La finestra socchiusa lasciava passare un refolo d’aria tiepida che annunciava l’estate ormai prossima. Ogni tanto uno sbuffo di vento più vivace faceva voltare le pagine di un libro aperto sul tavolo come stesse cercando la giusta citazione per descrivere un momento incantato. La luce del sole al tramonto entrava ritmata dallo sbattere pigro di una leggera tenda bianca di mussola che, seguendo i capricci della brezza, improvvisamente si impennava come una vela lasciata al lasco. Riverso sul piano della scrivania, con l’orecchio appoggiato al lucido mogano, il capo di una fanciulla sembrava porsi in ascolto dei lievi rumori, forse evocando melanconici sogni o perse melodie. I lunghi capelli biondi le coprivano il viso scendendo ondulati fin sopra le spalle e solo qualche ciocca, mossa dagli spostamenti dell’aria, scomponeva per brevi attimi l’immobilità della figura. La giovane donna era seduta su di una seggiola accostata al tavolo con il braccio sinistro allungato sullo scrittoio nel gesto di raggiungere qualcosa. L’altro, invece pendeva abbandonato di lato al corpo, ricoperto dalla manica del vestito di stoffa leggera dalla quale spuntava un polsino di bianco pizzo che faceva da corolla ai pallidi pistilli delle dita di una mano affusolata. Il pugno era dischiuso, senza forza, e del medio puntato verso il pavimento si vedeva l’unghia di un rosso scarlatto. Ma quello smalto doveva essere fresco o steso malamente perché, a brevi intervalli, una goccia ne colava per terra formando una piccola pozza. Lui si avvicinò chiamandola, per svegliarla, ma lei non si mosse. Allora si chinò posandole una mano sulla spalla, ma accanto al volto della ragazza, sotto una conchiglia che lo teneva fermo, vide un foglio piegato con scritto il suo nome. Lo aprì ed il suo viso divenne terreo come quello della donna che aveva amato. All'uomo sembrò che anche il suo sangue uscisse dal corpo, come quello di lei.
giovedì 27 ottobre 2016
giovedì 20 ottobre 2016
Sua Maestà
-Io qui mi sento come un uccellino nella bambagia. L’ambiente
mi si confà, nevvero?
-Ma papà, è tutto così grande e ci sono tante stanze, non ci
perderemo?
-Caro figliolo ti faccio una domanda: tu come ti chiami?
-Nando, papà.
-Nossignore! Il tuo nome è Ferdinando ed io mi chiamo Carlo.
-Allora?
-Oh San Gennaro benedetto, uagliò, chista è casa nuostr!
-Ma siamo nella Reggia di Caserta, che c’entriamo noi con
questo palazzo?
-Uagliò, stamme bene a sentì. T’aggia ditt ‘nata vota che noi
siamo discendenti diretti dei Re di Napoli che costruirono questo palazzo e ci vissero
per un sacc ‘e tiemp. Se non ci fosse stato quel brigante di piemontese che ci
arrubbò tutto, oggi saremmo i padroni di casa.
-Eh, ma la storia…
-La storia ‘na uallera! La storia la scrivono i vincitori. Quel
cafone sabaudo con quell’altro pirata di Garibaldo si sono impadroniti del Regno
depredando la nostra casata e fregando tutti i napoletani e gli abitanti del
sud. Prima dell’arrivo di quello sbruffone, Napoli era una città
all’avanguardia in Europa. Ti potrei parlare di Capodimonte, delle seterie di San
Leucio, di come fu fatta la prima teleferica ed il primo collegamento su strada
ferrata. Sapevi che, dopo Parigi, Napoli fu la prima città ad adottare
l’illuminazione elettrica? Senza parlare del fiorire delle Arti con il Teatro
San Carlo e la scuola di opere figurative. Ti basta?
-E poi?
