giovedì 27 ottobre 2016

Lo smalto rosso

La finestra socchiusa lasciava passare un refolo d’aria tiepida che annunciava l’estate ormai prossima. Ogni tanto uno sbuffo di vento più vivace faceva voltare le pagine di un libro aperto sul tavolo come stesse cercando la giusta citazione per descrivere un momento incantato. La luce del sole al tramonto entrava ritmata dallo sbattere pigro di una leggera tenda bianca di mussola che, seguendo i capricci della brezza, improvvisamente si impennava come una vela lasciata al lasco. Riverso sul piano della scrivania, con l’orecchio appoggiato al lucido mogano, il capo di una fanciulla sembrava porsi in ascolto dei lievi rumori, forse evocando melanconici sogni o perse melodie. I lunghi capelli biondi le coprivano il viso scendendo ondulati fin sopra le spalle e solo qualche ciocca, mossa dagli spostamenti dell’aria, scomponeva per brevi attimi l’immobilità della figura. La giovane donna era seduta su di una seggiola accostata al tavolo con il braccio sinistro allungato sullo scrittoio nel gesto di raggiungere qualcosa. L’altro, invece pendeva abbandonato di lato al corpo, ricoperto dalla manica del vestito di stoffa leggera dalla quale spuntava un polsino di bianco pizzo che faceva da corolla ai pallidi pistilli delle dita di una mano affusolata. Il pugno era dischiuso, senza forza, e del medio puntato verso il pavimento si vedeva l’unghia di un rosso scarlatto. Ma quello smalto doveva essere fresco o steso malamente perché, a brevi intervalli, una goccia ne colava per terra formando una piccola pozza. Lui si avvicinò chiamandola, per svegliarla, ma lei non si mosse. Allora si chinò posandole una mano sulla spalla, ma accanto al volto della ragazza, sotto una conchiglia che lo teneva fermo, vide un foglio piegato con scritto il suo nome. Lo aprì ed il suo viso divenne terreo come quello della donna che aveva amato. All'uomo sembrò che anche il suo sangue uscisse dal corpo, come quello di lei.

