lunedì 26 settembre 2016

Alan.

“L’amore non è un sentimento, è una capacità. E’ la capacità di aprire il cuore ed accogliere l’amore.”
-Hai capito come ha risposto alla lettera di quella disperata? – Chiara era letteralmente rapita dalla bellezza di un concetto che sembrava spiegarle quello che lei stessa si era domandata innumerevoli volte: cos’è l’amore? E voleva rendere partecipe del suo entusiasmo l’amica del cuore, che però sembrava non capire.
-Dai, sono frasi da bigliettino nei cioccolatini.
-Povera stupida. Allora, guarda: tiro fuori qualche rivista e leggiamo insieme, poi mi dirai. – Senza indugi la ragazza si diresse verso uno scaffale della sua libreria dove, ordinatamente in fila, erano disposti tutti i numeri del settimanale che, nell’ultima pagina, riportava la rubrica: “La posta di Alan.” Questo Alan era un personaggio misterioso, sicuramente un uomo, che rispondeva ai quesiti posti dai lettori, per la stragrande maggioranza di sesso femminile. Doveva trattarsi di una persona con una vasta esperienza principalmente in campo sentimentale, ma anche in tanti altri settori che andavano dai viaggi alla cucina fino, addirittura, alla moda. Per tutti gli argomenti aveva un consiglio o un suggerimento a volte banali, spesso ispirati ed, eccezionalmente, addirittura profondi. Veniva seguito da un numero di followers stupefacente, con grande soddisfazione dell’editore che contava sul richiamo dei suoi articoli per fidelizzare le lettrici.
-Leggi: ad una ragazza che non sa se uccidere i genitori o scappare di casa, risponde: “Cara, il destino che ci spetta percorre il sentiero lastricato dalle nostre azioni. Se porrai intralci di negatività sui tuoi passi, prima o poi inciamperai, e le lacrime versate per la sofferenza della caduta non laveranno il rimorso delle cose non fatte.”
-E cosa significa? – Chiese Francesca, l’amica cinica.
-Oggesù, fai venire il latte alle ginocchia. E’ chiaro: le dice di comportarsi bene, rispettare i genitori ed allontanarsi da casa solo con il loro consenso e quando avrà un lavoro.
-Dici?
-Uffa. Ne prendo un’altra a caso: “Caro Alan, il mio ragazzo mi tradisce con la mia migliore amica. Cosa devo fare: rendergli la pariglia o far finta di niente? Sheila 98” E senti la risposta: “Adorata Sheila 98, prendi in mano il tuo cuore e pesalo. Se lo troverai troppo ponderoso per le tue braccia, lascialo andare. In un primo momento ti sembrerà di aver perso una parte di te, ma poi ti tornerà tutto l’amore che meriti. L’altra è solo una paglia nel vento.”
-Cioè?
-Di coccio, sei di coccio! Detto terra, terra: molla il porco e manda a quel paese la puttanella. Sono chicche di saggezza in forma di poesia. Ma aspetta, guarda come risponde anche ai quesiti sul sesso. – Clara scelse un’altra rivista dove c’era quello che cercava e lesse: - “Caro Alan, durante i rapporti spesso mi distraggo perché non provo niente. Cosa mi consigli? Insoddisfatta 2000” La risposta: “Cara Insoddisfatta, di nome e di fatto, le perle non sono destinate ai porci e le ali per Icaro furono un’illusione. Noi siamo fatti di materia vivente ed il fuoco si accende quando sulla scintilla soffia un alito di desiderio. Ricorda che un desco male imbandito è il segno di un oste inesperto e non di un cliente pretenzioso.” Geniale!
-Traduzione?
-Non sei tu il pesce lesso, ma è il tuo ragazzo che non vale una cicca. Chiaro?
-Sarà,- disse la scettica Francesca – ma vorrei vederlo questo bel tipo. Sto’ Alan che pontifica tanto, ma chi si crede di essere? Forse avrà avuto anche qualche esperienza, ma certamente non ha tutte le risposte in tasca. Mi piacerebbe tanto conoscerlo, incontrarlo per capire chi si nasconde dietro quelle parole.
-Verooo? Esatto! – Chiara si felicitò nel sentire pronunciare quelle parole che corrispondevano a quello che lei pensava da qualche tempo. – Io pure! Anch’io voglio conoscerlo. Ho deciso di andare alla redazione del giornale e chiedere di lui.
-Potrebbe essere una delusione.
-Sei sempre negativa…Io so esattamente chi aspettarmi. Ho letto tante delle sue risposte che mi sono fatta un quadro preciso sia della sua personalità che del suo aspetto fisico.
-E come ci sei riuscita, è stata pubblicata una fotografia di questo Alan?
-Non esattamente, perché deve mantenere l’anonimato, ma è un esperto di arti marziali e di vela, quindi deve avere un corpo atletico e abbronzato. Età dai trentotto ai quarantatré.
-Questa è bella. Come fai ad essere tanto precisa?