-E poi hanno razziato qualsiasi cosa, a cominciare dal tesoro
in lingotti d’oro depositato al Banco di Napoli e trasferito nei forzieri
sabaudi, per finire agli arredi di questa stessa reggia che partirono verso
Torino: una scialba e fredda cittadina pedemontana. Da quel momento è iniziato il declino del Sud
dell’Italia, maledetto Cavour, i gianduiotti e il barbera.
-O’ vero?
-Sissignore, comm è ver o’ demonio.
I due, che discutevano ai piedi del monumentale scalone
d’onore dell’immenso edificio, formavano una ben strana coppia agli occhi dei
visitatori intorno a loro. Il più agitato, nella foga del discorso, era l’uomo,
di una certa età, vestito con quell’eleganza sartoriale ed anonima che
distingue il vero signore. Era l’unica persona ad indossare un cappello che ben
s’intonava col paletot di cammello, un tantinello fuori stagione. Anche se il
pelo del soprabito mostrava qualche chiazza diradata ed i polsini della camicia
sporgevano dalle maniche lisi e sfilacciati, l’aplomb del suo portamento
denotava una naturale distinzione che lo estraniava dalla calca. Il piccolo
interlocutore era un bambino, di circa dieci anni, che teneva per mano il padre
guardandolo incerto se prendere sul serio quei discorsi oppure considerarli
come uno dei tanti sogni o delle favole che il genitore gli raccontava prima d’addormentarsi.
Si stava facendo ora di chiusura e la gente cominciava ad uscire dal portone
principale, ma i due non si muovevano, come fossero tenuti prigionieri dagli
sguardi feroci dei leoni di marmo ai lati della scalinata.
-Papà, imm e trasì.
-Spietta nu poc. T’aggia a parlà.
-Dicite.
-Figlio mio ho pensato una cosa. Come ti dicevo, mi sembra ingiusto
che io non possa vivere qui, in casa mia, con la mia famiglia, e voglio porre
rimedio.
-Vuoi affittare la reggia?
-Ehhh, esàgerat! Non sarebbe possibile, ma da quando ho
saputo che l’amministrazione del palazzo cerca un giardiniere, m’è venuta un’idea.
Come sai, figliolo caro, qui la reggia è vastissima. Ci sono ali intere dell’edificio
che non sono abitate, anzi sono quasi abbandonate all’incuria. Per non parlare
dei sottotetti, ancora più vasti e misteriosi.
-Quindi?
-E allora, ecco: m’impiego come giardiniere e veniamo a vivere
qui, insieme alla mamma, in un locale abbandonato.
-Steve faziando?
-Nossignore, ascolta bene. Io lavorerò tutto il giorno, poi
la sera, quando i visitatori se ne vanno, noi ci ritiriamo nelle nostre stanze.
In mezzo alla confusione nessuno ci noterà e, la mattina dopo, ci confonderemo
con i turisti che arrivano e potremo uscire liberamente, tu per andare a
scuola, io a svolgere i miei compiti e mammat per i suoi mestieri. Poi quando
il museo è chiuso…la reggia tornerà nostra! Potremo passeggiare per i saloni
liberamente, sederci sul trono o, se vuoi, potrai scorrazzare con la bicicletta
lungo i corridoi. Così avremo risolto il problema del lavoro per me, dell’abitazione
e, nello stesso tempo, vivremo come si conviene al nostro rango. Cosa ne pensi?
Il ragazzo era rimasto a bocca aperta. Gli sembrava una
pazzia, ma allo stesso tempo si sentiva eccitato al pensiero di avere
finalmente una camera tutta sua e poi…in quella Reggia. Ma, essendo come tutti
i bambini pratico e diretto, vide subito la pecca nel progetto.
-Nun ze po’ fa.
-Oh bella, e perché mai?
-Mamma si opporrebbe. Sai bene che lei non lascerebbe l’appartamentino
al Vomero e che sentirebbe la mancanza delle comari. E anche loro come
farebbero senza la signora Nunziata che prepara le torte più buone del
quartiere?
-Innanzi tutto, mio caro delfino…
-Ohé papà, io non sono un pesce!