giovedì 20 ottobre 2016

Sua Maestà

-Io qui mi sento come un uccellino nella bambagia. L’ambiente mi si confà, nevvero?
-Ma papà, è tutto così grande e ci sono tante stanze, non ci perderemo?
-Caro figliolo ti faccio una domanda: tu come ti chiami?
-Nando, papà.
-Nossignore! Il tuo nome è Ferdinando ed io mi chiamo Carlo.
-Allora?
-Oh San Gennaro benedetto, uagliò, chista è casa nuostr!
-Ma siamo nella Reggia di Caserta, che c’entriamo noi con questo palazzo?
-Uagliò, stamme bene a sentì. T’aggia ditt ‘nata vota che noi siamo discendenti diretti dei Re di Napoli che costruirono questo palazzo e ci vissero per un sacc ‘e tiemp. Se non ci fosse stato quel brigante di piemontese che ci arrubbò tutto, oggi saremmo i padroni di casa.
-Eh, ma la storia…
-La storia ‘na uallera! La storia la scrivono i vincitori. Quel cafone sabaudo con quell’altro pirata di Garibaldo si sono impadroniti del Regno depredando la nostra casata e fregando tutti i napoletani e gli abitanti del sud. Prima dell’arrivo di quello sbruffone, Napoli era una città all’avanguardia in Europa. Ti potrei parlare di Capodimonte, delle seterie di San Leucio, di come fu fatta la prima teleferica ed il primo collegamento su strada ferrata. Sapevi che, dopo Parigi, Napoli fu la prima città ad adottare l’illuminazione elettrica? Senza parlare del fiorire delle Arti con il Teatro San Carlo e la scuola di opere figurative. Ti basta?
-E poi?
-E poi hanno razziato qualsiasi cosa, a cominciare dal tesoro in lingotti d’oro depositato al Banco di Napoli e trasferito nei forzieri sabaudi, per finire agli arredi di questa stessa reggia che partirono verso Torino: una scialba e fredda cittadina pedemontana.  Da quel momento è iniziato il declino del Sud dell’Italia, maledetto Cavour, i gianduiotti e il barbera.
-O’ vero?
-Sissignore, comm è ver o’ demonio.
I due, che discutevano ai piedi del monumentale scalone d’onore dell’immenso edificio, formavano una ben strana coppia agli occhi dei visitatori intorno a loro. Il più agitato, nella foga del discorso, era l’uomo, di una certa età, vestito con quell’eleganza sartoriale ed anonima che distingue il vero signore. Era l’unica persona ad indossare un cappello che ben s’intonava col paletot di cammello, un tantinello fuori stagione. Anche se il pelo del soprabito mostrava qualche chiazza diradata ed i polsini della camicia sporgevano dalle maniche lisi e sfilacciati, l’aplomb del suo portamento denotava una naturale distinzione che lo estraniava dalla calca. Il piccolo interlocutore era un bambino, di circa dieci anni, che teneva per mano il padre guardandolo incerto se prendere sul serio quei discorsi oppure considerarli come uno dei tanti sogni o delle favole che il genitore gli raccontava prima d’addormentarsi. Si stava facendo ora di chiusura e la gente cominciava ad uscire dal portone principale, ma i due non si muovevano, come fossero tenuti prigionieri dagli sguardi feroci dei leoni di marmo ai lati della scalinata.
-Papà, imm e trasì.
-Spietta nu poc. T’aggia a parlà.
-Dicite.
-Figlio mio ho pensato una cosa. Come ti dicevo, mi sembra ingiusto che io non possa vivere qui, in casa mia, con la mia famiglia, e voglio porre rimedio.
-Vuoi affittare la reggia?
-Ehhh, esàgerat! Non sarebbe possibile, ma da quando ho saputo che l’amministrazione del palazzo cerca un giardiniere, m’è venuta un’idea. Come sai, figliolo caro, qui la reggia è vastissima. Ci sono ali intere dell’edificio che non sono abitate, anzi sono quasi abbandonate all’incuria. Per non parlare dei sottotetti, ancora più vasti e misteriosi.
-Quindi?
-E allora, ecco: m’impiego come giardiniere e veniamo a vivere qui, insieme alla mamma, in un locale abbandonato.
-Steve faziando?
-Nossignore, ascolta bene. Io lavorerò tutto il giorno, poi la sera, quando i visitatori se ne vanno, noi ci ritiriamo nelle nostre stanze. In mezzo alla confusione nessuno ci noterà e, la mattina dopo, ci confonderemo con i turisti che arrivano e potremo uscire liberamente, tu per andare a scuola, io a svolgere i miei compiti e mammat per i suoi mestieri. Poi quando il museo è chiuso…la reggia tornerà nostra! Potremo passeggiare per i saloni liberamente, sederci sul trono o, se vuoi, potrai scorrazzare con la bicicletta lungo i corridoi. Così avremo risolto il problema del lavoro per me, dell’abitazione e, nello stesso tempo, vivremo come si conviene al nostro rango. Cosa ne pensi?
Il ragazzo era rimasto a bocca aperta. Gli sembrava una pazzia, ma allo stesso tempo si sentiva eccitato al pensiero di avere finalmente una camera tutta sua e poi…in quella Reggia. Ma, essendo come tutti i bambini pratico e diretto, vide subito la pecca nel progetto.
-Nun ze po’ fa.
-Oh bella, e perché mai?
