martedì 29 novembre 2016

Una Favola di Natale

Devo dire che ero anche un po’ contrariato. Avevo in agenda un appuntamento di lavoro nei pressi di via Veneto ed, all’ultimo momento, proprio mentre stavo entrando nel portone, mi giunse telefonata che, con mille scuse, rimandava l’incontro. Accadeva qualche giorno fa, verso metà novembre, in un pomeriggio autunnale che, come succede a volte, aveva truccato Roma con tutte le sfumature del rosso e del giallo facendola sembrare ancora più bella. Approfittando del regalo di quell’inaspettato tempo libero, decisi di fare una passeggiata a Villa Borghese. Lasciai la macchina al parcheggio ed, attraversata Porta Pinciana, entrai nel parco dalla parte della Casa del Cinema. Potrei dilungarmi nel descrivere la magia di quell’oasi di pace nel cuore della città e di come tante volte, per fretta o disattenzione, non ci rendiamo conto della fortuna di vivere a contatto con meraviglie della natura e dell’arte, ma basti dire che il cipiglio ingrugnito con il quale misi piede sulla prima aiuola, si trasformò in breve in un sorriso quasi di beatitudine. Allungando il passo mi diressi verso Piazza di Siena, mentre intorno a me il silenzio era rotto soltanto dallo scroscio delle fontane e dalle voci dei bambini che giocavano rincorrendosi. C’era pochissima gente, qualche mamma con la carrozzina e sparuti volenterosi uomini di mezz’età che, correndo e sbuffando, sembrava stessero scontando una pena che si erano inflitti da soli. I raggi del sole al tramonto bucavano le fronde dei pini disegnando arabeschi di luce in movimento, e tutto l’insieme faceva pensare di aver varcato la soglia della realtà per entrare in un mondo al di fuori del tempo.  Decisi di sedermi su una panchina per pensare un po’ ai casi della vita, ma volevo trovarne una che non fosse all’ombra. Mi guardai intorno e l’unica che mi sembrava adatta era già in parte occupata. “Guarda quello – pensai – mancano ancora svariate settimane alle Feste ed è già travestito da Babbo Natale. Deve essere la pubblicità di un negozio o per un parco giochi, anche se ritengo sia un po’ presto.” Mi sedetti accanto a lui e, per educazione, gli rivolsi un:
-Salve! – L’uomo mascherato, comodamente seduto e con le mani intrecciate sul pancione, sentendo il saluto, alzò il capo e rivolse lo sguardo verso di me. Notai subito come fosse truccato con maestria. Infatti barba e capelli, bianchissimi e lunghi, sembravano proprio i suoi, attaccati benissimo al faccione rubizzo ed acconciati con molta naturalezza. Anche le rughe sul viso avevano un aspetto genuino e, nell’insieme, sembrava proprio un vecchio normale, anche se un po’ sovrappeso e vestito di rosso. Forse aveva voglia di chiacchierare e mi rispose con un vocione profondo:
-Buona sera, signore.
-Non vorrei disturbarla – dissi io – se vuole mi sposto.
-No, non si preoccupi, non mi disturba affatto. Stavo solo prendendomi una pausa nel giro di prova che faccio sempre sul tragitto che poi percorrerò per lavoro.
-Ah, capisco: molto professionale, da parte sua. Conoscere le vie più adatte, e magari maggiormente affollate, dove portare un messaggio promozionale, mi sembra la premessa per riscuotere un buon interesse. – In realtà mi interessava pochissimo dell’attività di quel pover’uomo che immaginavo costretto a camminare per le vie del cento con un campanaccio in mano gridando ogni tanto “Ohh, Ohh, Ohh,” ed il nome del suo datore di lavoro, ma mi sentivo particolarmente rilassato e mi faceva piacere scambiare due parole. “Che strano!” Esclamerebbe chi dei miei conoscenti, mi avesse visto in quel momento. Io, per carattere, sono…diciamo riservato, qualcuno direbbe scontroso o peggio, ed attaccare bottone con gli sconosciuti non rientra certamente tra le mie abitudini ma, chissà perché, allora mi sembrò assolutamente naturale.  
-Sono talmente tanti anni che faccio la stessa attività che ormai penso di essere esperto, ma un sopralluogo in anticipo non fa mai male. – continuò il vecchio.
-Giusto. E che giro farebbe? Solo per le vie del centro della città o anche in periferia?
-No, no, la mia attività è molto più vasta. Consideri che parto dal Polo Nord e poi vado un po’ dappertutto. – “Ahh” - pensai divertito - “vuoi giocare a fare il personaggio, eh briccone? Bene, adesso voglio proprio vedere se ne sei all’altezza”. Bisogna sapere che se ci fosse una cattedra di Babbonatalogia all’Università, io ne potrei essere comodamente il professore o, quanto meno, l’assistente più preparato. Fin da bambino sono stato affascinato dalla favola del Natale e penso di sapere ogni vicenda relativa al vecchio portatore di doni ed a tutta la combriccola dei suoi aiutanti. Nella libreria della mia cameretta ci saranno stati almeno una ventina di libri, più o meno illustrati, relativi a storie, racconti e notizie inerenti la notte del 24 dicembre, con leggende e tradizioni provenienti dai più svariati paesi. Sono, quindi, un profondo conoscitore della materia e se il vecchio voleva provare a fare l’attore con credibilità, avrebbe dovuto passare il mio esame, ma ero sicuro di prenderlo in castagna.
-Polo Nord, dice eh? A proposito, non ci siamo presentati. Io mi chiamo Stefano, lei?
-Klaus, Babadimiri, Gaghant Baba, Sinterklaas, Papai Noel, Viejito Pascuero, Weinhachtsmann, Ayioc Bασiλης, Noel Baba, Saint Nick e svariati altri. Per semplicità, facciamo solo Klaus.
-Klaus, bene. Dunque, dicevamo, lei partirebbe da Helsinki con la slitta?
-Rovaniemi, per la precisione. Sempre in Finlandia, ma un piccolo villaggio sperso ai confini del Circolo Polare Artico. Si, con slitta e renne, anche se ogni anno sembra che agli animali vada sempre meno di farsi una sgroppata notturna. – “Bravo- mi dissi- hai superato il primo tranello sul nome del luogo di provenienza. Ma adesso, caro mio, viene il difficile per te”.
-Si, si certo, Rovaniemi. A proposito delle renne, dodici vero?
-Nooo, cosa dice? Già mi danno da tanto fare quelle otto, che ci mancherebbe fossero di più.
-Con, aspetti…Rudolph, quella con il naso rosso, in testa.
-Ah,ah,ah! -  Quasi mi spaventai all’improvvisa risata dell’uomo: sembrava lo scoppio di un tuono e ci fu un frullio d’ali tra i rami dei pini intorno a noi: gli uccellini che si erano fermati ad ascoltare, volarono via spaventati.
-Questa è una storia del tutto inventata. – continuò il tipo dopo essersi ripreso dal momento di ilarità – La renna col naso rosso che si accende quando di emoziona: che stupidaggine. E’ stato soltanto il personaggio di un fumetto, del tutto irrealistico! Per fortuna che le altre renne non sono permalose, nessuno si ricorda il loro nome.
-Neanche lei?
-Caro signore, sono vecchio ma ancora non del tutto rincitrullito. Dasher, Dancer, Prancer, Vixen, Comet, Cupid Donder e Blitzen si offenderebbero moltissimo se mi dimenticassi come si chiamano.
-Capisco, ma mi parli un po’ del suo lavoro. Mi sembra un chiaro esempio di mansione part-time, diciamo uno stagionale. A parte la notte del 24 dicembre, che deve essere un vero inferno per lei, negli altri 364 giorni è tutta vacanza o si trasferisce alle Maldive a fare il capo villaggio alla Valtur? – Mi rendo conto che non ero molto cortese con il mio tono da presa in giro, ma cercavo di stuzzicarlo un po’ per vedere se, innervosendolo, gli avrei fatto svelare la sua vera identità. Il vecchio capì immediatamente le mie intenzioni e mi accorsi che era tentato di rispondermi per le rime, ma decise di far finta di niente continuando la conversazione. Assumendo il tono di un maestro paziente mentre parla con lo scolaro capoccione, così rispose:
-Sarebbe come a dire che uno scalatore fatica solo il giorno che arriva in vetta, mentre è chiaro che tutto il resto del suo tempo gli serve per prepararsi a raggiungere la meta. Il mio lavoro, anche se non lo chiamerei proprio così, si svolge nella stessa maniera. Undici mesi a preparare le consegne e solo un giorno per effettuarle. La sfido a trovare qualcosa di più difficile.
-Deve avere una bella organizzazione alle spalle. Si appoggia a qualche industria o laboratorio dalle sue parti?
-Ogni cosa è artigianale, caro amico. Ho una bella squadra di elfi che sanno fare di tutto.
-E lei organizza?
-Io, come si dice oggi, sono il front man, faccio public relations, curo la mail list e mi occupo dell’advertising. Poi c’è un folletto che si chiama Alabaster Snowball che verifica la lista dei bambini buoni, Bushy Evergreen che ha inventato e gestisce la macchina che rende magici i regali e gli operai: Askasleikir, Bjugnakraekir, Faldafeykir con tanti altri. Senza dimenticare le follette Sugarplum Maria, conosciuta anche come Mary Christmas, che assiste mia moglie nel preparare i dolci e Wunorse Openslae responsabile della slitta e delle renne. Tutti indispensabili.
Ero stupefatto, quell’uomo aveva tutte le risposte e le raccontava come fossero vere. O possedeva una fantasia fuori dal comune oppure era un pazzo del tutto immedesimato nel personaggio che stava interpretando. Oppure…c’era un’altra possibilità. Ma cosa andavo a pensare? Mi stavo facendo suggestionare dall’indubbio fascino del vecchio pancione. Avevo creduto di essere tanto furbo ed invece mi aveva smontato con il candore della sincerità. Non sapevo più cosa dire e rimasi in silenzio con la mente in subbuglio. Cosa mi stava succedendo, mi ero rimbambito tutto ad un tratto o stavo vivendo un momento eccezionale? Quello stesso momento che tante volte mi ero immaginato alzandomi di notte per andare in salotto a vedere se sotto l’albero fosse comparso qualche pacchetto che non c’era la sera prima. Ricordo che controllavo se, nel piattino che avevo lasciato con un mandarino ed un bigliettino di dedica, ci fosse rimasta solo la buccia, in segno di gradimento. E di com’ero contento quando mi accorgevo che c’erano i regali e che il frutto era stato gradito. Lui doveva essere passato ed aveva ritenuto che fossi stato abbastanza buono, tanto da lasciarmi i doni; anzi “molto buono” perché c’erano tanti doni. Ma mi rimaneva sempre un piccolo rimpianto nel cuore: quello di non riuscire mai ad incontrare Babbo Natale. Forse adesso, ormai anziano e disincantato, il prodigio si era avverato.
Il sole era ormai calato, e lungo i vialetti di Villa Borghese i lampioni spandevano una fioca luce giallognola. Un velo di umidità nell’aria offuscava tutte le forme ed un ultimo viandante, avviandosi verso l’uscita, buttò lo sguardo su una panchina dove non seppe distinguere se fossero sedute due figure oppure una sola.
-Stefano, quanti anni hai?
-Tanti da non credere più alle favole, caro Klaus.
-Non si è mai troppo vecchi per credere alle favole. Se si perde il gusto di lasciarsi prendere per mano dai sogni e farsi trasportare dove la vita non ha peso ed all’orizzonte c’è la speranza, non vale la pena di vivere.
-Si, credo tu abbia ragione, caro…ti posso chiamare: Babbo Natale?
-Ah,ah,ah! Così mi piaci. Fai come vuoi, e ricorda che non sempre tutto è come appare e che il mondo è pieno di cose misteriose. C’è sempre qualcuno che pensa a te e, se apri il cuore, lo saprai riconoscere. A proposito, quei mandarini erano buonissimi. Adesso devo andare, ciao Stè!
Il vecchio vestito di rosso si alzò dalla panchina sbuffando un po’, poi scrollandosi qualche foglia dal cappello col pon pon si diresse dietro un gruppo di cespugli. Dopo poco udii degli scampanellii e dei versi strani, finché tra i vecchi pini non risuonò un allegro: “Oh, oh, oh, vai Rudolph!” e una lunga ombra nera preceduta da una luce rossa sfrecciò nel cielo, verso la luna piena. Ma come, non aveva detto che Rudolph…Vecchio burlone!




