzandomi di notte per andare in salotto a vedere se sotto l’albero fosse comparso qualche pacchetto che non c’era la sera prima. Ricordo che controllavo se, nel piattino che avevo lasciato con un mandarino ed un bigliettino di dedica, ci fosse rimasta solo la buccia, in segno di gradimento. E di com’ero contento quando mi accorgevo che c’erano i regali e che il frutto era stato gradito. Lui doveva essere passato ed aveva ritenuto che fossi stato abbastanza buono, tanto da lasciarmi i doni; anzi “molto buono” perché c’erano tanti doni. Ma mi rimaneva sempre un piccolo rimpianto nel cuore: quello di non riuscire mai ad incontrare Babbo Natale. Forse adesso, ormai anziano e disincantato, il prodigio si era avverato.
Il sole era ormai calato, e lungo i vialetti di Villa Borghese i lampioni spandevano una fioca luce giallognola. Un velo di umidità nell’aria offuscava tutte le forme ed un ultimo viandante, avviandosi verso l’uscita, buttò lo sguardo su una panchina dove non seppe distinguere se fossero sedute due figure oppure una sola.
-Stefano, quanti anni hai?
-Tanti da non credere più alle favole, caro Klaus.
-Non si è mai troppo vecchi per credere alle favole. Se si perde il gusto di lasciarsi prendere per mano dai sogni e farsi trasportare dove la vita non ha peso ed all’orizzonte c’è la speranza, non vale la pena di vivere.
-Si, credo tu abbia ragione, caro…ti posso chiamare: Babbo Natale?
-Ah,ah,ah! Così mi piaci. Fai come vuoi, e ricorda che non sempre tutto è come appare e che il mondo è pieno di cose misteriose. C’è sempre qualcuno che pensa a te e, se apri il cuore, lo saprai riconoscere. A proposito, quei mandarini erano buonissimi. Adesso devo andare, ciao Stè!
Il vecchio vestito di rosso si alzò dalla panchina sbuffando un po’, poi scrollandosi qualche foglia dal cappello col pon pon si diresse dietro un gruppo di cespugli. Dopo poco udii degli scampanellii e dei versi strani, finché tra i vecchi pini non risuonò un allegro: “Oh, oh, oh, vai Rudolph!” e una lunga ombra nera preceduta da una luce rossa sfrecciò nel cielo, verso la luna piena. Ma come, non aveva detto che Rudolph…Vecchio burlone!




  

venerdì 18 novembre 2016

Ancora mr. Chan

“Due anni fa: una balaonda; l’anno scolso, semblava che eli diventato ebleo e non hai complato niente; quest’anno che vogliamo fale?” Il signor Chan mi sorveglia. Sarà che i negozi dei suoi compatrioti diventano sempre più numerosi e che intorno a lui è tutto un fiorire di lanterne rosse e piante di plastica ma, come le zanzare ai primi caldi, il commerciante cinese all’approssimarsi delle Feste mi sembra sempre più aggressivo. Rivendico il diritto di decidere autonomamente, in base all’umore ed alla disponibilità allo scialacquio, la mia voglia di addobbare casa con gli orpelli natalizi senza dover sentire il mellifluo richiamo velato di rimprovero quando passo dinanzi al “Paradiso del Prezzo Basso”. Trovo particolarmente fastidioso quel dialetto cantonese/testaccino che il vecchio commerciante adopera per rendersi simpatico ai clienti e mostrare, in tale maniera, il suo grado di integrazione con la realtà dell’Urbe che lo ospita. Non so da chi l’abbia imparato, ma sembra che “moltacci tua” piuttosto che “pijatela in del secchio” siano stati suggeriti al rugoso asiatico come tipiche allocuzioni approvate dall’Accademia della Crusca, mentre non credo sia esattamente così, e quindi infarcisce ogni suo discorso con tali espressioni, perlopiù in modo inappropriato. L’allestimento di lucette, festoni e alberi vari in occasione del Natale è un’attività emozionale, dettata da una varietà di componenti complessa ed articolata che, nella sommatoria dei suoi elementi, può portare a risultati tanto esaltanti quanto deprimenti. Quando mi abbandonai all’orgia di acquisti avevo i figli lontani che sarebbero tornati a ridosso delle feste e, pertanto, ogni addobbo era pensato per offrire l’immagine di un evento speciale. Il Natale scorso sentivo l’umore sotto le suole delle scarpe e già il riciclo di quanto avevo messo da parte, ed un paio di candele sparse per casa, mi sembrava sufficiente, se non addirittura ridondante. Quest’anno…devo capire. Non so se attenermi alla razionalità che imporrebbe un’austerity di stampo Merkeliano, o scapricciarmi come fa Renzi con le poste del bilancio pubblico. Sono indeciso se stanziare una piccola somma finalizzata solamente alla sostituzione dei fruttini fulminati o contribuire, con una congrua spesa, ad innalzare quello stentato zero-virgola per cento di Pil che ci dicono sarà l’incremento della nostra economia. Ovvero: lasciarmi andare ad un senile singulto di commozione al richiamo delle xmas carols, oppure spolverarmi di arido e sparagnino cinismo? Naturalmente, anche se non lo voglio ammettere, so bene come andrà a finire. Ammaliato dal primo gorgheggio di Bing Crosby che sentirò dalla radio, dopo la prima strofa di uno stagionale Bublè o chiudendo gli occhi mentre ascolterò gli Wham, le mie difese immunitarie contro lo spirito natalizio crolleranno miseramente come una diga perforata e lasceranno debordare senza freno tutti i melensi e consolatori buoni sentimenti. Sono abbastanza certo che ciò si tradurrà in una propensione alla spesa, ed è per questo motivo che, confesso e me ne vergogno, sto subdolamente approntando un cd apposito da far suonare “a loop” nei nostri negozi al fine di influenzare l’umore dei clienti rendendoli prodighi e dimentichi di ogni nefasta congiuntura. Comunque non mi farò influenzare dal signor Chan ed anzi mi riprometto di dirgli quando l’incontrerò: “Stai al tuo posto, o figlio del Celeste Impero, e bada ai tuoi commerci senza importunare il viandante”. Ma siccome temo che non colga, tradurrò in: “e nun me rompe li…” che lui, naturalmente, farà suo come perla di saggezza.