-Mamma si opporrebbe. Sai bene che lei non lascerebbe l’appartamentino al Vomero e che sentirebbe la mancanza delle comari. E anche loro come farebbero senza la signora Nunziata che prepara le torte più buone del quartiere?
-Innanzi tutto, mio caro delfino…
-Ohé papà, io non sono un pesce!
-Ah, ah, ah, il delfino è l’erede del Sovrano, e tu sei mio figlio. Non siamo regnanti, ma mica perché un ingegnere è momentaneamente disoccupato non è più ingegnere e non si può fregiare del suo titolo. Siempr ingegnere iè. E poi smettiamo di chiamare la mamma “Nunziatina”, hai mai sentito una regina chiamarsi così? Da oggi ci rivolgeremo a lei come “Maria Carolina”; la sostanza non cambia, ma vuoi mettere la forma?
-Vabbuò, ma ci parli tu.
Fu una battaglia, anzi una guerra, anzi un conflitto nucleare che oppose i coniugi sull’idea del trasferimento, ma alla fine prevalse il senso pratico. La signora Nunz…, pardon, Maria Carolina aveva vissuto per lunghi anni in quaranta metri quadri, bagno e cucina compresi, e non ne poteva più. L’idea di avere spazio a sufficienza e non dover passare la maggior parte della sua vita a mettere in ordine, pena il caos, le sembrava un sogno. Inoltre non avrebbe neanche più dovuto pagare la pigione, e non era cosa da poco. Anche se non aveva velleità nobiliari, non poteva negare che partecipare alla follia del marito faceva sentire anche lei un po’ regina. Così fu deciso, e dopo che don Carlo ebbe assunto il suo impiego, con un trasloco fatto a piccoli pezzi ed in più volte, un bel giorno la famiglia prese possesso del sottotetto più ampio della Reggia di Caserta. A metri quadri era difficile da valutare, ma divise da pareti in cartongesso tirate su nottetempo, si ricavarono una bella stanza matrimoniale per la coppia, la camera di Ferdinando e gli annessi vari. Per i servizi una scala a chiocciola portava ai bagni del piano inferiore e la cucina fu comprata elettrica per allacciarsi, in maniera, diciamo, volante, con l’impianto dell’edificio.
Alla fine dei lavori il capofamiglia chiese:
-Avevo ragione?
-Avevi ragione. Ci siamo sistemati e nessuno si è accorto di nulla, viviamo decisamente meglio e risparmiando anche, adesso non ci manca niente. Maritm, sì nu babà! – Donna Maria Carolina non era prodiga di complimenti, ma quella volta le uscirono dal cuore.  
Sembrava andare tutto per il meglio, ma a Carlo mancava…la corte. Quando la sera girava per le vaste sale piene di arazzi, affreschi e specchiere dorate, si beava di tanta bellezza, ma soffriva per il troppo silenzio. I suoi passi rimbombavano e non poter condividere la sua felicità con altre persone, toglieva molto alla sua soddisfazione. Quegli ambiento erano fatti per ricevere, ballare e stare in compagnia, altrimenti non avrebbe avuto senso costruire tutto quell’apparato solo per il Sovrano. “Mi piacerebbe che anche don Mimì e la combriccola del “Circolo Ex Monarchico” vedessero come mi sono sistemato. Se loro fossero qui rivivrebbero alcuni degli antichi splendori e sono sicuro ne godrebbero con me. Conosco tanti baroni, duchi e principi ormai in disuso che si sono adattati ad una vita borghese e che farebbero follie per partecipare ad un ballo di corte. Forse dovrei…” Si sa che l’appetito vien mangiando, ed anche che la pazzia non ha limite, e quindi il Re in pectore diramò, in maniera clandestina, gli inviti. “Le Loro Altezze Reali Don Carlo e Donna Maria Carolina – dicevano – sono lieti di invitare la Signoria Vostra al Ballo di Corte che si terrà presso il Salone degli Specchi della Reggia di Caserta il giorno… L’invito è subordinato alle seguenti condizioni: 1) Si dovrà mantenere il segreto sull’evento. 2) Il Ballo avrà luogo dalle ore una di notte fino alle cinque. Gli orari sono tassativi e gli invitati dovranno essere presenti unicamente entro questo lasso di tempo. 3) Si prega di intervenire indossando abiti di gala e decorazioni nobiliari.”
Era quello che tutta la nobiltà partenopea sognava da tempo. Come un gruppo di quei carbonari che tanto avevano combattuto nei secoli precedenti, il giorno stabilito, furtivamente, una nutrita schiera di dame e cavalieri entrarono da una porticina sull’angolo nord della reggia per ritrovarsi nel salone indicato. Le ampie finestre erano state oscurate da drappi neri per non far filtrare la luce e tutti i candelieri portavano accese mille candele fornite, senza un esplicito consenso, dalla vicina Parrocchia. Un gruppo di musici era sistemato su un palchetto e quando i “padroni di casa” entrarono nella sala intonarono l’inno nazionale del Regno di Napoli composto da Giovanni Paisiello. Si commossero tutti, e per primi Carlo e Maria Carolina, ma presto superarono il momentaneo imbarazzo aprendo, con grazia e leggiadria, le danze.
Se qualcuno, passando da quelle parti, sentisse storie di fantasmi che abitano la Reggia di Caserta, adesso ne conosce l’origine, ma non lo riveli a nessuno.