  

venerdì 18 novembre 2016

Ancora mr. Chan

“Due anni fa: una balaonda; l’anno scolso, semblava che eli diventato ebleo e non hai complato niente; quest’anno che vogliamo fale?” Il signor Chan mi sorveglia. Sarà che i negozi dei suoi compatrioti diventano sempre più numerosi e che intorno a lui è tutto un fiorire di lanterne rosse e piante di plastica ma, come le zanzare ai primi caldi, il commerciante cinese all’approssimarsi delle Feste mi sembra sempre più aggressivo. Rivendico il diritto di decidere autonomamente, in base all’umore ed alla disponibilità allo scialacquio, la mia voglia di addobbare casa con gli orpelli natalizi senza dover sentire il mellifluo richiamo velato di rimprovero quando passo dinanzi al “Paradiso del Prezzo Basso”. Trovo particolarmente fastidioso quel dialetto cantonese/testaccino che il vecchio commerciante adopera per rendersi simpatico ai clienti e mostrare, in tale maniera, il suo grado di integrazione con la realtà dell’Urbe che lo ospita. Non so da chi l’abbia imparato, ma sembra che “moltacci tua” piuttosto che “pijatela in del secchio” siano stati suggeriti al rugoso asiatico come tipiche allocuzioni approvate dall’Accademia della Crusca, mentre non credo sia esattamente così, e quindi infarcisce ogni suo discorso con tali espressioni, perlopiù in modo inappropriato. L’allestimento di lucette, festoni e alberi vari in occasione del Natale è un’attività emozionale, dettata da una varietà di componenti complessa ed articolata che, nella sommatoria dei suoi elementi, può portare a risultati tanto esaltanti quanto deprimenti. Quando mi abbandonai all’orgia di acquisti avevo i figli lontani che sarebbero tornati a ridosso delle feste e, pertanto, ogni addobbo era pensato per offrire l’immagine di un evento speciale. Il Natale scorso sentivo l’umore sotto le suole delle scarpe e già il riciclo di quanto avevo messo da parte, ed un paio di candele sparse per casa, mi sembrava sufficiente, se non addirittura ridondante. Quest’anno…devo capire. Non so se attenermi alla razionalità che imporrebbe un’austerity di stampo Merkeliano, o scapricciarmi come fa Renzi con le poste del bilancio pubblico. Sono indeciso se stanziare una piccola somma finalizzata solamente alla sostituzione dei fruttini fulminati o contribuire, con una congrua spesa, ad innalzare quello stentato zero-virgola per cento di Pil che ci dicono sarà l’incremento della nostra economia. Ovvero: lasciarmi andare ad un senile singulto di commozione al richiamo delle xmas carols, oppure spolverarmi di arido e sparagnino cinismo? Naturalmente, anche se non lo voglio ammettere, so bene come andrà a finire. Ammaliato dal primo gorgheggio di Bing Crosby che sentirò dalla radio, dopo la prima strofa di uno stagionale Bublè o chiudendo gli occhi mentre ascolterò gli Wham, le mie difese immunitarie contro lo spirito natalizio crolleranno miseramente come una diga perforata e lasceranno debordare senza freno tutti i melensi e consolatori buoni sentimenti. Sono abbastanza certo che ciò si tradurrà in una propensione alla spesa, ed è per questo motivo che, confesso e me ne vergogno, sto subdolamente approntando un cd apposito da far suonare “a loop” nei nostri negozi al fine di influenzare l’umore dei clienti rendendoli prodighi e dimentichi di ogni nefasta congiuntura. Comunque non mi farò influenzare dal signor Chan ed anzi mi riprometto di dirgli quando l’incontrerò: “Stai al tuo posto, o figlio del Celeste Impero, e bada ai tuoi commerci senza importunare il viandante”. Ma siccome temo che non colga, tradurrò in: “e nun me rompe li…” che lui, naturalmente, farà suo come perla di saggezza.





venerdì 11 novembre 2016

La Prima Volta


-Ho detto di no! Che palle, non insistere.
-Non mi ami. Se mi volessi bene lo faresti, anche subito.
-Anche no. Quando sarà il momento, lo capiremo insieme.
-Mi sono rotto di divertirmi da solo quando ho una ragazza che potrebbe starmi vicino.
-Eddai, non ho mica detto: per sempre. Solo, aspetta un po’, e vedrai che quando lo faremo sarà meraviglioso.
-Però mi prometti che io sarò il primo con cui lo farai?
-Scemo!
La prova d’amore: il mio ragazzo non finiva di assillarmi con questa richiesta ogni volta che ci vedevamo, ma c’era qualcosa che me lo impediva. Naturalmente la questione era all’ordine del giorno anche con le mie compagne di scuola.
-Hai già sedici anni, che aspetti? – Mi dicevano. – Vedrai che una volta “tolto il dente” poi diventa normale e ti piacerà tantissimo. – Uffa, sarò libera di decidere per conto mio, o no? C’era, nel mio Istituto, una suora giovane che sembrava di mentalità più aperta rispetto alle altre e con la quale spesso ci confidavamo per avere un consiglio. Non nascondo che, a volte, ci inventavamo situazioni e problemi imbarazzanti da sottoporle, perlopiù a sfondo sessuale, solo per il gusto di vedere come diventasse tutta rossa mentre cercava una risposta adeguata. Andai da lei.
-Sorella, – pregai – mi dia un suo parere. Sono abbastanza matura per, come dire, lanciarmi nel vuoto con il mio ragazzo o ancora non è ora?
-Maria Verzine Benedeta, ciò! – Rispose la religiosa di chiare origini venete, - ti g’ha da penzarse bene, putea. Una volta che te si butatta non pole retornar de drio! Non fidarte, l’omini son tutti uguali: per loro è un divertimento. Per ti, fiolina, potria esser una cosa scioccanta. Ricordate de Santa Teresa d’Avila, che te ghò dao un santino, quando incitava le putee ad una santa prudenza.
-Ma io non voglio essere santa, sorella.
-Bon, io te l’ho dito: attenta che lo stravisio te porta alla scalcagnata, e poi non venir a pianzare da mi! Scherzo, benedeta, pole venir quando la tu vol.
Confesso che più ne parlavo, maggiormente mi cresceva la voglia e l’eccitazione.  
-Ti devi solo lanciare. – Mi consigliò la mia amica del cuore. – Fai un passo e…zac ti s’accendono tutti i sensi come un flipper in tilt, l’adrenalina sale alle stelle e poi potresti rifarlo altre mille volte ancora. – Me lo diceva dall’alto della sua esperienza. C’era passata l’anno precedente e la prima cosa che aveva fatto il giorno dopo, era stato vantarsene a ricreazione con tutti. Per questo era molto popolare tra i maschi, ed io non ero sicura della sua obiettività.