-Ah, ah, ah, il delfino è l’erede del Sovrano, e tu sei mio
figlio. Non siamo regnanti, ma mica perché un ingegnere è momentaneamente
disoccupato non è più ingegnere e non si può fregiare del suo titolo. Siempr
ingegnere iè. E poi smettiamo di chiamare la mamma “Nunziatina”, hai mai
sentito una regina chiamarsi così? Da oggi ci rivolgeremo a lei come “Maria
Carolina”; la sostanza non cambia, ma vuoi mettere la forma?
-Vabbuò, ma ci parli tu.
Fu una battaglia, anzi una guerra, anzi un conflitto nucleare
che oppose i coniugi sull’idea del trasferimento, ma alla fine prevalse il
senso pratico. La signora Nunz…, pardon, Maria Carolina aveva vissuto per
lunghi anni in quaranta metri quadri, bagno e cucina compresi, e non ne poteva
più. L’idea di avere spazio a sufficienza e non dover passare la maggior parte
della sua vita a mettere in ordine, pena il caos, le sembrava un sogno. Inoltre
non avrebbe neanche più dovuto pagare la pigione, e non era cosa da poco. Anche
se non aveva velleità nobiliari, non poteva negare che partecipare alla follia
del marito faceva sentire anche lei un po’ regina. Così fu deciso, e dopo che
don Carlo ebbe assunto il suo impiego, con un trasloco fatto a piccoli pezzi ed
in più volte, un bel giorno la famiglia prese possesso del sottotetto più ampio
della Reggia di Caserta. A metri quadri era difficile da valutare, ma divise da
pareti in cartongesso tirate su nottetempo, si ricavarono una bella stanza
matrimoniale per la coppia, la camera di Ferdinando e gli annessi vari. Per i
servizi una scala a chiocciola portava ai bagni del piano inferiore e la cucina
fu comprata elettrica per allacciarsi, in maniera, diciamo, volante, con l’impianto
dell’edificio.
Alla fine dei lavori il capofamiglia chiese:
-Avevo ragione?
-Avevi ragione. Ci siamo sistemati e nessuno si è accorto di nulla,
viviamo decisamente meglio e risparmiando anche, adesso non ci manca niente.
Maritm, sì nu babà! – Donna Maria Carolina non era prodiga di complimenti, ma
quella volta le uscirono dal cuore.
Sembrava andare tutto per il meglio, ma a Carlo mancava…la
corte. Quando la sera girava per le vaste sale piene di arazzi, affreschi e specchiere
dorate, si beava di tanta bellezza, ma soffriva per il troppo silenzio. I suoi
passi rimbombavano e non poter condividere la sua felicità con altre persone,
toglieva molto alla sua soddisfazione. Quegli ambiento erano fatti per
ricevere, ballare e stare in compagnia, altrimenti non avrebbe avuto senso
costruire tutto quell’apparato solo per il Sovrano. “Mi piacerebbe che anche
don Mimì e la combriccola del “Circolo Ex Monarchico” vedessero come mi sono
sistemato. Se loro fossero qui rivivrebbero alcuni degli antichi splendori e
sono sicuro ne godrebbero con me. Conosco tanti baroni, duchi e principi ormai in
disuso che si sono adattati ad una vita borghese e che farebbero follie per partecipare
ad un ballo di corte. Forse dovrei…” Si sa che l’appetito vien mangiando, ed
anche che la pazzia non ha limite, e quindi il Re in pectore diramò, in maniera
clandestina, gli inviti. “Le Loro Altezze Reali Don Carlo e Donna Maria Carolina
– dicevano – sono lieti di invitare la Signoria Vostra al Ballo di Corte che si
terrà presso il Salone degli Specchi della Reggia di Caserta il giorno… L’invito
è subordinato alle seguenti condizioni: 1) Si dovrà mantenere il segreto sull’evento.
