Volevo scrivere
un romanzo introspettivo. Avrei cominciato con il protagonista che sale su un
treno, solo, e si siede in uno scompartimento vuoto vicino al finestrino. Il convoglio
si muove attraversando un paesaggio invernale tra Bologna e Milano. L’uomo
guarda la desolata campagna coperta di neve mentre piccole stazioni si
succedono una all’altra come anelli della catena che lega un racconto di
solitudine. Lui è un intellettuale fallito, forse un artista o un professore di
liceo, e quel continuo scorrere di immagini simili tra loro eppure sempre
diverse, gli riporta alla mente il corso della sua vita. Riflette, fra se, di
come gli anni siano passati in fretta da quando, giovane e pazzo, si era illuso
di poter guidare la sua esistenza. Adesso, domato se non vinto, non vive più
che di ricordi equamente divisi tra rimpianti e rimorsi. Ad un certo punto del
viaggio, entra nella carrozza una ragazza, non particolarmente bella, che
prende posto nel divanetto di fonte all’uomo. Niente colpisce di lei se non la
giovinezza. Il protagonista la guarda e sogna, vorrebbe parlarle per metterla
in guardia da quello che lei, e nessun’altro, sa del futuro che l’aspetta, ma
capisce che vana è l’illusione di poter aiutare un altro essere umano in questo
deserto che nel quale ci accompagna il destino. E così via, dove la metafora
del viaggio è il riflesso della propria esistenza, mentre il viso dell’uomo,
specchiato nel vetro della carrozza, gli rivela occhi estranei a se stesso. Non
ci sono dialoghi, se non un continuo interrogarsi del suo essere e delle
angosce dentro di sé celate. Chessò...Camus, Sartre, una indegna scopiazzatura
di Hesse nella descrizione dei paesaggi, un crepuscolare Gozzano o un maledetto
Bukowski, un pizzico di Kerouac on the road, una spolverata di Margaret
Mazzantini e un velo di Susanna Tamaro che rende tutto meno amaro. Un paio di
citazioni, o meglio qualche bella frase tratta da un film di Antonioni che,
anche se non risulta del tutto chiara, rende il senso dell’incomunicabilità
esistenziale vissuta dall’uomo, ed ecco il succoso romanzo che tutto si potrà
definire tranne: “simpatico, ben scritto, ma leggero”. E allora ho preso il mio
protagonista e l’ho messo, in scala 1:4, vicino alla tastiera del computer. Ci
siamo presentati, l’ho pregato di togliersi l’impermeabile ed il cappello e di
girare su se stesso. Volevo coglierne tutte le sfaccettature. Il suo lato
amaro, provato, disilluso, cinico e disperato. In definitiva: triste. Poi l’ho
guardato bene e l’ho pensato immerso nella trama, ho immaginato tutto il libro
finito e me stesso che sfogliavo la mia opera. Il mio commento spontaneo, per
il quale mi sono scusato con l’attonito protagonista che mi osservava, è stato:
“Che palle!” Ho quindi fatto sparire l’omino e le idee para-intelletualoidi, ho
preso in mano “L’uomo con due piedi sinistri” scritto dal genio di P.G. Wodehouse
e con l’inimitabile Jeeves come protagonista, e ho passato un’oretta lietamente.
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