Mi rivolsi anche a mio padre, con la dovuta circospezione, perché nonostante non capisse i miei problemi quasi mai, ero sicura mi volesse bene, e poi aveva l’esperienza di un vecchio oltre la cinquantina.
-Senti un po’, - attaccai velatamente – se tu dovessi fare una scelta importante e non fossi certo di fare bene o che fosse arrivato il momento giusto, come ti comporteresti?
Poverello, stava tranquillo seduto in poltrona sfogliando il giornale. Alle mie parole fece un balzo come se gli avessero acceso un petardo sotto al sedere.
-Non lo fare! – Urlò diventando tutto rosso, ai limiti dell’infarto. – Non devi farlo! Guai a te se lo fai! Se ci provi, dopo dove andrai a finire? Sei troppo piccola, è troppo presto! La mia bambina… e poi, con chi? Con quello scapocchione che è venuto a prenderti l’altra sera? Ma se è pieno di brufoli: che schifo! Ricordati che sei mia figlia e di quello che tua madre ti ha sempre insegnato.
-Cosa?
-Come, cosa? Beh, ecco...che non si fa. Non alla tua età, non con il primo che passa. Insomma: ti vieto categoricamente di farlo!
- Va bene papà. – E decisi che l’avrei fatto.
Era una bellissima giornata di primavera, marinai la scuola ed il mio ragazzo, ancora più eccitato di me, mi fece salire in macchina. Lui era più grande e con altre esperienze alle spalle. Sapevo, o meglio speravo, che sarebbe andato tutto bene e che, dopo, avrei ricordato quel giorno per il resto della mia vita.
Dopo poco giungemmo in un vasto prato d’erba bassa che si perdeva fino all’orizzonte. Scendemmo dall’auto e, tenendoci per mano, ci avviamo verso una costruzione al limitare del prato. Sopra la porta c’era un’insegna con scritto: “Campo di Volo”. Ci imbragammo e corremmo verso il piccolo aereo in attesa. Quel giorno mi lanciai per la prima volta col paracadute: a momenti morivo di paura. Sarebbe stato meglio se fossimo restati in macchina a fare l’amore.


martedì 8 novembre 2016

Flash



Avrebbe voluto urlare alla luna, ma era troppo lontana, addirittura al di là del giorno. Allora prese una manciata di sabbia da terra e fece scorrere lentamente i granelli tra le dita. Poi ne lanciò in aria il rimanente e restò a guardare come il vento disperdesse la nuvola di polvere verso il cielo. Si mise a sedere sulla panchina vuota sotto il grande, rosso acero ed inspirò forte. Stese le braccia sullo schienale e divaricò le gambe, tanto non c’era nessuno che potesse vederlo. Lasciò andare la mente, senza che alcun pensiero la occupasse, e si abbandonò al sole che tramontava dietro una collina. Sotto la suola del mocassino di vecchio cuoio, sentiva il morbido strato delle foglie cadute e le scostò piano da una parte. Si sfilò una scarpa e strusciò il piede sul terriccio, perché ne avvertiva la necessità; doveva in qualche modo unirsi con quello che lo circondava, annullarsi e confondersi con la natura di cui si sentiva il figlio rinnegato. Non c’era, in quel momento, domanda che potesse essere posta così come non esisteva risposta che lui non conoscesse già. Tutto si apriva uscendo dalla sua anima per chiudersi poi a lui d’intorno come il guscio elicoidale di una conchiglia che rende perfetta la prigione di chi l’abita. Serrò forte gli occhi e mille colori gli esplosero dietro le palpebre. Vide stelle di lontane costellazioni danzare intorno a soli che cambiavano colore mentre stormi di aironi migravano verso sud perdendosi all’orizzonte. Gli sembrò di affacciarsi oltre la vera di un pozzo, proteso verso un vuoto che lo chiamava sussurrando dolci parole, e poi si trovò lanciato su di un rettilineo che improvvisamente s’inarcava come un serpente dalle scaglie nere. Scosse un po’ la testa per scacciare quella visione e nelle orecchie gli tintinnò un concerto di mille campanelli che vide attaccati alle enormi orecchie di un elefante indiano colorato per la festa. L’uomo con il bastone l’invitava a salire sulla groppa dell’animale, ma lui non si sentiva pronto, allora quello balzò sul collo del pachiderma ed insieme corsero via. Sbuffò e cercò di strapparsi da quelle visioni, ma un coniglio bianco con gli occhi rossi lo prese per mano ricacciandolo dietro lo specchio. Una luce accecante l’obbligò a schermarsi la vista e, quando tolse la mano, si trovò ancora solo in un deserto di sabbia e dune. Cosa ci faceva così lontano dal suo mondo? E perché non c’era niente intorno a lui tranne un autobus rosso a due piani con la scritta “Nowhere” sul cartello indicatore della destinazione? Quando mise il piede sul predellino, si alzò una tempesta di vento e tutto divenne confuso in un caleidoscopio di forme e colori, come in quei tubi di cartone che tanto gli piacevano quand’era piccolo. Si era abbandonato a quel gioco, anche se non era certo di volerlo giocare, mentre il tempo si dilatava e si restringeva come il pulsare di un gigantesco ed invisibile cuore, avvertibile solo attraverso la vibrazione dei suoi battiti. Forse non avrebbe dovuto, magari era peccato, c’era la possibilità che fosse addirittura fuorilegge o contro la morale, ma erano tutte categorie della società, e lui era solo. Anzi, era unico nell’universo, come unici erano quei granelli che aveva stretto tra le dita anche se confusi tra miliardi di unità. Ma le sinapsi si dettero un tentacolo connettendosi in maniera proditoria, e l’uomo si rimise gli occhiali. Indossò nuovamente il cappello che aveva posato accanto a sé e si rinfilò le scarpe; sentiva improvvisamente freddo ed abbottonò il giaccone fin sotto al collo. Poi si alzò dalla panchina e riprese la sua strada. 


giovedì 27 ottobre 2016

Lo smalto rosso

La finestra socchiusa lasciava passare un refolo d’aria tiepida che annunciava l’estate ormai prossima. Ogni tanto uno sbuffo di vento più vivace faceva voltare le pagine di un libro aperto sul tavolo come stesse cercando la giusta citazione per descrivere un momento incantato. La luce del sole al tramonto entrava ritmata dallo sbattere pigro di una leggera tenda bianca di mussola che, seguendo i capricci della brezza, improvvisamente si impennava come una vela lasciata al lasco. Riverso sul piano della scrivania, con l’orecchio appoggiato al lucido mogano, il capo di una fanciulla sembrava porsi in ascolto dei lievi rumori, forse evocando melanconici sogni o perse melodie. I lunghi capelli biondi le coprivano il viso scendendo ondulati fin sopra le spalle e solo qualche ciocca, mossa dagli spostamenti dell’aria, scomponeva per brevi attimi l’immobilità della figura. La giovane donna era seduta su di una seggiola accostata al tavolo con il braccio sinistro allungato sullo scrittoio nel gesto di raggiungere qualcosa. L’altro, invece pendeva abbandonato di lato al corpo, ricoperto dalla manica del vestito di stoffa leggera dalla quale spuntava un polsino di bianco pizzo che faceva da corolla ai pallidi pistilli delle dita di una mano affusolata. Il pugno era dischiuso, senza forza, e del medio puntato verso il pavimento si vedeva l’unghia di un rosso scarlatto. Ma quello smalto doveva essere fresco o steso malamente perché, a brevi intervalli, una goccia ne colava per terra formando una piccola pozza. Lui si avvicinò chiamandola, per svegliarla, ma lei non si mosse. Allora si chinò posandole una mano sulla spalla, ma accanto al volto della ragazza, sotto una conchiglia che lo teneva fermo, vide un foglio piegato con scritto il suo nome. Lo aprì ed il suo viso divenne terreo come quello della donna che aveva amato. All'uomo sembrò che anche il suo sangue uscisse dal corpo, come quello di lei.