-Ho incrociato i dati delle sue canzoni preferite, della prima volta che è andato allo stadio, del film che ha più influenzato la sua giovinezza e di quando ha raccontato del suo esame di maturità, ed il risultato è inequivocabile.
-Miss Marple ti fa una pippa!
-Scherza pure, ma sono sicura. Abbastanza, sicura. Anzi, ti dirò di più: deve essere biondo e con gli occhi chiari perché una volta ha detto che la luce forte gli dà fastidio.
-Vabbè, allora è deciso: andiamo a incontrare questo Alan. Bello come il sole e poetico come Romeo.
Gli stati d’animo erano del tutto diversi mentre le due ragazze si recavano presso la redazione della rivista. Chiara era praticamente innamorata; di un ideale forse, ma cotta come una ragazzina per la pop star del momento. Francesca, sebbene di qualche mese più giovane, sembrava invece sua madre. Riprendeva l’amica e cercava di distoglierla da quell’infatuazione letteraria, che faceva tanto signorina dell’ottocento, ma ogni sua obiezione veniva rimandata al mittente con fastidio e cieca fede nell’esistenza di un archetipo d’amore.
-Scusi, permette? – Il vigilantes/portiere seduto dietro la scrivania all’entrata del palazzo del giornale sembrava stesse esaminando la relazione trimestrale della Consob, tanta era la sua attenzione sui fogli che teneva in mano, mentre si trattava solo dell’ultima Settimana Enigmistica. Con l’aria di sufficienza giustificata dalle mostrine sulle spalline e dal distintivo sul bavero dell’uniforme, l’uomo alzò lo sguardo su quelle ragazzette venute ad importunarlo accogliendole con un classico:
-Dica?
-Vorremmo parlare con il dottor Alan. – Il guardiano non era sorpreso dalla richiesta. Quelle due erano solo le ultime di una schiera di sciacquette, come lui le chiamava, che regolarmente si presentavano per lo stesso motivo. La risposta era la solita:
-N’è possibile.
-Perché, non è in sede?
-Per esserci, c’è, ma non posso fa passà nisuno.
-Non può avvisare che vorremmo parlargli?
-Noneee! Come ve l’ho da dì? Gli ordini sò chiari: nun se po’! – Le ragazze si scambiarono un’occhiata pensando la stessa cosa, e Chiara si fece coraggio prendendo l’iniziativa. Posò sul bancone la mano dalla quale spuntava l’angolo di una banconota da 20 euro:
-Ameno ci dica a che ora esce.
-Vabbè. – come la lingua di un rospo che raggiunge una mosca, la mano dell’uomo ghermì in un lampo la cartamoneta.
-Questo è facile: se ne và tutte le sere alle dieciotto (sic) e trenta, con il primo turno dei giornalisti. Se ve mettete a sede su ‘na panghina ar giardinetto de fronte, e c’avete pazzienza, lo vedrete passà.
-Grazie, gentilissimo. – La sottintesa ironia di queste parole fu totalmente sprecata. Mancava solo un’oretta e le amiche seguirono il consiglio del cerbero scegliendo una panchina da dove potessero vedere chiaramente l’ingresso dell’edificio. Alle sei e mezza cominciarono ad uscire dei gruppetti di persone e qualche solitario dipendente.
-Occhio! Non sarà difficile individuarlo, guarda bene. – Chiara fremeva, eccitata in vista del tanto atteso incontro. La piccola fiumana di gente si esaurì in breve, ma nessuno degli uomini che, alla spicciolata, si stava allontanando corrispondeva alla descrizione di quello desiderato.
-Corriamo: andiamo dal portiere e chiediamogli di indicarci Alan.
-Scusi, ma qual è Alan tra tutti quelli?
-Ahhh, ancora? Quello laggiù col cappotto grigio e il cappello nero.
-Ma chi, quello bassetto con una borsa sotto al braccio?
-Eggià!
Francesca lanciò un’occhiataccia all’amica con un sorrisetto misto di compatimento e ironia, come a dire: “Te l’avevo detto!”. Poi si presero sottobraccio e si allontanarono verso la metro per tornare a casa.
L’ometto, da lontano, l’aveva notate ed aveva capito. Gli era successo altre volte di vedere lo sguardo di delusione quando qualche sua lettrice realizzava che lui era il famoso Alan. Ma non gl’importava, si era creato un mondo estraneo alla sua realtà che l’aiutava a vivere un’esistenza solitaria e priva di altre soddisfazioni. Non gli pesava tornare a casa e chiudersi nel suo studio in compagnia solamente di un vecchio cane e del computer. Attraverso il pc e le domande delle lettrici della rivista, riusciva ad uscire dal suo corpo gracile e malandato trasformandosi in Alan, il poeta viveur, affascinante e misterioso. “Quando il bozzolo diventa troppo stretto, la farfalla lo rompe distendendo le ali per volare nel cielo.” L’uomo si appuntò la frase che avrebbe usato in una prossima risposta e si allontanò nel calare della sera.