lunedì 17 ottobre 2016

Il Viaggio

E finalmente decise di partire. Ci pensava da molto e mille volte l’aveva programmato nella sua mente, ma non si era mai convinto a fare il primo passo. Ma quella volta era sicuro, niente l’avrebbe fermato. Aveva sognato di andare, come nelle canzoni o nelle poesie, prendendo la strada con il sole negli occhi e senza voltarsi indietro, privo di una meta ma sicuro di trovare quello che stava cercando, senza sapere neanche cosa fosse. La vita l’aveva trattenuto, non di certo contro la sua volontà ma anzi consapevole delle scelte che stava facendo, e quella voglia di spiccare il volo l’aveva sempre rintuzzata, rinnegata e riposta tra le aspirazioni impossibili o le pazzie sulle quali scherzare. Ma un certo giorno si era incontrato nello specchio del bagno e si era fissato negli occhi, evitando di schivarsi per il quieto vivere. Si accorse che era un esercizio pericoloso: ci vuole forza per scivolare nella propria anima e coraggio per vedersi come si è, senza falsa indulgenza. Stette un certo tempo a rimirare il proprio volto, come stupito nello scorgere un estraneo che rimandava le sue stesse smorfie, poi si riscosse e prese la decisione: “Vado!” Non era una fuga e neanche un’evasione, non ce n’era motivo. Non si sentiva costretto né in trappola, ma solo non totalmente libero. Ecco la parola: “libertà”. Voleva assaporare quella sensazione di pienezza e solitudine che immaginava provassero le aquile volando sopra i picchi o i folli correndo per le colline. Non per sempre, forse neanche per molto tempo ma solo per poco, sentire l’ebbrezza di correre sul filo del pericolo, con l’incoscienza di un motociclista lanciato su un rettilineo d’asfalto che non importa dove conduca. Accese quindi il computer per programmare il percorso. Sicuramente verso nord, dove gli spazi sono sfumati da nebbie e gli estranei si ritrovano in locande fumose e vocianti sparse per le campagne sempre verdi. Al sud riteneva facesse troppo caldo ed anche la gente era troppo calorosa, mentre lui non voleva rinunciare alla propria solitudine. Sarebbe stata l’occasione per fare il punto sulla propria vita e conoscersi un po’ meglio. Avrebbe preso le distanze dalla sua esistenza e forse, da lontano, avrebbe capito qualcosa di quella strana giostra sulla quale si trovava a girare ogni giorno, o almeno così sperava. E poi, al termine di una giornata di viaggio, si sarebbe seduto sulla balaustra fuori dalla sua camera guardando il tramonto e, di fronte a nessuno, avrebbe tirato fuori tutto quello che aveva sepolto dentro di sé, ed avrebbe pianto o forse riso a crepapelle. Sarebbe andato con l’auto, senza prenotare da nessuna parte e sperava solo che il serbatoio fosse sufficientemente capiente per portarlo lontano, tanto lontano quanto desiderava andare. Doveva fare una vigliaccata, per non ripensarci, ed una domenica mattina, di buon’ora, si chiuse dietro la porta cercando di non svegliare nessuno. Accese il motore, tirò giù la capote dello spider, e partì verso la Flaminia e poi, forse, l’Emilia e poi: chissà. Infornò un cd di vecchie canzoni… ed il diavolo ci mise la coda. Le maledette note portarono i ricordi, le immagini, le sensazioni e la nostalgia, ed i chilometri percorsi sembravano petali di un margherita che man mano, cadendo, toglievano tutto il fascino ed il profumo al fiore dell’illusione. Si chiese il perché e se fosse giusto, o se ne valesse la pena, specialmente quella che forse avrebbe provocato in chi gli voleva bene. Sorrise di se stesso, ed a Orte fece l’inversione di marcia. A casa dormivano ancora tutti, ed anche lui si rimise a letto riprendendo a sognare quel sogno che rimase meraviglioso perché non vissuto.   

giovedì 13 ottobre 2016

Firenze

Firenze, un anno fa, Santa Maria Novella: cammino e guardo in terra. Ammiro le lastre della pavimentazione e mi fermo a leggere una targa inserita nel marciapiede con scritti sopra alcuni versi di un poeta. Poi alzo lo sguardo stringendo gli occhi per riparami dalla luce del sole. E’ una giornata autunnale splendida, brillante e tersa che sembra voler competere con le più belle e dolci della precedente primavera. Vedo la facciata della Chiesa che fa da proscenio ad una piazza dove la vita mette in scena storie di nessuna importanza a confronto con l’eternità evocata dalle sue pietre e, di quinta, un’antica loggia risuonante dei passi di turisti inconsapevoli e frastornati. La magnificenza del cielo, la sontuosità dei monumenti ed un venticello fresco che, leggero, trascina via le voci ed i rumori sfumando tutto in un’atmosfera onirica e surreale, mi ammaliano sollevando i miei pensieri verso una sensazione di pace e di serenità. Provo una piccola ebbrezza, un’ubriacatura momentanea e illusoria di felicità. Cancello il presente e dimentico il passato, vivo nel godimento di un flash d’inconsapevolezza. E poi me ne vergogno. Provo un senso di colpa per questa vacanza rubata, ma io non sono in vacanza. Ho accompagnato una parte di me, dolente e coraggiosa, ad affrontare un percorso di lotta. Proprio ora, mentre la natura sembra in festa, è in corso una battaglia contro un destino che non voglio riconoscere e che contrasteremo con tutte le nostre forze, ma con sofferenza e timore. Come posso, seppure involontariamente, estraniarmi anche solo per un minuto? E’ come quando ci si tuffa in acque gelide e profonde: per un attimo si trattiene il respiro e ci si lascia andare, storditi in un blu senza punti di riferimento, per poi cominciare a battere bracciate con tutto il vigore possibile, al fine di sopravvivere. Oppure come quando arriva un carico troppo forte di elettricità al contatore: provoca un lampo, un corto circuito che stacca la corrente e salva dal rimanere fulminati. Così adesso; nella speranza che questi momenti, fugaci e liberatori, siano lo spiraglio dal quale intravedere la possibilità di una vita diversa, o semplicemente di tornare alla vita. E, come in una preghiera, così sia.
A Dio piacendo, così è stato.