giovedì 20 ottobre 2016

Sua Maestà

-Io qui mi sento come un uccellino nella bambagia. L’ambiente mi si confà, nevvero?
-Ma papà, è tutto così grande e ci sono tante stanze, non ci perderemo?
-Caro figliolo ti faccio una domanda: tu come ti chiami?
-Nando, papà.
-Nossignore! Il tuo nome è Ferdinando ed io mi chiamo Carlo.
-Allora?
-Oh San Gennaro benedetto, uagliò, chista è casa nuostr!
-Ma siamo nella Reggia di Caserta, che c’entriamo noi con questo palazzo?
-Uagliò, stamme bene a sentì. T’aggia ditt ‘nata vota che noi siamo discendenti diretti dei Re di Napoli che costruirono questo palazzo e ci vissero per un sacc ‘e tiemp. Se non ci fosse stato quel brigante di piemontese che ci arrubbò tutto, oggi saremmo i padroni di casa.
-Eh, ma la storia…
-La storia ‘na uallera! La storia la scrivono i vincitori. Quel cafone sabaudo con quell’altro pirata di Garibaldo si sono impadroniti del Regno depredando la nostra casata e fregando tutti i napoletani e gli abitanti del sud. Prima dell’arrivo di quello sbruffone, Napoli era una città all’avanguardia in Europa. Ti potrei parlare di Capodimonte, delle seterie di San Leucio, di come fu fatta la prima teleferica ed il primo collegamento su strada ferrata. Sapevi che, dopo Parigi, Napoli fu la prima città ad adottare l’illuminazione elettrica? Senza parlare del fiorire delle Arti con il Teatro San Carlo e la scuola di opere figurative. Ti basta?
-E poi?
-E poi hanno razziato qualsiasi cosa, a cominciare dal tesoro in lingotti d’oro depositato al Banco di Napoli e trasferito nei forzieri sabaudi, per finire agli arredi di questa stessa reggia che partirono verso Torino: una scialba e fredda cittadina pedemontana.  Da quel momento è iniziato il declino del Sud dell’Italia, maledetto Cavour, i gianduiotti e il barbera.
-O’ vero?
-Sissignore, comm è ver o’ demonio.
I due, che discutevano ai piedi del monumentale scalone d’onore dell’immenso edificio, formavano una ben strana coppia agli occhi dei visitatori intorno a loro. Il più agitato, nella foga del discorso, era l’uomo, di una certa età, vestito con quell’eleganza sartoriale ed anonima che distingue il vero signore. Era l’unica persona ad indossare un cappello che ben s’intonava col paletot di cammello, un tantinello fuori stagione. Anche se il pelo del soprabito mostrava qualche chiazza diradata ed i polsini della camicia sporgevano dalle maniche lisi e sfilacciati, l’aplomb del suo portamento denotava una naturale distinzione che lo estraniava dalla calca. Il piccolo interlocutore era un bambino, di circa dieci anni, che teneva per mano il padre guardandolo incerto se prendere sul serio quei discorsi oppure considerarli come uno dei tanti sogni o delle favole che il genitore gli raccontava prima d’addormentarsi. Si stava facendo ora di chiusura e la gente cominciava ad uscire dal portone principale, ma i due non si muovevano, come fossero tenuti prigionieri dagli sguardi feroci dei leoni di marmo ai lati della scalinata.
-Papà, imm e trasì.
-Spietta nu poc. T’aggia a parlà.
-Dicite.
-Figlio mio ho pensato una cosa. Come ti dicevo, mi sembra ingiusto che io non possa vivere qui, in casa mia, con la mia famiglia, e voglio porre rimedio.
-Vuoi affittare la reggia?
-Ehhh, esàgerat! Non sarebbe possibile, ma da quando ho saputo che l’amministrazione del palazzo cerca un giardiniere, m’è venuta un’idea. Come sai, figliolo caro, qui la reggia è vastissima. Ci sono ali intere dell’edificio che non sono abitate, anzi sono quasi abbandonate all’incuria. Per non parlare dei sottotetti, ancora più vasti e misteriosi.
-Quindi?
-E allora, ecco: m’impiego come giardiniere e veniamo a vivere qui, insieme alla mamma, in un locale abbandonato.
-Steve faziando?
-Nossignore, ascolta bene. Io lavorerò tutto il giorno, poi la sera, quando i visitatori se ne vanno, noi ci ritiriamo nelle nostre stanze. In mezzo alla confusione nessuno ci noterà e, la mattina dopo, ci confonderemo con i turisti che arrivano e potremo uscire liberamente, tu per andare a scuola, io a svolgere i miei compiti e mammat per i suoi mestieri. Poi quando il museo è chiuso…la reggia tornerà nostra! Potremo passeggiare per i saloni liberamente, sederci sul trono o, se vuoi, potrai scorrazzare con la bicicletta lungo i corridoi. Così avremo risolto il problema del lavoro per me, dell’abitazione e, nello stesso tempo, vivremo come si conviene al nostro rango. Cosa ne pensi?
Il ragazzo era rimasto a bocca aperta. Gli sembrava una pazzia, ma allo stesso tempo si sentiva eccitato al pensiero di avere finalmente una camera tutta sua e poi…in quella Reggia. Ma, essendo come tutti i bambini pratico e diretto, vide subito la pecca nel progetto.
-Nun ze po’ fa.
-Oh bella, e perché mai?
-Mamma si opporrebbe. Sai bene che lei non lascerebbe l’appartamentino al Vomero e che sentirebbe la mancanza delle comari. E anche loro come farebbero senza la signora Nunziata che prepara le torte più buone del quartiere?
-Innanzi tutto, mio caro delfino…
-Ohé papà, io non sono un pesce!
-Ah, ah, ah, il delfino è l’erede del Sovrano, e tu sei mio figlio. Non siamo regnanti, ma mica perché un ingegnere è momentaneamente disoccupato non è più ingegnere e non si può fregiare del suo titolo. Siempr ingegnere iè. E poi smettiamo di chiamare la mamma “Nunziatina”, hai mai sentito una regina chiamarsi così? Da oggi ci rivolgeremo a lei come “Maria Carolina”; la sostanza non cambia, ma vuoi mettere la forma?
-Vabbuò, ma ci parli tu.
Fu una battaglia, anzi una guerra, anzi un conflitto nucleare che oppose i coniugi sull’idea del trasferimento, ma alla fine prevalse il senso pratico. La signora Nunz…, pardon, Maria Carolina aveva vissuto per lunghi anni in quaranta metri quadri, bagno e cucina compresi, e non ne poteva più. L’idea di avere spazio a sufficienza e non dover passare la maggior parte della sua vita a mettere in ordine, pena il caos, le sembrava un sogno. Inoltre non avrebbe neanche più dovuto pagare la pigione, e non era cosa da poco. Anche se non aveva velleità nobiliari, non poteva negare che partecipare alla follia del marito faceva sentire anche lei un po’ regina. Così fu deciso, e dopo che don Carlo ebbe assunto il suo impiego, con un trasloco fatto a piccoli pezzi ed in più volte, un bel giorno la famiglia prese possesso del sottotetto più ampio della Reggia di Caserta. A metri quadri era difficile da valutare, ma divise da pareti in cartongesso tirate su nottetempo, si ricavarono una bella stanza matrimoniale per la coppia, la camera di Ferdinando e gli annessi vari. Per i servizi una scala a chiocciola portava ai bagni del piano inferiore e la cucina fu comprata elettrica per allacciarsi, in maniera, diciamo, volante, con l’impianto dell’edificio.
Alla fine dei lavori il capofamiglia chiese:
-Avevo ragione?
-Avevi ragione. Ci siamo sistemati e nessuno si è accorto di nulla, viviamo decisamente meglio e risparmiando anche, adesso non ci manca niente. Maritm, sì nu babà! – Donna Maria Carolina non era prodiga di complimenti, ma quella volta le uscirono dal cuore.  
Sembrava andare tutto per il meglio, ma a Carlo mancava…la corte. Quando la sera girava per le vaste sale piene di arazzi, affreschi e specchiere dorate, si beava di tanta bellezza, ma soffriva per il troppo silenzio. I suoi passi rimbombavano e non poter condividere la sua felicità con altre persone, toglieva molto alla sua soddisfazione. Quegli ambiento erano fatti per ricevere, ballare e stare in compagnia, altrimenti non avrebbe avuto senso costruire tutto quell’apparato solo per il Sovrano. “Mi piacerebbe che anche don Mimì e la combriccola del “Circolo Ex Monarchico” vedessero come mi sono sistemato. Se loro fossero qui rivivrebbero alcuni degli antichi splendori e sono sicuro ne godrebbero con me. Conosco tanti baroni, duchi e principi ormai in disuso che si sono adattati ad una vita borghese e che farebbero follie per partecipare ad un ballo di corte. Forse dovrei…” Si sa che l’appetito vien mangiando, ed anche che la pazzia non ha limite, e quindi il Re in pectore diramò, in maniera clandestina, gli inviti. “Le Loro Altezze Reali Don Carlo e Donna Maria Carolina – dicevano – sono lieti di invitare la Signoria Vostra al Ballo di Corte che si terrà presso il Salone degli Specchi della Reggia di Caserta il giorno… L’invito è subordinato alle seguenti condizioni: 1) Si dovrà mantenere il segreto sull’evento. 2) Il Ballo avrà luogo dalle ore una di notte fino alle cinque. Gli orari sono tassativi e gli invitati dovranno essere presenti unicamente entro questo lasso di tempo. 3) Si prega di intervenire indossando abiti di gala e decorazioni nobiliari.”
Era quello che tutta la nobiltà partenopea sognava da tempo. Come un gruppo di quei carbonari che tanto avevano combattuto nei secoli precedenti, il giorno stabilito, furtivamente, una nutrita schiera di dame e cavalieri entrarono da una porticina sull’angolo nord della reggia per ritrovarsi nel salone indicato. Le ampie finestre erano state oscurate da drappi neri per non far filtrare la luce e tutti i candelieri portavano accese mille candele fornite, senza un esplicito consenso, dalla vicina Parrocchia. Un gruppo di musici era sistemato su un palchetto e quando i “padroni di casa” entrarono nella sala intonarono l’inno nazionale del Regno di Napoli composto da Giovanni Paisiello. Si commossero tutti, e per primi Carlo e Maria Carolina, ma presto superarono il momentaneo imbarazzo aprendo, con grazia e leggiadria, le danze.
Se qualcuno, passando da quelle parti, sentisse storie di fantasmi che abitano la Reggia di Caserta, adesso ne conosce l’origine, ma non lo riveli a nessuno.



lunedì 17 ottobre 2016

Il Viaggio

E finalmente decise di partire. Ci pensava da molto e mille volte l’aveva programmato nella sua mente, ma non si era mai convinto a fare il primo passo. Ma quella volta era sicuro, niente l’avrebbe fermato. Aveva sognato di andare, come nelle canzoni o nelle poesie, prendendo la strada con il sole negli occhi e senza voltarsi indietro, privo di una meta ma sicuro di trovare quello che stava cercando, senza sapere neanche cosa fosse. La vita l’aveva trattenuto, non di certo contro la sua volontà ma anzi consapevole delle scelte che stava facendo, e quella voglia di spiccare il volo l’aveva sempre rintuzzata, rinnegata e riposta tra le aspirazioni impossibili o le pazzie sulle quali scherzare. Ma un certo giorno si era incontrato nello specchio del bagno e si era fissato negli occhi, evitando di schivarsi per il quieto vivere. Si accorse che era un esercizio pericoloso: ci vuole forza per scivolare nella propria anima e coraggio per vedersi come si è, senza falsa indulgenza. Stette un certo tempo a rimirare il proprio volto, come stupito nello scorgere un estraneo che rimandava le sue stesse smorfie, poi si riscosse e prese la decisione: “Vado!” Non era una fuga e neanche un’evasione, non ce n’era motivo. Non si sentiva costretto né in trappola, ma solo non totalmente libero. Ecco la parola: “libertà”. Voleva assaporare quella sensazione di pienezza e solitudine che immaginava provassero le aquile volando sopra i picchi o i folli correndo per le colline. Non per sempre, forse neanche per molto tempo ma solo per poco, sentire l’ebbrezza di correre sul filo del pericolo, con l’incoscienza di un motociclista lanciato su un rettilineo d’asfalto che non importa dove conduca. Accese quindi il computer per programmare il percorso. Sicuramente verso nord, dove gli spazi sono sfumati da nebbie e gli estranei si ritrovano in locande fumose e vocianti sparse per le campagne sempre verdi. Al sud riteneva facesse troppo caldo ed anche la gente era troppo calorosa, mentre lui non voleva rinunciare alla propria solitudine. Sarebbe stata l’occasione per fare il punto sulla propria vita e conoscersi un po’ meglio. Avrebbe preso le distanze dalla sua esistenza e forse, da lontano, avrebbe capito qualcosa di quella strana giostra sulla quale si trovava a girare ogni giorno, o almeno così sperava. E poi, al termine di una giornata di viaggio, si sarebbe seduto sulla balaustra fuori dalla sua camera guardando il tramonto e, di fronte a nessuno, avrebbe tirato fuori tutto quello che aveva sepolto dentro di sé, ed avrebbe pianto o forse riso a crepapelle. Sarebbe andato con l’auto, senza prenotare da nessuna parte e sperava solo che il serbatoio fosse sufficientemente capiente per portarlo lontano, tanto lontano quanto desiderava andare. Doveva fare una vigliaccata, per non ripensarci, ed una domenica mattina, di buon’ora, si chiuse dietro la porta cercando di non svegliare nessuno. Accese il motore, tirò giù la capote dello spider, e partì verso la Flaminia e poi, forse, l’Emilia e poi: chissà. Infornò un cd di vecchie canzoni… ed il diavolo ci mise la coda. Le maledette note portarono i ricordi, le immagini, le sensazioni e la nostalgia, ed i chilometri percorsi sembravano petali di un margherita che man mano, cadendo, toglievano tutto il fascino ed il profumo al fiore dell’illusione. Si chiese il perché e se fosse giusto, o se ne valesse la pena, specialmente quella che forse avrebbe provocato in chi gli voleva bene. Sorrise di se stesso, ed a Orte fece l’inversione di marcia. A casa dormivano ancora tutti, ed anche lui si rimise a letto riprendendo a sognare quel sogno che rimase meraviglioso perché non vissuto.   

