martedì 21 aprile 2015

Il Mistero della Pantera Scomparsa

“E la Cristoforetti gira, gira…beata lei, da sola nell’immensità del cielo. No, in realtà non è da sola ma divide la navicella con un gruppetto di uomini. E quindi: altroché beata, deve essere un inferno. Mi ricordo, qualche estate fa, quando prendemmo una cabina al mare con degli amici. A fine stagione i bambini si odiavano, io mi trattenevo dal prendere per i capelli la Gina più volte al giorno solo per una residua parvenza di educazione, ed i mariti, quando si incontravano, non si salutavano nemmeno. Questo perché eravamo obbligati ad una convivenza, seppure temporanea, in pochi metri quadrati con le robe di ognuno che invadevano gli spazi degli altri. Pensa quindi a quella poveretta lassù. Adesso capisco perché è sempre nei telegiornali o collegata con qualsiasi trasmissione, dalla D’Urso a “Uno in Famiglia”. Dovrà pure sentire delle voci diverse e parlare d’altro oltre che di vodka e matrioske – mi pare che i compagni siano russi -. Non vedrà l’ora di tornare, anche se ritroverà la stessa grama situazione che ha lasciato, se non peggiore.” Questo pensava la Kathia, parrucchiera per uomo e signora (sic) in quel di Borgo Carige, mentre gustava l’ultima sigaretta della giornata allungata sul dondolo nel giardinetto di casa. “Oh, Vittorio – si rivolse verso il marito - ma lo vedi ‘sto stonfo di stelle che tappezzano tutto il cielo?” L’uomo, che le sedeva accanto cercando di digerire il caciucco che la consorte aveva preparato per cena, alzò appena gli occhi verso l’alto producendosi nel massimo esercizio fisico che potesse concedersi in quel momento.
Era una di quelle sere di fine primavera quando nell’aria già si sente il profumo dell’estate, ma ancora non si soffre il caldo né la fastidiosa compagnia delle zanzare. Kathia si spingeva avanti e indietro con il solo sottofondo del leggero stridio delle molle dell’altalena e lo sporadico latrare di qualche languido cane che, sperso nella campagna, abbaiando salutava la luna. Anche Veronica, sua figlia, si era rintanata in cameretta per continuare l’interminabile conversazione con le sue amiche tramite cellulare o pc. Dalla tazzina di caffè che teneva in mano, una piccola voluta di fumo saliva perdendosi nel blu profondo della notte, dominato da un padellone d’argento che rischiarava il paesaggio come se fosse quasi giorno. “Eggià, belline le stelle. Pensa che adesso, magari, ci sta passando sulla testa la Cristoforetti – ohhee: lo stesso pensiero! - e noi neanche lo sappiamo. Forse, tipo Google View, ci può anche vedere.” Disse Vittorio. “Allora togliti la mano dalle mutande, che non saresti proprio un bello spettacolo.” Lo riprese la moglie. “Eddai, se non si può stare neanche più in pace a casa propria…dove andremo a finire?” E con questa sociologica osservazione venata da un evidente richiamo orwelliano alla tirannia del grande fratello (?), vincendo la botta di sonno ormai incipiente, Vittorio si avviò verso la camera da letto, dandosi un’ultima vigorosa grattata in segno di sfida verso l’occhio degli intrusi. “Uffff…” Fu il giusto commento della donna che racchiudeva l’accettazione del suo destino, nel quale era compreso anche quella specie di affettuoso cinghiale di suo marito. Per carità, non è che non gli volesse bene, ma qualche volta avrebbe voluto accanto qualcuno che sapesse qualche altra poesia oltre le rime di “garrisca al vento il labaro viola / una speranza viva ci consola”, l’inno della Fiorentina, e mostrasse entusiasmo anche per un tramonto oltre che per i gol di Cuadrado. Ma era andata così. In fondo era un brav’uomo, anche lui le voleva bene e questo era l’importante. “Oh bellino – lo richiamò – ricordati che domani andiamo a Roma, non sparire come al solito.” “E’ proprio necessario?” Kathia si voltò, piano, alzando il sopracciglio sinistro. “OK, ho capito, ho capito, non c’è bisogno di scaldarsi. Ok, vabbè, a Roma, ok, ricevuto. Ti lascio qui fuori con la Cristoforetti che se l’è fumantina come te, pensa come se la passano quei poveracci di astronauti che sono con lei. Ti aspetto in camera.” “Va bene, ti raggiungo finita la sigaretta.” “Non fare tardi, che mi devi ancora far vedere come ti sta quel completino che hai comprato da Intimissimi.” “Ma va là! Che fra trenta secondi già russi.” Ribatté la donna, sbuffando una nuvoletta di fumo meglio della Dietrich nell’” Angelo Azzurro”.