    

sabato 17 settembre 2016

Amelia.

Le ragazze facevano parte della seconda quindicina di quel mese. Erano tre e si stavano trasferendo dalla casa di madame Rita, a Bologna, in quella molto più grande e rinomata di madame Fiordaliso a Firenze. Il viaggio, nella seconda classe di un treno regionale, non si presentava lungo né particolarmente disagevole. Anzi, siccome le giovani donne si erano ritrovate già altre volte a lavorare nello stesso locale, le quasi due ore di tragitto erano cominciate in maniera scanzonata e divertente, come una gita scolastica per alunne un po’ fuori corso. Avevano preso uno scompartimento in una della carrozze di testa del treno, quella più vicina alla prima classe, e si erano accomodate sistemando i loro bagagli sulla retina sopra i sedili. I posti a sedere nella cabina erano sei, ma ancora poco prima di partire, non era salito nessun altro oltre a loro tre.
-Speriamo di restare sole, così saremo libere di parlare come vogliamo. – Disse quella dai capelli rossi. La chiamavano “la colonnella” perché, come spesso è associato alla capigliatura fulva, aveva un carattere deciso e volitivo e non disdegnava di usare il frustino durante gli incontri riservati.
Mo’ ben! – Le rispose una delle compagne che ancora si stava affannando per riporre un valigione che sembrava pesantissimo. Il bagaglio era sproporzionato in confronto alla donna che sembrava quasi una bambina paffutella. Il nome di battaglia era: “la scolara” perché sfruttava la sua apparenza per vestirsi spesso da allieva delle suore, con tanto di grembiulino e fiocco al collo. I clienti sembravano apprezzare molto la combinazione della divisa scolastica con la biancheria intima audace, e lei era sempre richiestissima.
-Io mi siedo accanto al finestrino! – Intervenne l’altra compagna che sembrava uscita da un quadro di Renoir. Bella rubizza ed in carne, alta e generosa di seno, sembrava il ritratto della salute. Faceva pensare ai campi di grano al latte caldo ed alla sana vita contadina. Era rassicurante e materna e, specialmente gli uomini piccoli ed insicuri, adoravano perdersi tra le sue braccia forti e morbide come quelle materne. Ovviamente, quando veniva scelta, rispondeva al soprannome de “la mamma”.
Generalmente non c’erano problemi lungo il percorso del treno, ma lo scavalcamento degli Appennini presentava sempre delle incognite, specialmente d’inverno. Non era infrequente che la neve bloccasse gli scambi o che i binari fossero ostruiti da qualche slavina o da ostacoli portati dal maltempo. In quei casi si rimaneva bloccati, a volte per delle ore, fintanto che la natura non avesse finito di sfogarsi o i responsabili delle ferrovie avessero trovato un rimedio. Ma una cosa era certa: in ogni stagione e con qualsiasi tempo, la locomotiva sarebbe partita in perfetto orario, su questo il regime non transigeva.
-Dai, dai che mancano cinque minuti e nessun’altro è venuto nel nostro scompartimento. – disse la colonnella, con la speranza di poter restare tra di loro amiche.
-Mi dispiace deluderti cara, ma sembra proprio che quella signorina che è passata adesso nel corridoio stia cercando il suo posto. Ci scommetto che sta con noi. E poi, guarda il cartellino di prenotazione sopra la poltrona, qualcuno deve venire certamente. – La mamma non aveva torto poiché la giovane donna, che prima era transitata gettando uno sguardo un po’ smarrito all’interno del loro scompartimento, adesso si era affacciata e faceva capoccella dalla porta a vetri.
-E’ permesso? – disse la nuova venuta – Non per disturbare, ma credo di avere quel posto.
-Mo venga pure avanti, cara. La si accomodi pure, va là! Senza complimenti, che c’entriamo, bel belle, tutte quante. Vero signorine?