giovedì 13 ottobre 2016

Firenze

Firenze, un anno fa, Santa Maria Novella: cammino e guardo in terra. Ammiro le lastre della pavimentazione e mi fermo a leggere una targa inserita nel marciapiede con scritti sopra alcuni versi di un poeta. Poi alzo lo sguardo stringendo gli occhi per riparami dalla luce del sole. E’ una giornata autunnale splendida, brillante e tersa che sembra voler competere con le più belle e dolci della precedente primavera. Vedo la facciata della Chiesa che fa da proscenio ad una piazza dove la vita mette in scena storie di nessuna importanza a confronto con l’eternità evocata dalle sue pietre e, di quinta, un’antica loggia risuonante dei passi di turisti inconsapevoli e frastornati. La magnificenza del cielo, la sontuosità dei monumenti ed un venticello fresco che, leggero, trascina via le voci ed i rumori sfumando tutto in un’atmosfera onirica e surreale, mi ammaliano sollevando i miei pensieri verso una sensazione di pace e di serenità. Provo una piccola ebbrezza, un’ubriacatura momentanea e illusoria di felicità. Cancello il presente e dimentico il passato, vivo nel godimento di un flash d’inconsapevolezza. E poi me ne vergogno. Provo un senso di colpa per questa vacanza rubata, ma io non sono in vacanza. Ho accompagnato una parte di me, dolente e coraggiosa, ad affrontare un percorso di lotta. Proprio ora, mentre la natura sembra in festa, è in corso una battaglia contro un destino che non voglio riconoscere e che contrasteremo con tutte le nostre forze, ma con sofferenza e timore. Come posso, seppure involontariamente, estraniarmi anche solo per un minuto? E’ come quando ci si tuffa in acque gelide e profonde: per un attimo si trattiene il respiro e ci si lascia andare, storditi in un blu senza punti di riferimento, per poi cominciare a battere bracciate con tutto il vigore possibile, al fine di sopravvivere. Oppure come quando arriva un carico troppo forte di elettricità al contatore: provoca un lampo, un corto circuito che stacca la corrente e salva dal rimanere fulminati. Così adesso; nella speranza che questi momenti, fugaci e liberatori, siano lo spiraglio dal quale intravedere la possibilità di una vita diversa, o semplicemente di tornare alla vita. E, come in una preghiera, così sia.
A Dio piacendo, così è stato.


sabato 8 ottobre 2016

Vita d'artista

-Ascolta cosa è scritto sulla Wiener Zeitung di oggi: “Di questi tempi nessuno ha voglia di calpestare il lucido parquet delle sale da ballo con uno stato d’animo leggero e gioioso, ma tutti vivono nella speranza di un futuro migliore.” –Johann Strauss sembrava furente mentre con una mano sventolava la gazzetta sotto al naso del fratello Josef.
-Non è possibile che Vienna, la capitale dell’Impero, sia ridotta come una cittadina di provincia, depressa e avvilita.
-Ma caro fratello, è più che comprensibile. – Josef era il minore dei due, ma il suo carattere riflessivo e pacato lo portava di frequente a placare le intemperanze del primogenito, spesso oscillante tra improvvisi scoppi d’ira e languidi abbandoni. –Solo pochi mesi fa la nostra armata è stata sbaragliata a Königgrätz con migliaia fra morti dispersi e prigionieri. Senza contare l’umiliazione che il maledetto imperatore di Prussia Guglielmo è riuscito ad infliggere ai nostri comandanti. Come puoi pensare che il prossimo carnevale venga festeggiato con l’allegria di sempre? – Si era nei primi mesi del 1867 e le abbondanti nevicate avevano chiuso la città in una morsa di gelo e di tristezza. I reduci tornavano dal fronte, ma la situazione politica era ancora incerta dopo la sconfitta.
-Sì, certo, mi rendo conto, ma mi piange il cuore nel vedere la nostra brava gente che quasi non sorride più. Girando per le vie non si parla d’altro che di miserie, ed il pessimismo sembra essersi impadronito di ogni anima. Figurati che hanno anche annullato tutti i balli in programma e qualsiasi festeggiamento fino a nuovo ordine.
-Lo posso facilmente capire. Anche il nostro re Ferdinando si rende ben conto della situazione e pare che abbia fatto pervenire alla Corporazione delle Arti un messaggio per incitare gli iscritti ad adoperarsi per risollevare l’umore della popolazione.
-Vedi? Dobbiamo fare la nostra parte! – Johann scaraventò il giornale sul pavimento e, come in preda ad un raptus creativo, cominciò a percorrere avanti ed indietro la stanza con lunghi passi. In realtà le falcate non potevano essere più di quattro o cinque, in un senso e nell’altro, ma l’uomo non sembrava avvedersi delle mura e continuava la sua cavalcata come se fosse in uno spazio aperto.
-Calmati, - lo esortò Josef –  è rimasto in programma il Ballo “Hesperus” che si dovrebbe tenere alla Dianabad-Saal il diciotto febbraio prossimo. Quella potrebbe essere l’occasione per presentarci con una nuova composizione, nello spirito di quanto indicato dall’Imperatore.
-Ottimo. Al lavoro, dunque! – I fratelli Strauss erano tra i musicisti più rinomati, ed ogni loro creazione veniva accolta con entusiasmo sia negli ambienti della nobiltà che tra il popolino. Bastavano poche esecuzioni per ritrovare sulla bocca dei viennesi le strofe ed i ritornelli di ogni melodia suonata solo poco tempo prima. In particolare i valzer di Johann sembravano contagiare, come una rapida febbre, sia le grandi orchestre sinfoniche che le bande di provincia, spargendo un po’ di quella gioia di vivere per la quale andava famosa l’Austria Felix di metà ottocento. Il genio degli Strauss, sollecitato dalla particolarità del momento, non tardò a partorire due capolavori che poi resteranno come emblema di quel periodo storico. Il quindici febbraio 1867 fu eseguito per la prima volta “An der schönen blauen Donau” (il bel Danubio blu) e tre giorni dopo, in occasione dell’Hesperus, lo stesso Johann Strauss diresse il valzer “Künstlerleben” (vita d’artista) con un successo travolgente.
Dio creò il tuono per spaventare gli uomini, ma donò la musica per consolarli.


lunedì 26 settembre 2016

Alan.