2) Il Ballo avrà luogo dalle ore una di notte fino alle cinque. Gli orari sono
tassativi e gli invitati dovranno essere presenti unicamente entro questo lasso
di tempo. 3) Si prega di intervenire indossando abiti di gala e decorazioni
nobiliari.”
Era quello che tutta la nobiltà partenopea sognava da tempo. Come
un gruppo di quei carbonari che tanto avevano combattuto nei secoli precedenti,
il giorno stabilito, furtivamente, una nutrita schiera di dame e cavalieri
entrarono da una porticina sull’angolo nord della reggia per ritrovarsi nel
salone indicato. Le ampie finestre erano state oscurate da drappi neri per non
far filtrare la luce e tutti i candelieri portavano accese mille candele fornite,
senza un esplicito consenso, dalla vicina Parrocchia. Un gruppo di musici era
sistemato su un palchetto e quando i “padroni di casa” entrarono nella sala
intonarono l’inno nazionale del Regno di Napoli composto da Giovanni Paisiello.
Si commossero tutti, e per primi Carlo e Maria Carolina, ma presto superarono
il momentaneo imbarazzo aprendo, con grazia e leggiadria, le danze.
Se qualcuno, passando da quelle parti, sentisse storie di
fantasmi che abitano la Reggia di Caserta, adesso ne conosce l’origine, ma non
lo riveli a nessuno.
lunedì 17 ottobre 2016
Il Viaggio
E finalmente decise di partire. Ci pensava da molto e mille
volte l’aveva programmato nella sua mente, ma non si era mai convinto a fare il
primo passo. Ma quella volta era sicuro, niente l’avrebbe fermato. Aveva
sognato di andare, come nelle canzoni o nelle poesie, prendendo la strada con
il sole negli occhi e senza voltarsi indietro, privo di una meta ma sicuro di
trovare quello che stava cercando, senza sapere neanche cosa fosse. La vita l’aveva
trattenuto, non di certo contro la sua volontà ma anzi consapevole delle scelte
che stava facendo, e quella voglia di spiccare il volo l’aveva sempre
rintuzzata, rinnegata e riposta tra le aspirazioni impossibili o le pazzie
sulle quali scherzare. Ma un certo giorno si era incontrato nello specchio del
bagno e si era fissato negli occhi, evitando di schivarsi per il quieto vivere.
Si accorse che era un esercizio pericoloso: ci vuole forza per scivolare nella
propria anima e coraggio per vedersi come si è, senza falsa indulgenza. Stette
un certo tempo a rimirare il proprio volto, come stupito nello scorgere un
estraneo che rimandava le sue stesse smorfie, poi si riscosse e prese la
decisione: “Vado!” Non era una fuga e neanche un’evasione, non ce n’era motivo.
Non si sentiva costretto né in trappola, ma solo non totalmente libero. Ecco la
parola: “libertà”. Voleva assaporare quella sensazione di pienezza e solitudine
che immaginava provassero le aquile volando sopra i picchi o i folli correndo
per le colline. Non per sempre, forse neanche per molto tempo ma solo per poco,
sentire l’ebbrezza di correre sul filo del pericolo, con l’incoscienza di un
motociclista lanciato su un rettilineo d’asfalto che non importa dove conduca. Accese
quindi il computer per programmare il percorso. Sicuramente verso nord, dove
gli spazi sono sfumati da nebbie e gli estranei si ritrovano in locande fumose
e vocianti sparse per le campagne sempre verdi. Al sud riteneva facesse troppo
caldo ed anche la gente era troppo calorosa, mentre lui non voleva rinunciare
alla propria solitudine. Sarebbe stata l’occasione per fare il punto sulla
propria vita e conoscersi un po’ meglio. Avrebbe preso le distanze dalla sua
esistenza e forse, da lontano, avrebbe capito qualcosa di quella strana giostra
sulla quale si trovava a girare ogni giorno, o almeno così sperava. E poi, al