venerdì 11 novembre 2016

La Prima Volta


-Ho detto di no! Che palle, non insistere.
-Non mi ami. Se mi volessi bene lo faresti, anche subito.
-Anche no. Quando sarà il momento, lo capiremo insieme.
-Mi sono rotto di divertirmi da solo quando ho una ragazza che potrebbe starmi vicino.
-Eddai, non ho mica detto: per sempre. Solo, aspetta un po’, e vedrai che quando lo faremo sarà meraviglioso.
-Però mi prometti che io sarò il primo con cui lo farai?
-Scemo!
La prova d’amore: il mio ragazzo non finiva di assillarmi con questa richiesta ogni volta che ci vedevamo, ma c’era qualcosa che me lo impediva. Naturalmente la questione era all’ordine del giorno anche con le mie compagne di scuola.
-Hai già sedici anni, che aspetti? – Mi dicevano. – Vedrai che una volta “tolto il dente” poi diventa normale e ti piacerà tantissimo. – Uffa, sarò libera di decidere per conto mio, o no? C’era, nel mio Istituto, una suora giovane che sembrava di mentalità più aperta rispetto alle altre e con la quale spesso ci confidavamo per avere un consiglio. Non nascondo che, a volte, ci inventavamo situazioni e problemi imbarazzanti da sottoporle, perlopiù a sfondo sessuale, solo per il gusto di vedere come diventasse tutta rossa mentre cercava una risposta adeguata. Andai da lei.
-Sorella, – pregai – mi dia un suo parere. Sono abbastanza matura per, come dire, lanciarmi nel vuoto con il mio ragazzo o ancora non è ora?
-Maria Verzine Benedeta, ciò! – Rispose la religiosa di chiare origini venete, - ti g’ha da penzarse bene, putea. Una volta che te si butatta non pole retornar de drio! Non fidarte, l’omini son tutti uguali: per loro è un divertimento. Per ti, fiolina, potria esser una cosa scioccanta. Ricordate de Santa Teresa d’Avila, che te ghò dao un santino, quando incitava le putee ad una santa prudenza.
-Ma io non voglio essere santa, sorella.
-Bon, io te l’ho dito: attenta che lo stravisio te porta alla scalcagnata, e poi non venir a pianzare da mi! Scherzo, benedeta, pole venir quando la tu vol.
Confesso che più ne parlavo, maggiormente mi cresceva la voglia e l’eccitazione.  
-Ti devi solo lanciare. – Mi consigliò la mia amica del cuore. – Fai un passo e…zac ti s’accendono tutti i sensi come un flipper in tilt, l’adrenalina sale alle stelle e poi potresti rifarlo altre mille volte ancora. – Me lo diceva dall’alto della sua esperienza. C’era passata l’anno precedente e la prima cosa che aveva fatto il giorno dopo, era stato vantarsene a ricreazione con tutti. Per questo era molto popolare tra i maschi, ed io non ero sicura della sua obiettività.