-Certamente. - Rispose a nome delle altre la scolara. –Ha comprato il biglietto ed il sedile è suo. – Le amiche fecero buon viso alla nuova venuta, anche se adesso il viaggio sarebbe stato meno divertente dovendo ognuna tenere per sé i vari racconti aneddoti e pettegolezzi piccanti legati alla loro comune attività. La nuova venuta era una giovine distinta, alta, forse un po’ androgina, con un cappotto di panno nero bordato, al collo ed ai polsi, da una folta pelliccia in tinta. La sua agiatezza era evidenziata anche dalla bella borsa intonata alla scarpe che sembravano nuove e lucidissime. Il tutto era completato da un cappellino che certo non serviva a riparare dal freddo, ma solo come complemento alla “mise”. La silhouette magra e slanciata mostrava tratti d’eleganza ed il viso, d’un ovale perfetto, sarebbe stato bene a qualsiasi madonnina dipinta. Portava con sé solamente un borsone di morbida nappa che doveva contenere poche cose e che buttò, con noncuranza su uno dei sedili liberi.
-Vuole una mano? – Si propose la mamma.
-No, grazie. Fò da me. – Le ragazze si guardarono l’un l’altra: avevano già capito il tipo. Presero tutte posto ed il capostazione fischiò liberando la potenza della locomotiva che, sbuffando e tossendo, cominciò a tirare il suo carico. Il tempo passava lentamente ed il rumore monotono delle ruote sulle rotaie conciliava il sonno delle passeggere. Il paesaggio, man mano che si addentravano nell’entroterra cambiava i colori perdendo il rosso delle foglie d’autunno per diventare grigio come il freddo dell’inverno. Dopo un po’ si incominciarono a vedere anche macchie di neve che, con l’avvicinarsi delle montagne, diventarono sempre più estese. Il riscaldamento, dentro la carrozza, andava al massimo ma, come spesso capitava, il caldo soffio che arrivava dal radiatore sotto la finestra si scontrava con gli innumerevoli spifferi che filtravano dalle vecchie guarnizioni e col freddo che entrava dal corridoio. In definitiva quel po’ di calore non serviva quasi a niente, e la temperatura interna era solo di poco più alta di quella al di fuori.
-Brrr, ragazze incomincia a fare freddo sul serio. – Disse la scolara stringendosi nel cappotto e soffiando dentro le mani giunte per favorire la circolazione.
- Già, e incomincio anche ad avere un po’ d’appetito. Colonnella, cosa abbiamo nella sporta delle provviste?
-Certo, cara la mia mamma, che se stessi un po’ a digiuno, non ti farebbe male di certo.
-Oh bellina, io piaccio così. E poi ho fame: tira fuori, dai! – La donna, incitata dalle amiche, prese il paniere in vimini e ne cavò ogni ben di Dio posandolo sul sedile. Poi prese il cestino e lo capovolse posandolo sul pavimento. Sul fondo, rivolto verso l’alto, stese un grande tovagliolo a quadretti come fosse una tovaglia, e su questo dispose piattini e bicchieri per tre.
-Mi scusi signorina, vuol favorire con noi? – Con la massima creanza la colonnella si rivolse all’ultima entrata.
-No, grazie. Sto bene così. – Queste furono le parole che elegantemente pronunciò l’interpellata, ma contrastavano in maniera evidente con l’espressione del suo viso. Infatti sembrava che la donna, vedendo bene sciorinate sul cuscino di fronte a lei le frustine di pane, un paio di fiaschi e svariati promettenti contenitori, stesse quasi scivolando in una sorta di deliquio.
-Signorina, cosa le succede? Si sente male?
-Non vi preoccupate, è solo che sono dovuta partire in fretta. Ho assistito un amico per tutta la notte e non ho avuto il tempo di mangiare. Mi gira un pochino la testa, forse sarà un po’ di debolezza.
-Ed allora cosa sta aspettando? Non faccia sciocchi complimenti e favorisca senza perder tempo. La prego.