sabato 8 ottobre 2016

Vita d'artista

-Ascolta cosa è scritto sulla Wiener Zeitung di oggi: “Di questi tempi nessuno ha voglia di calpestare il lucido parquet delle sale da ballo con uno stato d’animo leggero e gioioso, ma tutti vivono nella speranza di un futuro migliore.” –Johann Strauss sembrava furente mentre con una mano sventolava la gazzetta sotto al naso del fratello Josef.
-Non è possibile che Vienna, la capitale dell’Impero, sia ridotta come una cittadina di provincia, depressa e avvilita.
-Ma caro fratello, è più che comprensibile. – Josef era il minore dei due, ma il suo carattere riflessivo e pacato lo portava di frequente a placare le intemperanze del primogenito, spesso oscillante tra improvvisi scoppi d’ira e languidi abbandoni. –Solo pochi mesi fa la nostra armata è stata sbaragliata a Königgrätz con migliaia fra morti dispersi e prigionieri. Senza contare l’umiliazione che il maledetto imperatore di Prussia Guglielmo è riuscito ad infliggere ai nostri comandanti. Come puoi pensare che il prossimo carnevale venga festeggiato con l’allegria di sempre? – Si era nei primi mesi del 1867 e le abbondanti nevicate avevano chiuso la città in una morsa di gelo e di tristezza. I reduci tornavano dal fronte, ma la situazione politica era ancora incerta dopo la sconfitta.
-Sì, certo, mi rendo conto, ma mi piange il cuore nel vedere la nostra brava gente che quasi non sorride più. Girando per le vie non si parla d’altro che di miserie, ed il pessimismo sembra essersi impadronito di ogni anima. Figurati che hanno anche annullato tutti i balli in programma e qualsiasi festeggiamento fino a nuovo ordine.
-Lo posso facilmente capire. Anche il nostro re Ferdinando si rende ben conto della situazione e pare che abbia fatto pervenire alla Corporazione delle Arti un messaggio per incitare gli iscritti ad adoperarsi per risollevare l’umore della popolazione.
-Vedi? Dobbiamo fare la nostra parte! – Johann scaraventò il giornale sul pavimento e, come in preda ad un raptus creativo, cominciò a percorrere avanti ed indietro la stanza con lunghi passi. In realtà le falcate non potevano essere più di quattro o cinque, in un senso e nell’altro, ma l’uomo non sembrava avvedersi delle mura e continuava la sua cavalcata come se fosse in uno spazio aperto.
-Calmati, - lo esortò Josef –  è rimasto in programma il Ballo “Hesperus” che si dovrebbe tenere alla Dianabad-Saal il diciotto febbraio prossimo. Quella potrebbe essere l’occasione per presentarci con una nuova composizione, nello spirito di quanto indicato dall’Imperatore.
-Ottimo. Al lavoro, dunque! – I fratelli Strauss erano tra i musicisti più rinomati, ed ogni loro creazione veniva accolta con entusiasmo sia negli ambienti della nobiltà che tra il popolino. Bastavano poche esecuzioni per ritrovare sulla bocca dei viennesi le strofe ed i ritornelli di ogni melodia suonata solo poco tempo prima. In particolare i valzer di Johann sembravano contagiare, come una rapida febbre, sia le grandi orchestre sinfoniche che le bande di provincia, spargendo un po’ di quella gioia di vivere per la quale andava famosa l’Austria Felix di metà ottocento. Il genio degli Strauss, sollecitato dalla particolarità del momento, non tardò a partorire due capolavori che poi resteranno come emblema di quel periodo storico. Il quindici febbraio 1867 fu eseguito per la prima volta “An der schönen blauen Donau” (il bel Danubio blu) e tre giorni dopo, in occasione dell’Hesperus, lo stesso Johann Strauss diresse il valzer “Künstlerleben” (vita d’artista) con un successo travolgente.
Dio creò il tuono per spaventare gli uomini, ma donò la musica per consolarli.