Non pioveva da giorni, o forse mesi, e tutto sembrava avere
sete. La terra era screpolata e polverosa, gli alberi scuotevano nel vento i
rami dalle foglie argento e verde, ed anche i cani penzolavano la lingua come
fossero in cerca di particelle di umidità sospese nell’aria. Dovevo raggiungere
una masseria a pochi chilometri da Fasano, in aperta campagna. La macchina
presa in affitto arrancava per un tratturo dritto e bianco delimitato da due
muretti di pietre a secco che interrompevano la schiera sterminata di ulivi da
una parte e dall’altra della strada. Davanti ancora una collina e dietro una
nuvola di povere che annunciava e nascondeva il mio passaggio. Il viaggio era
stato faticoso e lasciare il lavoro in un momento che sembrava sbagliato aveva
comportato una serie di contrattempi che ero certo non sarebbero stati
ripagati. Ero stato quasi costretto a scendere in Puglia, non mi sentivo di
mancare all’ultimo saluto al solo parente rimasto nella mia terra d’origine.
Guidando pensavo al lavoro, alle mille grane lasciate e che avrebbero aspettato
il mio ritorno e, come ormai facevo quasi automaticamente, allungai una mano in
tasca a prendere la mia adorata pillola che da tempo era diventata socia nella
gestione degli affanni. Per fortuna non c’era campo ed il telefonino tornava ad
essere solo un oggetto e non il Grillo Parlante che mi richiamava costantemente
ai miei doveri. E allora, tanto valeva gustarsi la passeggiata e, per meglio
godermi il momento, spensi la radio.
*
*
Ricordavo bene la fattoria nella quale avevo trascorso tante
estati della mia infanzia fino alla morte della nonna. Dopo aveva continuato a
viverci da solo zio Guelfo e, siccome con mio padre non andavano d’accordo, da
allora non ci ero più tornato. C’era una grande aia con ai lati la conigliera
ed il pollaio, mentre al centro si ergeva solitario un contorto albero secolare.
Mi avevano detto che doveva avere più di mille anni e, con la fantasia,
immaginavo gli antichi romani, Gesù e Pecos Bill che trovavano riparo sotto le
sue fronde maestose e fatate. La casa era grande e piena di misteri; mi
sembrava un’enorme balena che, come quella di Pinocchio, inghiottiva chi le
passava vicino senza avere mai la sicurezza che potesse essere risputato fuori.
Nonna viveva in pochi ambienti: la sua camera da letto al primo piano, la
cucina ed il salone al pian terreno, e la “stanza delle cose” dove si trovava
qualsiasi oggetto di cui si avesse bisogno. Tutte le altre porte, ai lati del
corridoio di sopra o sul retro, erano sempre chiuse a chiave. Il mio amichetto
del cuore, figlio del massaro, mi aveva detto che bastava prendere una chiave a
caso di qualsiasi altro uscio che sarebbe andata bene per tutte le serrature, e
quindi il nostro passatempo preferito era scoprire ad una ad una le vecchie
stanze disabitate. Naturalmente di giorno, col sole alto e quando a portata di
voce ci fosse stato qualcuno. Mai mi sarebbe venuto in mente di tentare
l’avventura col buio o quando non mi fossi sentito sicuro. In quegli ambienti
la vita era sospesa, i mobili coperti da lenzuoli bianchi, scuri dipinti alle
pareti e un odore strano di muffa e d’animale. La luce filtrava attraverso le
fessure delle imposte con dritte lame dentro le quali danzavano milioni di
particelle di polvere, come microscopici elfi in festa su uno scivolo dal
cielo. Entravo spavaldo, raccontandomi che i fantasmi non esistevano e che un
tesoro era nascosto sotto al letto, ma non avevo mai il tempo di verificarlo
perché al primo scricchiolio del legno di un vecchio canterano, me ne scappavo
via a gambe levate. E poi le prime cacce: ai ramarri. Col fucile a piombini
andavo in cerca delle lucertole e, dopo l’avvistamento, puntavo e sparavo. Mi
sentivo fiero della mia prodezza, ma l’animaletto con le budella all’aria mi
faceva anche pena ed un po’ schifo. Rimanevo quasi stupito nel vedere come quell’esserino
un momento prima fosse in vita, e potevo vedere il cuoricino battere attraverso
la pelle delicata, e poi improvvisamente era morto. Morto definitivamente e per
mano mia: sentivo che forse non era giusto, o solo inutile. Le giornate, in
quelle torride estati, sembravano non finire mai senza avere niente da fare,
eppure il termine delle vacanze arrivava improvviso e sempre troppo presto.
*
*
Andavo piano, ed il
rumore del motore non riusciva a sopraffare il frinire delle cicale che,
insieme al vento caldo, entrava dai finestrini aperti. Forse entrò anche un
granello di polvere che mi irritò gli occhi facendo scorrere delle lacrime
impreviste. Fermai la macchina e scesi. Scavalcai il basso muretto di pietre e
calpestai, dopo tanto tempo, il terreno di zolle e sassi. Improvvisamente non
avevo più fretta, scelsi l’ulivo che mi sembrava più accogliente e mi sedetti alla
sua ombra. Non sapevo più dov’ero: mi ero perso. O forse ritrovato.
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