-Non so come ringraziarvi. Accetto volentieri il vostro cortese invito, se non disturbo. – La mamma interruppe tutti quei convenevoli e, con una cordiale risata, aprì le scatolette, tagliò il formaggio ed il salame, spezzò il pane ed, in men che non si dica, allestì un vero e proprio banchetto per tutt’e quattro. Il cibo ed il vino alzarono la pressione sanguigna provocando nelle donne vampate di calore e l’allentamento di ogni riguardo. Anche la nuova conoscente si riprese in fretta e si sciolse dal suo riserbo.
-Sto mangiando le vostre buone cose ma ancora non mi sono presentata, scusate. Mi chiamo Amelia e viaggio spesso per lavoro e per diletto.
-E’ di professione infermiera, visto che ci ha raccontato che la scorsa notte è stata al capezzale di un suo conoscente?
-Beh, diciamo che sono pagata per alleviare tante pene, e in questo senso mi definisco una via di mezzo tra una suora ed un’infermiera. Ieri notte sono stata chiamata per un servizio e devo confessare che ne sono uscita veramente stremata. – Un largo sorriso accompagnò queste parole esaltando ancora maggiormente la grazia della donna.
-Oh, veramente meritorio. – Disse la scolara, tra i gesti d’approvazione delle altre amiche. Il viaggio continuò in un crescendo di allegria favorita dal buon cibo e dall’intimità che si era venuta a creare in quel bozzolo d’acciaio che sfrecciava deciso verso la meta e che sembrava isolare le donne dal resto del mondo. La stazione di Firenze Santa Maria Novella, da poco ristrutturata, era ormai vicina e le donne incominciarono a prepararsi per scendere.
-Ragazze, a noi ci viene a prendere il tuttofare di madame Fiordaliso. Prendete tutti i bagagli e non dimenticate niente. E a te, Amelia, ti aspetta qualcuno?
-No, non esattamente. Prenderò una vettura pubblica fuori dalla stazione.
-Ci dispiace non poterti dare un passaggio, ma se tardiamo madame va su tutte le furie.
-Non vi preoccupate. Siete già state tanto gentili con me ed è stata una piacevole sorpresa incontrarvi. – Il treno si fermò tra sbuffi, fischi e stridii e le donne, piene di bagagli, ancora chiacchierando e ridendo, scesero sulla banchina.
-Ciao Amelia, è stato un piacere conoscerti. – Disse la scolara asciugandosi una lacrimuccia. Si sentiva molto triste per la separazione dalla nuova amica, ma forse dipendeva dai troppi bicchieri di vino ai quali non aveva saputo resistere.
-Anche per me ragazze. Adesso vado, ciao a tutte e chissà…forse ci rivedremo. – Amelia si incamminò svelta verso l’uscita con la solita andatura elegante che non mancò di suscitare qualche sguardo ammirato dei maschi che incrociava. Sparì alla loro vista e le ragazze si guardarono intorno per cercare l’inviato di madame.
-Eccolo laggiù, fategli cenno! – Un ragazzetto affannato si accorse di loro e si avvicinò di buon passo.
-Le signorine di madame?
-Certo, prendi le valige.
-Un momento. – Disse il garzone – Ho una lettera per voi. A chi la consegno?
-Dai qua. – Disse la colonnella strappando la busta dalle mani del giovanotto. La donna lacerò la linguetta e, mentre procedeva con la lettura, le compagne videro il suo volto assumere tutti i colori dell’arcobaleno.
-Puttana, puttana e puttana! – Esclamò una volta finito di leggere.
-Chi? – Chiesero in coro le altre due.
-Vi leggo che cosa scrive madame: “Signorine, mi dispiace comunicarvi che ho annullato la vostra quindicina. Il mio è un locale di classe, rivolto ad una clientela raffinata, ed ho preferito assumere una ragazza che, come voi, viene da Bologna ma mi dicono sia di un altro livello. Si chiama Amelia ed è rinomata per la sua finezza e per i modi aristocratici che tanto piacciono ai miei clienti. Ma non vi preoccupate, Pinuccio vi accompagnerà nella casa della signora Maria con la quale ho già parlato. Certamente è di un livello più basso e frequentata prevalentemente dal ceto operaio o da modesti impiegati, ma per voi andrà benone. Distintamente, madame Fiordaliso.” Le ragazze confermarono:
-Puttana, puttana!