termine di una giornata di viaggio, si sarebbe seduto sulla balaustra fuori
dalla sua camera guardando il tramonto e, di fronte a nessuno, avrebbe tirato
fuori tutto quello che aveva sepolto dentro di sé, ed avrebbe pianto o forse
riso a crepapelle. Sarebbe andato con l’auto, senza prenotare da nessuna parte
e sperava solo che il serbatoio fosse sufficientemente capiente per portarlo
lontano, tanto lontano quanto desiderava andare. Doveva fare una vigliaccata, per
non ripensarci, ed una domenica mattina, di buon’ora, si chiuse dietro la porta
cercando di non svegliare nessuno. Accese il motore, tirò giù la capote dello
spider, e partì verso la Flaminia e poi, forse, l’Emilia e poi: chissà. Infornò
un cd di vecchie canzoni… ed il diavolo ci mise la coda. Le maledette note portarono
i ricordi, le immagini, le sensazioni e la nostalgia, ed i chilometri percorsi
sembravano petali di un margherita che man mano, cadendo, toglievano tutto il
fascino ed il profumo al fiore dell’illusione. Si chiese il perché e se fosse
giusto, o se ne valesse la pena, specialmente quella che forse avrebbe
provocato in chi gli voleva bene. Sorrise di se stesso, ed a Orte fece l’inversione
di marcia. A casa dormivano ancora tutti, ed anche lui si rimise a letto
riprendendo a sognare quel sogno che rimase meraviglioso perché non vissuto.
giovedì 13 ottobre 2016
Firenze
Firenze, un anno fa, Santa Maria Novella: cammino e guardo in
terra. Ammiro le lastre della pavimentazione e mi fermo a leggere una targa inserita
nel marciapiede con scritti sopra alcuni versi di un poeta. Poi alzo lo sguardo
stringendo gli occhi per riparami dalla luce del sole. E’ una giornata
autunnale splendida, brillante e tersa che sembra voler competere con le più
belle e dolci della precedente primavera. Vedo la facciata della Chiesa che fa
da proscenio ad una piazza dove la vita mette in scena storie di nessuna
importanza a confronto con l’eternità evocata dalle sue pietre e, di quinta, un’antica
loggia risuonante dei passi di turisti inconsapevoli e frastornati. La
magnificenza del cielo, la sontuosità dei monumenti ed un venticello fresco
che, leggero, trascina via le voci ed i rumori sfumando tutto in un’atmosfera
onirica e surreale, mi ammaliano sollevando i miei pensieri verso una
sensazione di pace e di serenità. Provo una piccola ebbrezza, un’ubriacatura
momentanea e illusoria di felicità. Cancello il presente e dimentico il
passato, vivo nel godimento di un flash d’inconsapevolezza. E poi me ne
vergogno. Provo un senso di colpa per questa vacanza rubata, ma io non sono in
vacanza. Ho accompagnato una parte di me, dolente e coraggiosa, ad affrontare
un percorso di lotta. Proprio ora, mentre la natura sembra in festa, è in corso
una battaglia contro un destino che non voglio riconoscere e che contrasteremo
con tutte le nostre forze, ma con sofferenza e timore. Come posso, seppure involontariamente,
estraniarmi anche solo per un minuto? E’ come quando ci si tuffa in acque
gelide e profonde: per un attimo si trattiene il respiro e ci si lascia andare,
storditi in un blu senza punti di riferimento, per poi cominciare a battere
bracciate con tutto il vigore possibile, al fine di sopravvivere. Oppure come
quando arriva un carico troppo forte di elettricità al contatore: provoca un
lampo, un corto circuito che stacca la corrente e salva dal rimanere fulminati.
Così adesso; nella speranza che questi momenti, fugaci e liberatori, siano lo
spiraglio dal quale intravedere la possibilità di una vita diversa, o semplicemente
di tornare alla vita. E, come in una preghiera, così sia.