“L’amore non è un sentimento, è una capacità. E’ la capacità di aprire il cuore ed accogliere l’amore.”
-Hai capito come ha risposto alla lettera di quella disperata? – Chiara era letteralmente rapita dalla bellezza di un concetto che sembrava spiegarle quello che lei stessa si era domandata innumerevoli volte: cos’è l’amore? E voleva rendere partecipe del suo entusiasmo l’amica del cuore, che però sembrava non capire.
-Dai, sono frasi da bigliettino nei cioccolatini.
-Povera stupida. Allora, guarda: tiro fuori qualche rivista e leggiamo insieme, poi mi dirai. – Senza indugi la ragazza si diresse verso uno scaffale della sua libreria dove, ordinatamente in fila, erano disposti tutti i numeri del settimanale che, nell’ultima pagina, riportava la rubrica: “La posta di Alan.” Questo Alan era un personaggio misterioso, sicuramente un uomo, che rispondeva ai quesiti posti dai lettori, per la stragrande maggioranza di sesso femminile. Doveva trattarsi di una persona con una vasta esperienza principalmente in campo sentimentale, ma anche in tanti altri settori che andavano dai viaggi alla cucina fino, addirittura, alla moda. Per tutti gli argomenti aveva un consiglio o un suggerimento a volte banali, spesso ispirati ed, eccezionalmente, addirittura profondi. Veniva seguito da un numero di followers stupefacente, con grande soddisfazione dell’editore che contava sul richiamo dei suoi articoli per fidelizzare le lettrici.
-Leggi: ad una ragazza che non sa se uccidere i genitori o scappare di casa, risponde: “Cara, il destino che ci spetta percorre il sentiero lastricato dalle nostre azioni. Se porrai intralci di negatività sui tuoi passi, prima o poi inciamperai, e le lacrime versate per la sofferenza della caduta non laveranno il rimorso delle cose non fatte.”
-E cosa significa? – Chiese Francesca, l’amica cinica.
-Oggesù, fai venire il latte alle ginocchia. E’ chiaro: le dice di comportarsi bene, rispettare i genitori ed allontanarsi da casa solo con il loro consenso e quando avrà un lavoro.
-Dici?
-Uffa. Ne prendo un’altra a caso: “Caro Alan, il mio ragazzo mi tradisce con la mia migliore amica. Cosa devo fare: rendergli la pariglia o far finta di niente? Sheila 98” E senti la risposta: “Adorata Sheila 98, prendi in mano il tuo cuore e pesalo. Se lo troverai troppo ponderoso per le tue braccia, lascialo andare. In un primo momento ti sembrerà di aver perso una parte di te, ma poi ti tornerà tutto l’amore che meriti. L’altra è solo una paglia nel vento.”
-Cioè?
-Di coccio, sei di coccio! Detto terra, terra: molla il porco e manda a quel paese la puttanella. Sono chicche di saggezza in forma di poesia. Ma aspetta, guarda come risponde anche ai quesiti sul sesso. – Clara scelse un’altra rivista dove c’era quello che cercava e lesse: - “Caro Alan, durante i rapporti spesso mi distraggo perché non provo niente. Cosa mi consigli? Insoddisfatta 2000” La risposta: “Cara Insoddisfatta, di nome e di fatto, le perle non sono destinate ai porci e le ali per Icaro furono un’illusione. Noi siamo fatti di materia vivente ed il fuoco si accende quando sulla scintilla soffia un alito di desiderio. Ricorda che un desco male imbandito è il segno di un oste inesperto e non di un cliente pretenzioso.” Geniale!
-Traduzione?
-Non sei tu il pesce lesso, ma è il tuo ragazzo che non vale una cicca. Chiaro?
-Sarà,- disse la scettica Francesca – ma vorrei vederlo questo bel tipo. Sto’ Alan che pontifica tanto, ma chi si crede di essere? Forse avrà avuto anche qualche esperienza, ma certamente non ha tutte le risposte in tasca. Mi piacerebbe tanto conoscerlo, incontrarlo per capire chi si nasconde dietro quelle parole.
-Verooo? Esatto! – Chiara si felicitò nel sentire pronunciare quelle parole che corrispondevano a quello che lei pensava da qualche tempo. – Io pure! Anch’io voglio conoscerlo. Ho deciso di andare alla redazione del giornale e chiedere di lui.
-Potrebbe essere una delusione.
-Sei sempre negativa…Io so esattamente chi aspettarmi. Ho letto tante delle sue risposte che mi sono fatta un quadro preciso sia della sua personalità che del suo aspetto fisico.
-E come ci sei riuscita, è stata pubblicata una fotografia di questo Alan?
-Non esattamente, perché deve mantenere l’anonimato, ma è un esperto di arti marziali e di vela, quindi deve avere un corpo atletico e abbronzato. Età dai trentotto ai quarantatré.
-Questa è bella. Come fai ad essere tanto precisa?
-Ho incrociato i dati delle sue canzoni preferite, della prima volta che è andato allo stadio, del film che ha più influenzato la sua giovinezza e di quando ha raccontato del suo esame di maturità, ed il risultato è inequivocabile.
-Miss Marple ti fa una pippa!
-Scherza pure, ma sono sicura. Abbastanza, sicura. Anzi, ti dirò di più: deve essere biondo e con gli occhi chiari perché una volta ha detto che la luce forte gli dà fastidio.
-Vabbè, allora è deciso: andiamo a incontrare questo Alan. Bello come il sole e poetico come Romeo.
Gli stati d’animo erano del tutto diversi mentre le due ragazze si recavano presso la redazione della rivista. Chiara era praticamente innamorata; di un ideale forse, ma cotta come una ragazzina per la pop star del momento. Francesca, sebbene di qualche mese più giovane, sembrava invece sua madre. Riprendeva l’amica e cercava di distoglierla da quell’infatuazione letteraria, che faceva tanto signorina dell’ottocento, ma ogni sua obiezione veniva rimandata al mittente con fastidio e cieca fede nell’esistenza di un archetipo d’amore.
-Scusi, permette? – Il vigilantes/portiere seduto dietro la scrivania all’entrata del palazzo del giornale sembrava stesse esaminando la relazione trimestrale della Consob, tanta era la sua attenzione sui fogli che teneva in mano, mentre si trattava solo dell’ultima Settimana Enigmistica. Con l’aria di sufficienza giustificata dalle mostrine sulle spalline e dal distintivo sul bavero dell’uniforme, l’uomo alzò lo sguardo su quelle ragazzette venute ad importunarlo accogliendole con un classico:
-Dica?
-Vorremmo parlare con il dottor Alan. – Il guardiano non era sorpreso dalla richiesta. Quelle due erano solo le ultime di una schiera di sciacquette, come lui le chiamava, che regolarmente si presentavano per lo stesso motivo. La risposta era la solita:
-N’è possibile.
-Perché, non è in sede?
-Per esserci, c’è, ma non posso fa passà nisuno.
-Non può avvisare che vorremmo parlargli?
-Noneee! Come ve l’ho da dì? Gli ordini sò chiari: nun se po’! – Le ragazze si scambiarono un’occhiata pensando la stessa cosa, e Chiara si fece coraggio prendendo l’iniziativa. Posò sul bancone la mano dalla quale spuntava l’angolo di una banconota da 20 euro:
-Ameno ci dica a che ora esce.
-Vabbè. – come la lingua di un rospo che raggiunge una mosca, la mano dell’uomo ghermì in un lampo la cartamoneta.
-Questo è facile: se ne và tutte le sere alle dieciotto (sic) e trenta, con il primo turno dei giornalisti. Se ve mettete a sede su ‘na panghina ar giardinetto de fronte, e c’avete pazzienza, lo vedrete passà.
-Grazie, gentilissimo. – La sottintesa ironia di queste parole fu totalmente sprecata. Mancava solo un’oretta e le amiche seguirono il consiglio del cerbero scegliendo una panchina da dove potessero vedere chiaramente l’ingresso dell’edificio. Alle sei e mezza cominciarono ad uscire dei gruppetti di persone e qualche solitario dipendente.
-Occhio! Non sarà difficile individuarlo, guarda bene. – Chiara fremeva, eccitata in vista del tanto atteso incontro. La piccola fiumana di gente si esaurì in breve, ma nessuno degli uomini che, alla spicciolata, si stava allontanando corrispondeva alla descrizione di quello desiderato.
-Corriamo: andiamo dal portiere e chiediamogli di indicarci Alan.
-Scusi, ma qual è Alan tra tutti quelli?
-Ahhh, ancora? Quello laggiù col cappotto grigio e il cappello nero.
-Ma chi, quello bassetto con una borsa sotto al braccio?
-Eggià!
Francesca lanciò un’occhiataccia all’amica con un sorrisetto misto di compatimento e ironia, come a dire: “Te l’avevo detto!”. Poi si presero sottobraccio e si allontanarono verso la metro per tornare a casa.
L’ometto, da lontano, l’aveva notate ed aveva capito. Gli era successo altre volte di vedere lo sguardo di delusione quando qualche sua lettrice realizzava che lui era il famoso Alan. Ma non gl’importava, si era creato un mondo estraneo alla sua realtà che l’aiutava a vivere un’esistenza solitaria e priva di altre soddisfazioni. Non gli pesava tornare a casa e chiudersi nel suo studio in compagnia solamente di un vecchio cane e del computer. Attraverso il pc e le domande delle lettrici della rivista, riusciva ad uscire dal suo corpo gracile e malandato trasformandosi in Alan, il poeta viveur, affascinante e misterioso. “Quando il bozzolo diventa troppo stretto, la farfalla lo rompe distendendo le ali per volare nel cielo.” L’uomo si appuntò la frase che avrebbe usato in una prossima risposta e si allontanò nel calare della sera.



    

sabato 17 settembre 2016

Amelia.