giovedì 15 settembre 2016

Amélie.



Amélie.


Fa molto freddo in coda per prendere la funivia. La cima del Monte Bianco è nascosta da una cappa scura di nuvole, e sulle pendici del massiccio la neve sembra opaca senza il sole che la ravvivi. Forse non è la giornata giusta per una escursione, ma dovevo assolutamente prendermi una pausa di svago che mi distraesse da quello che ormai è diventato il mio “lavoro”. Già, lavoro tra virgolette perché ancora da molti viene considerato un vizio, un peccato, a volte un crimine, anche se, come si dice, è il mestiere più vecchio del mondo. Per me è soltanto un modo per tirare avanti, né più né meno, e presto il mio servizio come farebbe una manicure o una fisioterapista, senza più ricordare neanche uno dei miei clienti, dopo. Non do nessun giudizio morale, chi sono io per farlo, e non mi interessa quello che dicono di me. Sono come anestetizzata nei confronti delle chiacchiere, degli sguardi e dei sorrisini che mi seguono per le strade del paese. In una realtà piccola come quella in cui vivo, tutti si conoscono, tutti sanno la mia professione, ed io vengo emarginata dai buoni cittadini. Di giorno, oppure in pubblico, ma quando mi vengono a cercare, o di notte quando li sento sussurrare il mio nome come fosse la chiave per pochi attimi di felicità, allora torno a essere Amélie.

C’è parecchia gente, molti turisti attrezzati per scalare qualche tratto di parete o solamente per fermarsi sulla terrazza all’Aiguille du Midi e sentirsi piccoli in confronto alla maestosità della montagna, ma vedo anche qualche paesano. Certamente faranno finta di non conoscermi, ma va bene così: “je m’en fiche”. Proprio prima di me ci sono la moglie del farmacista, la signora Turillon e madame la marquise: tre delle più beghine fra tutte. Sono brutte di quell’acidità fatta di falso perbenismo; sanno perfettamente chi sono, ma per loro sembro trasparente. Sì, sono quello strano fantasma che i loro mariti, di nascosto, scoprono di carne ed ossa. Forse ne sono addirittura al corrente e fanno finta di non sapere, come tante martiri devote al santo matrimonio. Se mi avvicinassi e riferissi loro come mi chiamano i rispettivi consorti, tutti miei soddisfattissimi clienti, mentre li stringo o li carezzo, penso che sarebbero prese da una crisi isterica. Ma la nostra “deontologia professionale” vuole la discrezione, ed io sono una professionista, a costo di privarmi di qualche piccola soddisfazione. Siamo tutti in fila, e procediamo piano verso le cabine da quattro posti ognuna. Guarda caso io sono proprio vicina alle signore, potrei far passare qualcuno, ma voglio infastidirle con la mia presenza. Almeno per il tratto del trasporto, dovranno subire la mia vicinanza senza avere la possibilità di evitarmi. Saliamo, noi quattro, e la navicella, dondolando e sobbalzando, incomincia a staccarsi da terra. Ecco: sono un’aquila tra le rocce, e volo libera sopra le miserie del mondo e le mie pene. Non si vede il sole, ma dietro le nuvole c’è l’immenso cielo e la mia mente incomincia a vagare, spaziando dove si può perdere per unirsi con la purezza del creato.

-Hai visto chi c’è con noi? Quella!

-Si, non guardarla neanche. Non te ne curare.

-Proprio con noi doveva capitare. - Le sento, anzi credo parlino in modo che io senta. Stronze, come sempre.

-Cara, hai saputo di…

-Certo che al matrimonio di...si poteva metter qualcosa che non la facesse sembrare un paralume di trine…

-La mia domestica mi dice che ha visto…mentre entrava nel portone di…L’avreste mai creduto?

La cabina sale appresso alle altre e seguita dalle compagne, come una fila di formiche che portino un carico per la loro sopravvivenza. Ha incominciato a piovere con brevi, violenti scrosci che s’infrangono sui vetri resi opachi dal vapore e dal freddo esterno. Le brave donne continuano a ciacolare spettegolando, senza notare il paesaggio al di fuori, mentre il vento aumenta la propria violenza man mano che saliamo in quota. Il bozzolo che ci ospita adesso sembra la navicella di un Luna Park impazzito, guidata da una mano sadica che prova piacere a spaventare i passeggeri. Ma sono impianti controllatissimi, non può accaderci niente di imprevisto.