A Dio piacendo, così è stato.
sabato 8 ottobre 2016
Vita d'artista
-Ascolta cosa
è scritto sulla Wiener Zeitung di oggi: “Di questi tempi nessuno ha voglia di
calpestare il lucido parquet delle sale da ballo con uno stato d’animo leggero
e gioioso, ma tutti vivono nella speranza di un futuro migliore.” –Johann Strauss
sembrava furente mentre con una mano sventolava la gazzetta sotto al naso del
fratello Josef.
-Non è
possibile che Vienna, la capitale dell’Impero, sia ridotta come una cittadina
di provincia, depressa e avvilita.
-Ma caro
fratello, è più che comprensibile. – Josef era il minore dei due, ma il suo
carattere riflessivo e pacato lo portava di frequente a placare le intemperanze
del primogenito, spesso oscillante tra improvvisi scoppi d’ira e languidi
abbandoni. –Solo pochi mesi fa la nostra armata è stata sbaragliata a Königgrätz
con migliaia fra morti dispersi e prigionieri. Senza contare l’umiliazione che
il maledetto imperatore di Prussia Guglielmo è riuscito ad infliggere ai nostri
comandanti. Come puoi pensare che il prossimo carnevale venga festeggiato con l’allegria
di sempre? – Si era nei primi mesi del 1867 e le abbondanti nevicate avevano
chiuso la città in una morsa di gelo e di tristezza. I reduci tornavano dal
fronte, ma la situazione politica era ancora incerta dopo la sconfitta.
-Sì, certo,
mi rendo conto, ma mi piange il cuore nel vedere la nostra brava gente che
quasi non sorride più. Girando per le vie non si parla d’altro che di miserie,
ed il pessimismo sembra essersi impadronito di ogni anima. Figurati che hanno
anche annullato tutti i balli in programma e qualsiasi festeggiamento fino a
nuovo ordine.
-Lo posso
facilmente capire. Anche il nostro re Ferdinando si rende ben conto della situazione
e pare che abbia fatto pervenire alla Corporazione delle Arti un messaggio per
incitare gli iscritti ad adoperarsi per risollevare l’umore della popolazione.
-Vedi?
Dobbiamo fare la nostra parte! – Johann scaraventò il giornale sul pavimento e,
come in preda ad un raptus creativo, cominciò a percorrere avanti ed indietro
la stanza con lunghi passi. In realtà le falcate non potevano essere più di quattro
o cinque, in un senso e nell’altro, ma l’uomo non sembrava avvedersi delle mura
e continuava la sua cavalcata come se fosse in uno spazio aperto.
-Calmati, -
lo esortò Josef – è rimasto in programma il Ballo “Hesperus” che si
dovrebbe tenere alla Dianabad-Saal il diciotto febbraio prossimo. Quella
potrebbe essere l’occasione per presentarci con una nuova composizione, nello
spirito di quanto indicato dall’Imperatore.
-Ottimo. Al
lavoro, dunque! – I fratelli Strauss erano tra i musicisti più rinomati, ed
ogni loro creazione veniva accolta con entusiasmo sia negli ambienti della nobiltà
che tra il popolino. Bastavano poche esecuzioni per ritrovare sulla bocca dei
viennesi le strofe ed i ritornelli di ogni melodia suonata solo poco tempo
prima. In particolare i valzer di Johann sembravano contagiare, come una rapida
febbre, sia le grandi orchestre sinfoniche che le bande di provincia, spargendo
un po’ di quella gioia di vivere per la quale andava famosa l’Austria Felix di
metà ottocento. Il genio degli Strauss, sollecitato dalla particolarità del
momento, non tardò a partorire due capolavori che poi resteranno come emblema
di quel periodo storico. Il quindici febbraio 1867 fu eseguito per la prima
volta “An der schönen blauen Donau” (il bel Danubio blu) e tre giorni dopo, in
occasione dell’Hesperus, lo stesso Johann Strauss diresse il valzer “Künstlerleben”
(vita d’artista) con un successo travolgente.
Dio creò il
tuono per spaventare gli uomini, ma donò la musica per consolarli.
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