Le ragazze facevano parte della seconda quindicina di quel mese. Erano tre e si stavano trasferendo dalla casa di madame Rita, a Bologna, in quella molto più grande e rinomata di madame Fiordaliso a Firenze. Il viaggio, nella seconda classe di un treno regionale, non si presentava lungo né particolarmente disagevole. Anzi, siccome le giovani donne si erano ritrovate già altre volte a lavorare nello stesso locale, le quasi due ore di tragitto erano cominciate in maniera scanzonata e divertente, come una gita scolastica per alunne un po’ fuori corso. Avevano preso uno scompartimento in una della carrozze di testa del treno, quella più vicina alla prima classe, e si erano accomodate sistemando i loro bagagli sulla retina sopra i sedili. I posti a sedere nella cabina erano sei, ma ancora poco prima di partire, non era salito nessun altro oltre a loro tre.
-Speriamo di restare sole, così saremo libere di parlare come vogliamo. – Disse quella dai capelli rossi. La chiamavano “la colonnella” perché, come spesso è associato alla capigliatura fulva, aveva un carattere deciso e volitivo e non disdegnava di usare il frustino durante gli incontri riservati.
Mo’ ben! – Le rispose una delle compagne che ancora si stava affannando per riporre un valigione che sembrava pesantissimo. Il bagaglio era sproporzionato in confronto alla donna che sembrava quasi una bambina paffutella. Il nome di battaglia era: “la scolara” perché sfruttava la sua apparenza per vestirsi spesso da allieva delle suore, con tanto di grembiulino e fiocco al collo. I clienti sembravano apprezzare molto la combinazione della divisa scolastica con la biancheria intima audace, e lei era sempre richiestissima.
-Io mi siedo accanto al finestrino! – Intervenne l’altra compagna che sembrava uscita da un quadro di Renoir. Bella rubizza ed in carne, alta e generosa di seno, sembrava il ritratto della salute. Faceva pensare ai campi di grano al latte caldo ed alla sana vita contadina. Era rassicurante e materna e, specialmente gli uomini piccoli ed insicuri, adoravano perdersi tra le sue braccia forti e morbide come quelle materne. Ovviamente, quando veniva scelta, rispondeva al soprannome de “la mamma”.
Generalmente non c’erano problemi lungo il percorso del treno, ma lo scavalcamento degli Appennini presentava sempre delle incognite, specialmente d’inverno. Non era infrequente che la neve bloccasse gli scambi o che i binari fossero ostruiti da qualche slavina o da ostacoli portati dal maltempo. In quei casi si rimaneva bloccati, a volte per delle ore, fintanto che la natura non avesse finito di sfogarsi o i responsabili delle ferrovie avessero trovato un rimedio. Ma una cosa era certa: in ogni stagione e con qualsiasi tempo, la locomotiva sarebbe partita in perfetto orario, su questo il regime non transigeva.
-Dai, dai che mancano cinque minuti e nessun’altro è venuto nel nostro scompartimento. – disse la colonnella, con la speranza di poter restare tra di loro amiche.
-Mi dispiace deluderti cara, ma sembra proprio che quella signorina che è passata adesso nel corridoio stia cercando il suo posto. Ci scommetto che sta con noi. E poi, guarda il cartellino di prenotazione sopra la poltrona, qualcuno deve venire certamente. – La mamma non aveva torto poiché la giovane donna, che prima era transitata gettando uno sguardo un po’ smarrito all’interno del loro scompartimento, adesso si era affacciata e faceva capoccella dalla porta a vetri.
-E’ permesso? – disse la nuova venuta – Non per disturbare, ma credo di avere quel posto.
-Mo venga pure avanti, cara. La si accomodi pure, va là! Senza complimenti, che c’entriamo, bel belle, tutte quante. Vero signorine?
-Certamente. - Rispose a nome delle altre la scolara. –Ha comprato il biglietto ed il sedile è suo. – Le amiche fecero buon viso alla nuova venuta, anche se adesso il viaggio sarebbe stato meno divertente dovendo ognuna tenere per sé i vari racconti aneddoti e pettegolezzi piccanti legati alla loro comune attività. La nuova venuta era una giovine distinta, alta, forse un po’ androgina, con un cappotto di panno nero bordato, al collo ed ai polsi, da una folta pelliccia in tinta. La sua agiatezza era evidenziata anche dalla bella borsa intonata alla scarpe che sembravano nuove e lucidissime. Il tutto era completato da un cappellino che certo non serviva a riparare dal freddo, ma solo come complemento alla “mise”. La silhouette magra e slanciata mostrava tratti d’eleganza ed il viso, d’un ovale perfetto, sarebbe stato bene a qualsiasi madonnina dipinta. Portava con sé solamente un borsone di morbida nappa che doveva contenere poche cose e che buttò, con noncuranza su uno dei sedili liberi.
-Vuole una mano? – Si propose la mamma.
-No, grazie. Fò da me. – Le ragazze si guardarono l’un l’altra: avevano già capito il tipo. Presero tutte posto ed il capostazione fischiò liberando la potenza della locomotiva che, sbuffando e tossendo, cominciò a tirare il suo carico. Il tempo passava lentamente ed il rumore monotono delle ruote sulle rotaie conciliava il sonno delle passeggere. Il paesaggio, man mano che si addentravano nell’entroterra cambiava i colori perdendo il rosso delle foglie d’autunno per diventare grigio come il freddo dell’inverno. Dopo un po’ si incominciarono a vedere anche macchie di neve che, con l’avvicinarsi delle montagne, diventarono sempre più estese. Il riscaldamento, dentro la carrozza, andava al massimo ma, come spesso capitava, il caldo soffio che arrivava dal radiatore sotto la finestra si scontrava con gli innumerevoli spifferi che filtravano dalle vecchie guarnizioni e col freddo che entrava dal corridoio. In definitiva quel po’ di calore non serviva quasi a niente, e la temperatura interna era solo di poco più alta di quella al di fuori.
-Brrr, ragazze incomincia a fare freddo sul serio. – Disse la scolara stringendosi nel cappotto e soffiando dentro le mani giunte per favorire la circolazione.
- Già, e incomincio anche ad avere un po’ d’appetito. Colonnella, cosa abbiamo nella sporta delle provviste?
-Certo, cara la mia mamma, che se stessi un po’ a digiuno, non ti farebbe male di certo.
-Oh bellina, io piaccio così. E poi ho fame: tira fuori, dai! – La donna, incitata dalle amiche, prese il paniere in vimini e ne cavò ogni ben di Dio posandolo sul sedile. Poi prese il cestino e lo capovolse posandolo sul pavimento. Sul fondo, rivolto verso l’alto, stese un grande tovagliolo a quadretti come fosse una tovaglia, e su questo dispose piattini e bicchieri per tre.
-Mi scusi signorina, vuol favorire con noi? – Con la massima creanza la colonnella si rivolse all’ultima entrata.
-No, grazie. Sto bene così. – Queste furono le parole che elegantemente pronunciò l’interpellata, ma contrastavano in maniera evidente con l’espressione del suo viso. Infatti sembrava che la donna, vedendo bene sciorinate sul cuscino di fronte a lei le frustine di pane, un paio di fiaschi e svariati promettenti contenitori, stesse quasi scivolando in una sorta di deliquio.
-Signorina, cosa le succede? Si sente male?
-Non vi preoccupate, è solo che sono dovuta partire in fretta. Ho assistito un amico per tutta la notte e non ho avuto il tempo di mangiare. Mi gira un pochino la testa, forse sarà un po’ di debolezza.
-Ed allora cosa sta aspettando? Non faccia sciocchi complimenti e favorisca senza perder tempo. La prego.
-Non so come ringraziarvi. Accetto volentieri il vostro cortese invito, se non disturbo. – La mamma interruppe tutti quei convenevoli e, con una cordiale risata, aprì le scatolette, tagliò il formaggio ed il salame, spezzò il pane ed, in men che non si dica, allestì un vero e proprio banchetto per tutt’e quattro. Il cibo ed il vino alzarono la pressione sanguigna provocando nelle donne vampate di calore e l’allentamento di ogni riguardo. Anche la nuova conoscente si riprese in fretta e si sciolse dal suo riserbo.
-Sto mangiando le vostre buone cose ma ancora non mi sono presentata, scusate. Mi chiamo Amelia e viaggio spesso per lavoro e per diletto.
-E’ di professione infermiera, visto che ci ha raccontato che la scorsa notte è stata al capezzale di un suo conoscente?
-Beh, diciamo che sono pagata per alleviare tante pene, e in questo senso mi definisco una via di mezzo tra una suora ed un’infermiera. Ieri notte sono stata chiamata per un servizio e devo confessare che ne sono uscita veramente stremata. – Un largo sorriso accompagnò queste parole esaltando ancora maggiormente la grazia della donna.
-Oh, veramente meritorio. – Disse la scolara, tra i gesti d’approvazione delle altre amiche. Il viaggio continuò in un crescendo di allegria favorita dal buon cibo e dall’intimità che si era venuta a creare in quel bozzolo d’acciaio che sfrecciava deciso verso la meta e che sembrava isolare le donne dal resto del mondo. La stazione di Firenze Santa Maria Novella, da poco ristrutturata, era ormai vicina e le donne incominciarono a prepararsi per scendere.
-Ragazze, a noi ci viene a prendere il tuttofare di madame Fiordaliso. Prendete tutti i bagagli e non dimenticate niente. E a te, Amelia, ti aspetta qualcuno?
-No, non esattamente. Prenderò una vettura pubblica fuori dalla stazione.
-Ci dispiace non poterti dare un passaggio, ma se tardiamo madame va su tutte le furie.
-Non vi preoccupate. Siete già state tanto gentili con me ed è stata una piacevole sorpresa incontrarvi. – Il treno si fermò tra sbuffi, fischi e stridii e le donne, piene di bagagli, ancora chiacchierando e ridendo, scesero sulla banchina.
-Ciao Amelia, è stato un piacere conoscerti. – Disse la scolara asciugandosi una lacrimuccia. Si sentiva molto triste per la separazione dalla nuova amica, ma forse dipendeva dai troppi bicchieri di vino ai quali non aveva saputo resistere.
-Anche per me ragazze. Adesso vado, ciao a tutte e chissà…forse ci rivedremo. – Amelia si incamminò svelta verso l’uscita con la solita andatura elegante che non mancò di suscitare qualche sguardo ammirato dei maschi che incrociava. Sparì alla loro vista e le ragazze si guardarono intorno per cercare l’inviato di madame.
-Eccolo laggiù, fategli cenno! – Un ragazzetto affannato si accorse di loro e si avvicinò di buon passo.
-Le signorine di madame?
-Certo, prendi le valige.
-Un momento. – Disse il garzone – Ho una lettera per voi. A chi la consegno?
-Dai qua. – Disse la colonnella strappando la busta dalle mani del giovanotto. La donna lacerò la linguetta e, mentre procedeva con la lettura, le compagne videro il suo volto assumere tutti i colori dell’arcobaleno.
-Puttana, puttana e puttana! – Esclamò una volta finito di leggere.
-Chi? – Chiesero in coro le altre due.
-Vi leggo che cosa scrive madame: “Signorine, mi dispiace comunicarvi che ho annullato la vostra quindicina. Il mio è un locale di classe, rivolto ad una clientela raffinata, ed ho preferito assumere una ragazza che, come voi, viene da Bologna ma mi dicono sia di un altro livello. Si chiama Amelia ed è rinomata per la sua finezza e per i modi aristocratici che tanto piacciono ai miei clienti. Ma non vi preoccupate, Pinuccio vi accompagnerà nella casa della signora Maria con la quale ho già parlato. Certamente è di un livello più basso e frequentata prevalentemente dal ceto operaio o da modesti impiegati, ma per voi andrà benone. Distintamente, madame Fiordaliso.” Le ragazze confermarono:
-Puttana, puttana!







giovedì 15 settembre 2016

Amélie.



Amélie.


Fa molto freddo in coda per prendere la funivia. La cima del Monte Bianco è nascosta da una cappa scura di nuvole, e sulle pendici del massiccio la neve sembra opaca senza il sole che la ravvivi. Forse non è la giornata giusta per una escursione, ma dovevo assolutamente prendermi una pausa di svago che mi distraesse da quello che ormai è diventato il mio “lavoro”. Già, lavoro tra virgolette perché ancora da molti viene considerato un vizio, un peccato, a volte un crimine, anche se, come si dice, è il mestiere più vecchio del mondo. Per me è soltanto un modo per tirare avanti, né più né meno, e presto il mio servizio come farebbe una manicure o una fisioterapista, senza più ricordare neanche uno dei miei clienti, dopo. Non do nessun giudizio morale, chi sono io per farlo, e non mi interessa quello che dicono di me. Sono come anestetizzata nei confronti delle chiacchiere, degli sguardi e dei sorrisini che mi seguono per le strade del paese. In una realtà piccola come quella in cui vivo, tutti si conoscono, tutti sanno la mia professione, ed io vengo emarginata dai buoni cittadini. Di giorno, oppure in pubblico, ma quando mi vengono a cercare, o di notte quando li sento sussurrare il mio nome come fosse la chiave per pochi attimi di felicità, allora torno a essere Amélie.

C’è parecchia gente, molti turisti attrezzati per scalare qualche tratto di parete o solamente per fermarsi sulla terrazza all’Aiguille du Midi e sentirsi piccoli in confronto alla maestosità della montagna, ma vedo anche qualche paesano. Certamente faranno finta di non conoscermi, ma va bene così: “je m’en fiche”. Proprio prima di me ci sono la moglie del farmacista, la signora Turillon e madame la marquise: tre delle più beghine fra tutte. Sono brutte di quell’acidità fatta di falso perbenismo; sanno perfettamente chi sono, ma per loro sembro trasparente. Sì, sono quello strano fantasma che i loro mariti, di nascosto, scoprono di carne ed ossa. Forse ne sono addirittura al corrente e fanno finta di non sapere, come tante martiri devote al santo matrimonio. Se mi avvicinassi e riferissi loro come mi chiamano i rispettivi consorti, tutti miei soddisfattissimi clienti, mentre li stringo o li carezzo, penso che sarebbero prese da una crisi isterica. Ma la nostra “deontologia professionale” vuole la discrezione, ed io sono una professionista, a costo di privarmi di qualche piccola soddisfazione. Siamo tutti in fila, e procediamo piano verso le cabine da quattro posti ognuna. Guarda caso io sono proprio vicina alle signore, potrei far passare qualcuno, ma voglio infastidirle con la mia presenza. Almeno per il tratto del trasporto, dovranno subire la mia vicinanza senza avere la possibilità di evitarmi. Saliamo, noi quattro, e la navicella, dondolando e sobbalzando, incomincia a staccarsi da terra. Ecco: sono un’aquila tra le rocce, e volo libera sopra le miserie del mondo e le mie pene. Non si vede il sole, ma dietro le nuvole c’è l’immenso cielo e la mia mente incomincia a vagare, spaziando dove si può perdere per unirsi con la purezza del creato.