Oh mamma mia! Ci siamo bloccati. Oddio, la cabina dondola e si scuote mentre un cicalino d’allarme ha cominciato a suonare ripetutamente. La situazione comincia a farsi allarmante. Vedo un citofono per collegarsi con la stazione a valle. Lo prendo.
-Pronto? Pronto? Che succede, perché non ci muoviamo?
-Signorina, stia tranquilla. C’è un piccolo guasto che verrà riparato a breve. Non si preoccupi. – Risponde una voce all’altro capo.
-Quanti siete nella cabina e state tutti bene? Diteci i vostri nomi.
- Si, si, tutti bene. Siamo io, Amélie Dupois, e le signore Turillon, Grasset e Le Plaisir.
-Ah, ci ha riconosciute, la sgualdrina.
-Signora Turillon, l’ho sentita. Si, vi conosco e sgualdrina lo vada a dire a sua sorella!
-Scostumata!
Il tempo passa, sta scendendo la notte e anche la temperatura diventa sempre più rigida. La voce al citofono ha promesso soccorsi in breve tempo, ma gli elicotteri non possono alzarsi con le tenebre e il buio diventa sempre più fitto. Già le pareti della montagna non si vedono più e sotto di noi il terreno è scomparso. Fa freddo, mi siedo in un angolo e mi stringo addosso il giaccone. E quelle ancora parlano.
-Gesùgiuseppemaria, Siamo bloccate e chissà per quanto.
-Io non posso restare qui. Ho mille cose da fare, e poi non sono attrezzata per stare tante ore fuori casa.
-Amiche, calmatevi. E’ una situazione critica, ma verranno a prenderci o rimetteranno in moto questa dannata teleferica. Adesso la cosa importante è tenerci calde e farci coraggio. - Guarda: si sono rannicchiate insieme, come tre passerotti su un trespolo, dall’altra parte della cabina. Si abbracciano, le amiche, come se fossero sole, senza dirmi una parola. Non mi importa, per fortuna avevo intenzione di stare fuori diverse ore ed ho portato con me lo zaino con molte provviste. Ho anche un thermos con del the caldo che mi farà senz’altro comodo.
Sono passate quattro ore, le ultime notizie dicono che riprenderanno i soccorsi domani all’alba, ma non è chiaro come ci porteranno alla base. Ho sete. Prendo il contenitore, un bicchiere di carta e mi verso un po’ di the: è ancora fumante. Come mi guardano adesso le tre Pie, sentono l’odore della bevanda e forse anche del panino al salame che sbuca dalla sacca.

-Signorina, uhm, mi scusi. Vede, la nostra amica qui, si sta sentendo male ed avrebbe bisogno di bere un sorso di qualcosa. – Ah, madame Grasset adesso mi parla. La devo ignorare come hanno fatto loro fino adesso nei miei confronti? Ma no, mi fanno pena e poi…siamo tutte sulla stessa barca.

-Va bene, signore. Se volete favorire: oltre all’acqua, ho del the con lo zucchero, poi mi sono portata un paio di panini, una bella fetta di torta di mele e dei biscotti. C’è anche una bottiglia di vino, se gradite, e per finire mezza boccia di grappa.

-Oh, signorina. Lei è troppo gentile! Venite amiche, approfittiamo del cortese invito. – Ah, Ah, Ah, si sono buttate sul mio cibo come fosse l’ultima cena.

-Buono, ottimo. Non sappiamo come ringraziarla. Lei ci ha salvato in questo disgraziato frangente e, d’altro canto, in fondo siamo tutte compaesane e ci dobbiamo aiutare in certi momenti. Nevvero?

-Sissignora, siamo tutte compaesane e ci conosciamo da tempo. – L’atmosfera è cambiata totalmente. A parte la situazione oggettiva, adesso sembra di essere diventate quasi amiche. Si stanno interessando a me e vorrebbero che raccontassi loro la mia vita.

-E ci dica, con discrezione naturalmente, cosa le chiedono maggiormente gli uomini?

-Oh Marie, ma cosa dici? Non saremmo troppo audaci?

-No, sono sicura che l’esperienza della signorina sarebbe interessantissima da condividere. -Formiamo un circolo, accovacciate sul pavimento della cabina, e continuiamo a chiacchierare, mentre il vino provoca improvvisi scrosci di risa e ci fa passare il tempo.

Come Dio vuole, dopo tutta la notte e buona parte della mattina, i soccorsi sono arrivati. Hanno sbloccato qualcosa e la funivia è ripartita. Ci hanno portato a valle e finalmente siamo potute scendere, le signore per prime, naturalmente. Ci siamo scambiate un breve saluto, nella concitazione del momento, e chissà forse mi dovrò ricredere su di loro. Prima di andare a casa mi fermo al bar per un cappuccino. Eccole ancora, le mie compagne d’avventura.