Mi rivolsi anche a mio padre, con la dovuta circospezione, perché nonostante non capisse i miei problemi quasi mai, ero sicura mi volesse bene, e poi aveva l’esperienza di un vecchio oltre la cinquantina.
-Senti un po’, - attaccai velatamente – se tu dovessi fare una scelta importante e non fossi certo di fare bene o che fosse arrivato il momento giusto, come ti comporteresti?
Poverello, stava tranquillo seduto in poltrona sfogliando il giornale. Alle mie parole fece un balzo come se gli avessero acceso un petardo sotto al sedere.
-Non lo fare! – Urlò diventando tutto rosso, ai limiti dell’infarto. – Non devi farlo! Guai a te se lo fai! Se ci provi, dopo dove andrai a finire? Sei troppo piccola, è troppo presto! La mia bambina… e poi, con chi? Con quello scapocchione che è venuto a prenderti l’altra sera? Ma se è pieno di brufoli: che schifo! Ricordati che sei mia figlia e di quello che tua madre ti ha sempre insegnato.
-Cosa?
-Come, cosa? Beh, ecco...che non si fa. Non alla tua età, non con il primo che passa. Insomma: ti vieto categoricamente di farlo!
- Va bene papà. – E decisi che l’avrei fatto.
Era una bellissima giornata di primavera, marinai la scuola ed il mio ragazzo, ancora più eccitato di me, mi fece salire in macchina. Lui era più grande e con altre esperienze alle spalle. Sapevo, o meglio speravo, che sarebbe andato tutto bene e che, dopo, avrei ricordato quel giorno per il resto della mia vita.
Dopo poco giungemmo in un vasto prato d’erba bassa che si perdeva fino all’orizzonte. Scendemmo dall’auto e, tenendoci per mano, ci avviamo verso una costruzione al limitare del prato. Sopra la porta c’era un’insegna con scritto: “Campo di Volo”. Ci imbragammo e corremmo verso il piccolo aereo in attesa. Quel giorno mi lanciai per la prima volta col paracadute: a momenti morivo di paura. Sarebbe stato meglio se fossimo restati in macchina a fare l’amore.


martedì 8 novembre 2016

Flash



Avrebbe voluto urlare alla luna, ma era troppo lontana, addirittura al di là del giorno. Allora prese una manciata di sabbia da terra e fece scorrere lentamente i granelli tra le dita. Poi ne lanciò in aria il rimanente e restò a guardare come il vento disperdesse la nuvola di polvere verso il cielo. Si mise a sedere sulla panchina vuota sotto il grande, rosso acero ed inspirò forte. Stese le braccia sullo schienale e divaricò le gambe, tanto non c’era nessuno che potesse vederlo. Lasciò andare la mente, senza che alcun pensiero la occupasse, e si abbandonò al sole che tramontava dietro una collina. Sotto la suola del mocassino di vecchio cuoio, sentiva il morbido strato delle foglie cadute e le scostò piano da una parte. Si sfilò una scarpa e strusciò il piede sul terriccio, perché ne avvertiva la necessità; doveva in qualche modo unirsi con quello che lo circondava, annullarsi e confondersi con la natura di cui si sentiva il figlio rinnegato. Non c’era, in quel momento, domanda che potesse essere posta così come non esisteva risposta che lui non conoscesse già. Tutto si apriva uscendo dalla sua anima per chiudersi poi a lui d’intorno come il guscio elicoidale di una conchiglia che rende perfetta la prigione di chi l’abita. Serrò forte gli occhi e mille colori gli esplosero dietro le palpebre. Vide stelle di lontane costellazioni danzare intorno a soli che cambiavano colore mentre stormi di aironi migravano verso sud perdendosi all’orizzonte. Gli sembrò di affacciarsi oltre la vera di un pozzo, proteso verso un vuoto che lo chiamava sussurrando dolci parole, e poi si trovò lanciato su di un rettilineo che improvvisamente s’inarcava come un serpente dalle scaglie nere. Scosse un po’ la testa per scacciare quella visione e nelle orecchie gli tintinnò un concerto di mille campanelli che vide attaccati alle enormi orecchie di un elefante indiano colorato per la festa. L’uomo con il bastone l’invitava a salire sulla groppa dell’animale, ma lui non si sentiva pronto, allora quello balzò sul collo del pachiderma ed insieme corsero via. Sbuffò e cercò di strapparsi da quelle visioni, ma un coniglio bianco con gli occhi rossi lo prese per mano ricacciandolo dietro lo specchio. Una luce accecante l’obbligò a schermarsi la vista e, quando tolse la mano, si trovò ancora solo in un deserto di sabbia e dune. Cosa ci faceva così lontano dal suo mondo? E perché non c’era niente intorno a lui tranne un autobus rosso a due piani con la scritta “Nowhere” sul cartello indicatore della destinazione? Quando mise il piede sul predellino, si alzò una tempesta di vento e tutto divenne confuso in un caleidoscopio di forme e colori, come in quei tubi di cartone che tanto gli piacevano quand’era piccolo. Si era abbandonato a quel gioco, anche se non era certo di volerlo giocare, mentre il tempo si dilatava e si restringeva come il pulsare di un gigantesco ed invisibile cuore, avvertibile solo attraverso la vibrazione dei suoi battiti. Forse non avrebbe dovuto, magari era peccato, c’era la possibilità che fosse addirittura fuorilegge o contro la morale, ma erano tutte categorie della società, e lui era solo. Anzi, era unico nell’universo, come unici erano quei granelli che aveva stretto tra le dita anche se confusi tra miliardi di unità. Ma le sinapsi si dettero un tentacolo connettendosi in maniera proditoria, e l’uomo si rimise gli occhiali. Indossò nuovamente il cappello che aveva posato accanto a sé e si rinfilò le scarpe; sentiva improvvisamente freddo ed abbottonò il giaccone fin sotto al collo. Poi si alzò dalla panchina e riprese la sua strada.