-Hai visto chi c’è con noi? Quella!

-Si, non guardarla neanche. Non te ne curare.

-Proprio con noi doveva capitare. - Le sento, anzi credo parlino in modo che io senta. Stronze, come sempre.

-Cara, hai saputo di…

-Certo che al matrimonio di...si poteva metter qualcosa che non la facesse sembrare un paralume di trine…

-La mia domestica mi dice che ha visto…mentre entrava nel portone di…L’avreste mai creduto?

La cabina sale appresso alle altre e seguita dalle compagne, come una fila di formiche che portino un carico per la loro sopravvivenza. Ha incominciato a piovere con brevi, violenti scrosci che s’infrangono sui vetri resi opachi dal vapore e dal freddo esterno. Le brave donne continuano a ciacolare spettegolando, senza notare il paesaggio al di fuori, mentre il vento aumenta la propria violenza man mano che saliamo in quota. Il bozzolo che ci ospita adesso sembra la navicella di un Luna Park impazzito, guidata da una mano sadica che prova piacere a spaventare i passeggeri. Ma sono impianti controllatissimi, non può accaderci niente di imprevisto.

Oh mamma mia! Ci siamo bloccati. Oddio, la cabina dondola e si scuote mentre un cicalino d’allarme ha cominciato a suonare ripetutamente. La situazione comincia a farsi allarmante. Vedo un citofono per collegarsi con la stazione a valle. Lo prendo.
-Pronto? Pronto? Che succede, perché non ci muoviamo?
-Signorina, stia tranquilla. C’è un piccolo guasto che verrà riparato a breve. Non si preoccupi. – Risponde una voce all’altro capo.
-Quanti siete nella cabina e state tutti bene? Diteci i vostri nomi.
- Si, si, tutti bene. Siamo io, Amélie Dupois, e le signore Turillon, Grasset e Le Plaisir.
-Ah, ci ha riconosciute, la sgualdrina.
-Signora Turillon, l’ho sentita. Si, vi conosco e sgualdrina lo vada a dire a sua sorella!
-Scostumata!
Il tempo passa, sta scendendo la notte e anche la temperatura diventa sempre più rigida. La voce al citofono ha promesso soccorsi in breve tempo, ma gli elicotteri non possono alzarsi con le tenebre e il buio diventa sempre più fitto. Già le pareti della montagna non si vedono più e sotto di noi il terreno è scomparso. Fa freddo, mi siedo in un angolo e mi stringo addosso il giaccone. E quelle ancora parlano.
-Gesùgiuseppemaria, Siamo bloccate e chissà per quanto.
-Io non posso restare qui. Ho mille cose da fare, e poi non sono attrezzata per stare tante ore fuori casa.
-Amiche, calmatevi. E’ una situazione critica, ma verranno a prenderci o rimetteranno in moto questa dannata teleferica. Adesso la cosa importante è tenerci calde e farci coraggio. - Guarda: si sono rannicchiate insieme, come tre passerotti su un trespolo, dall’altra parte della cabina. Si abbracciano, le amiche, come se fossero sole, senza dirmi una parola. Non mi importa, per fortuna avevo intenzione di stare fuori diverse ore ed ho portato con me lo zaino con molte provviste. Ho anche un thermos con del the caldo che mi farà senz’altro comodo.
Sono passate quattro ore, le ultime notizie dicono che riprenderanno i soccorsi domani all’alba, ma non è chiaro come ci porteranno alla base. Ho sete. Prendo il contenitore, un bicchiere di carta e mi verso un po’ di the: è ancora fumante. Come mi guardano adesso le tre Pie, sentono l’odore della bevanda e forse anche del panino al salame che sbuca dalla sacca.

-Signorina, uhm, mi scusi. Vede, la nostra amica qui, si sta sentendo male ed avrebbe bisogno di bere un sorso di qualcosa. – Ah, madame Grasset adesso mi parla. La devo ignorare come hanno fatto loro fino adesso nei miei confronti? Ma no, mi fanno pena e poi…siamo tutte sulla stessa barca.

-Va bene, signore. Se volete favorire: oltre all’acqua, ho del the con lo zucchero, poi mi sono portata un paio di panini, una bella fetta di torta di mele e dei biscotti. C’è anche una bottiglia di vino, se gradite, e per finire mezza boccia di grappa.

-Oh, signorina. Lei è troppo gentile! Venite amiche, approfittiamo del cortese invito. – Ah, Ah, Ah, si sono buttate sul mio cibo come fosse l’ultima cena.

-Buono, ottimo. Non sappiamo come ringraziarla. Lei ci ha salvato in questo disgraziato frangente e, d’altro canto, in fondo siamo tutte compaesane e ci dobbiamo aiutare in certi momenti. Nevvero?

-Sissignora, siamo tutte compaesane e ci conosciamo da tempo. – L’atmosfera è cambiata totalmente. A parte la situazione oggettiva, adesso sembra di essere diventate quasi amiche. Si stanno interessando a me e vorrebbero che raccontassi loro la mia vita.

-E ci dica, con discrezione naturalmente, cosa le chiedono maggiormente gli uomini?

-Oh Marie, ma cosa dici? Non saremmo troppo audaci?

-No, sono sicura che l’esperienza della signorina sarebbe interessantissima da condividere. -Formiamo un circolo, accovacciate sul pavimento della cabina, e continuiamo a chiacchierare, mentre il vino provoca improvvisi scrosci di risa e ci fa passare il tempo.

Come Dio vuole, dopo tutta la notte e buona parte della mattina, i soccorsi sono arrivati. Hanno sbloccato qualcosa e la funivia è ripartita. Ci hanno portato a valle e finalmente siamo potute scendere, le signore per prime, naturalmente. Ci siamo scambiate un breve saluto, nella concitazione del momento, e chissà forse mi dovrò ricredere su di loro. Prima di andare a casa mi fermo al bar per un cappuccino. Eccole ancora, le mie compagne d’avventura.

-Signore Turillon, Grasset, Le Plaisir, ci ritroviamo! Beviamo insieme un ultimo caffè?

-Signorina, stia al suo posto! Il fatto che siamo state costrette insieme per qualche tempo non deve permetterle tanta confidenza.

-Brava! Che si crede, quella, di essere come noi? Ci guardano tutti!

-Giusto, signore. Andiamo che le nostre famiglie ci aspettano, al contrario di qualcun’altra.

No, non me la prendo. E’ vero: io non ho una famiglia mia, ma ho tutti gli uomini che voglio e da ognuno sono amata quando, morendo, sospirano il mio nome: “Amélie…”. Se non posso avere la simpatia delle mogli… godrò della passione dei mariti.





mercoledì 7 settembre 2016

Il Cappotto di Mille Colori


Non c’erano molti soldi nella casa della mia infanzia. Io crescevo accanto al fuoco del camino, ma fuori l’inverno mordeva la natura. Avevo un quaderno, il libro di scuola e le scarpe vecchie per uscire la mattina, ma la giacchetta che mi aveva accompagnato l’anno prima, adesso risultava corta di maniche e quasi non si abbottonava sul davanti. Mamma sapeva di questo problema e l’aveva scritto a mio padre che, dal nero di Marcinelle, le aveva risposto di aspettare Natale. Ma io non potevo andare a scuola senza coprirmi e non volevo andarci con quella giacchetta che mi faceva assomigliare ad un burattino. Allora lei prese una scatola dove aveva riposto degli stracci avanzati da vecchie coperte e tovaglie e, con pazienza, si mise a cucire. Creò dal nulla un cappotto di mille colori, ma a me non piaceva. “Provalo, figlio mio. E guarda: c’è l’azzurro del cielo, il blu del mare, il giallo del sole. E poi, vedi qui nell’angolo, il marrone che ricorda la terra che ci nutre con i suoi frutti; una manica è fatta di juta, come i sacchi di grano che ci danno il pane e l’altra è lana morbida come le coperte che ti scaldano il sonno. Dietro c’è una stoffa di un pantalone di tuo padre perché qualcosa di lui ti possa accompagnare, e sulle spalle ho cucito un vecchio mio scialle che ti possa sempre abbracciare. Lo so può sembrare vivace, ma ricorda la bellezza dell’arcobaleno e la pazzia della fantasia. Non ti farà sembrare come gli altri e, anzi, parlerà della tua voglia di distinguerti, della tua creatività e della superiorità che mostrerai nei confronti dei maligni commenti di qualche compagno che non capirà. Sarà la bandiera della tua individualità, sarà la pietra di paragone per il conformismo degli altri. Ricorda che ogni straccio è stato cucito con i punti del mio amore e che mai nessuna cifra potrà comprare quello che il tuo cappotto contiene.” Lo indossai e ne fui fiero: fui orgoglioso del cappotto di mille colori che mia madre aveva cucito solo per me.


venerdì 2 settembre 2016

Io Tocco

Urlate forte e sparate, voi poeti senza fiato,
Scrittori di sogni persi, vissuti un po’ di lato,
Rubati senza vergogna da una porta aperta,
Sull’anima di chi per poco tempo l’ha scoperta.
Ma questo cuore, di battiti stupiti, voi non avrete,
Della vostra pietà di vane parole, non cadrà nella rete.
Correrà da solo almeno fino all’ultimo rintocco
Quando, al fin della licenza, senza perdono, io tocco.

Spaventi e miserie della vita, venite pure avanti
Che i vostri inganni non fermarono né tanti né quanti
Delle mie illusioni la voglia di rincorrere nella notte
Di stelle popolata i sogni, le speranze e l’ossa rotte.
In battaglia tutti i giorni vado a denti stretti e muso duro
E degli inciampi e delle cieche curve più non mi curo.
Alle promesse della rugiada all’albeggiare, io non abbocco
E su di te vita, al fin della licenza, senza paura io tocco.

Ma quando appena sveglio, col sole all’orizzonte,
Leggero, alla mia donna un bacio poso sulla fronte
Di ogni cosa il senso ritrovo chiaramente, e tra cielo
E terra il cammino sfumato appare dietro ad un velo.
Non so se di tutte le tentazioni resistere potrò alla menzogna
Ma voglio dire che non sopporto la gente che non sogna.
E’ chiaro che del mio destino e del fato sono il balocco,
Ma, ancora una volta, al fin della licenza, io tocco. Io tocco.