-Signore Turillon, Grasset, Le Plaisir, ci ritroviamo! Beviamo insieme un ultimo caffè?

-Signorina, stia al suo posto! Il fatto che siamo state costrette insieme per qualche tempo non deve permetterle tanta confidenza.

-Brava! Che si crede, quella, di essere come noi? Ci guardano tutti!

-Giusto, signore. Andiamo che le nostre famiglie ci aspettano, al contrario di qualcun’altra.

No, non me la prendo. E’ vero: io non ho una famiglia mia, ma ho tutti gli uomini che voglio e da ognuno sono amata quando, morendo, sospirano il mio nome: “Amélie…”. Se non posso avere la simpatia delle mogli… godrò della passione dei mariti.





mercoledì 7 settembre 2016

Il Cappotto di Mille Colori


Non c’erano molti soldi nella casa della mia infanzia. Io crescevo accanto al fuoco del camino, ma fuori l’inverno mordeva la natura. Avevo un quaderno, il libro di scuola e le scarpe vecchie per uscire la mattina, ma la giacchetta che mi aveva accompagnato l’anno prima, adesso risultava corta di maniche e quasi non si abbottonava sul davanti. Mamma sapeva di questo problema e l’aveva scritto a mio padre che, dal nero di Marcinelle, le aveva risposto di aspettare Natale. Ma io non potevo andare a scuola senza coprirmi e non volevo andarci con quella giacchetta che mi faceva assomigliare ad un burattino. Allora lei prese una scatola dove aveva riposto degli stracci avanzati da vecchie coperte e tovaglie e, con pazienza, si mise a cucire. Creò dal nulla un cappotto di mille colori, ma a me non piaceva. “Provalo, figlio mio. E guarda: c’è l’azzurro del cielo, il blu del mare, il giallo del sole. E poi, vedi qui nell’angolo, il marrone che ricorda la terra che ci nutre con i suoi frutti; una manica è fatta di juta, come i sacchi di grano che ci danno il pane e l’altra è lana morbida come le coperte che ti scaldano il sonno. Dietro c’è una stoffa di un pantalone di tuo padre perché qualcosa di lui ti possa accompagnare, e sulle spalle ho cucito un vecchio mio scialle che ti possa sempre abbracciare. Lo so può sembrare vivace, ma ricorda la bellezza dell’arcobaleno e la pazzia della fantasia. Non ti farà sembrare come gli altri e, anzi, parlerà della tua voglia di distinguerti, della tua creatività e della superiorità che mostrerai nei confronti dei maligni commenti di qualche compagno che non capirà. Sarà la bandiera della tua individualità, sarà la pietra di paragone per il conformismo degli altri. Ricorda che ogni straccio è stato cucito con i punti del mio amore e che mai nessuna cifra potrà comprare quello che il tuo cappotto contiene.” Lo indossai e ne fui fiero: fui orgoglioso del cappotto di mille colori che mia madre aveva cucito solo per me.


venerdì 2 settembre 2016

Io Tocco

Urlate forte e sparate, voi poeti senza fiato,
Scrittori di sogni persi, vissuti un po’ di lato,
Rubati senza vergogna da una porta aperta,
Sull’anima di chi per poco tempo l’ha scoperta.
Ma questo cuore, di battiti stupiti, voi non avrete,
Della vostra pietà di vane parole, non cadrà nella rete.
Correrà da solo almeno fino all’ultimo rintocco
Quando, al fin della licenza, senza perdono, io tocco.

Spaventi e miserie della vita, venite pure avanti
Che i vostri inganni non fermarono né tanti né quanti
Delle mie illusioni la voglia di rincorrere nella notte
Di stelle popolata i sogni, le speranze e l’ossa rotte.
In battaglia tutti i giorni vado a denti stretti e muso duro
E degli inciampi e delle cieche curve più non mi curo.
Alle promesse della rugiada all’albeggiare, io non abbocco
E su di te vita, al fin della licenza, senza paura io tocco.

Ma quando appena sveglio, col sole all’orizzonte,
Leggero, alla mia donna un bacio poso sulla fronte
Di ogni cosa il senso ritrovo chiaramente, e tra cielo
E terra il cammino sfumato appare dietro ad un velo.
Non so se di tutte le tentazioni resistere potrò alla menzogna
Ma voglio dire che non sopporto la gente che non sogna.
E’ chiaro che del mio destino e del fato sono il balocco,
Ma, ancora una volta, al fin della licenza, io tocco. Io tocco.