Il matrimonio della cugina si avvicinava, era fissato per la metà di maggio, e Kathia doveva ancora scegliere il vestito per lei e per la figlia, mentre Vittorio avrebbe riciclato il completo blu “delle occasioni”. La donna aveva già fatto un giro ad Orbetello, non trovando però niente di proprio gusto, e quindi aveva intenzione di annegare nel mare grande della capitale dove l’offerta era sicuramente più vasta. Per la ragazzina di tredici anni era certa di trovare qualcosa di bello ed adatto per l’occasione in quel rinomato negozio di via Gramsci, ma per lei…non aveva proprio idea.  Avrebbe dovuto fare un giro in centro per trovare qualche proposta che la soddisfacesse.
Non dovendo lavorare, e non essendo per niente entusiasta della gitarella, quella mattina Vittorio se la prese comoda e, mente la Kathia già aveva finito la colazione, lui giaceva ancora nel letto cercando di scollare le palpebre. “Oh bellino! Ti dai una mossa?” “Uhmmff, eh quanta furia, arrivo, arrivo.” La donna per distrarsi dall’atteggiamento del marito che, sentiva, le stava facendo venire il nervoso, aprì “Il Tirreno” che ogni giorno il figlio dell’edicolante le consegnava a domicilio. Sorvolò sui principali titoli di politica e si soffermò sulla Cronaca. Subito lesse: “La Pantera Scomparsa - Audace furto nel negozio Cartier di via Condotti - Sparito l’anello a forma di pantera facente parte della collezione storica del gioielliere.” “Vittorio, ma dal “Cartiere”, a Roma, un ci lavora l’Andrea Ciccolini, il figlio della signora Anna?” Dal bagno, il marito alzò la voce per farsi sentire: “Si, fu assunto quando si trasferì in città. E’ tanto che non ci vediamo.” Incuriosita dalla coincidenza, Kathia continuò nella lettura del lungo pezzo che poi, quando l’uomo la raggiunse al tavolo da cucina per la colazione, riassunse manifestando tutta la sua meraviglia. “Insomma, dice che, aprendo il negozio lunedì mattina, i commessi del gioielliere si sono accorti che mancava un anello dalla vetrinetta d’esposizione interna. L’ultima volta era stato visto da una venditrice che si era fatta portare le chiavi da Andrea per prelevare un altro gioiello da mostrare ad un cliente. Poi, certa che fosse tutto in ordine, aveva richiuso l’espositore e aveva riconsegnato le chiavi, sempre ad Andrea. L’inserviente come al solito, presente un collega, aveva riportato le chiavi al loro posto nell’armadio blindato sul retro. Naturalmente, hanno subito interrogato Ciccolini che si è dichiarato estraneo alla sparizione dell’oggetto e non in grado di darne una spiegazione. La direzione del negozio ha affermato tutta la sua fiducia nella lealtà dell’impiegato, che lavora con loro da più di quindici anni, mentre la polizia, come spesso accade…brancola nel buio.” Vittorio esplose in una risata: “Vuoi vedere che l’Andrea ha fatto il colpaccio? Bravo bischero!” “Come sei grullo, ma grullo tanto! Se ci fosse qualche indizio a suo carico, l’avrebbero già fermato. E poi, conoscendo la famiglia, sulla sua onestà ci metto la mano sul fuoco.”
Partirono da Borgo Carige con la Panda 4X4 e, dopo un’ora e mezzo, entrarono a Roma dirigendosi verso il garage sotterraneo di Villa Borghese per parcheggiare vicino al centro. Lasciata la macchina come una pecorella in mezzo al gregge, Vittorio si inventò un giochino per ricordarsi il numero di riferimento e ritrovare l’autovettura. Non voleva ripetere l’esperienza dell’ultima volta, quando aveva girato per i meandri dell’enorme autorimessa per più di un’ora, con sconforto ed angoscia sempre crescenti, perché non si ricordava più l’ubicazione dell’utilitaria. “Veronica, tu tieni a mente: livello due. Kathia: numero 63. Per me il compito più impegnativo: memorizzo livello due e posto 63. Così andiamo sul sicuro.” Soddisfatta e tranquillizzata, la famigliola si concesse un corroborante cappuccino con cornetto a testa, e imboccò spavalda il sottopassaggio verso piazza di Spagna. L’uscita dal parcheggio coincide con quella della fermata della Metro, e quindi il tunnel finale convoglia una massa di varia umanità, vociante e confusa, tutta verso la stessa direzione e anelante di sbucare fuori dall’oscuro antro. Finalmente i tre rividero la luce del sole, e furono immediatamente ripagati della fatica del viaggio quando Roma si presentò ai loro occhi bella e calda come sempre. Il tempo per un’occhiata alla Barcaccia e per un selfie con alle spalle la scalinata di Trinità dei Monti, ed in formazione, con avanti le donne ed l’uomo in retroguardia, si avventurarono a caccia di occasioni per lo shopping. “Seguiamo questo percorso. – annunciò Kathia, sicura di quello che aveva già programmato- Giù per via Frattina fino al Corso, poi viuzze varie a caso e quindi ritorno su per via Condotti.” E’ inutile seguire passo passo tutto lo sfiancante peregrinare da una boutique all’altra, con la costante insoddisfazione della donna ed il crescente sfinimento del marito, basti dire che, dopo buone tre ore di camminata, ancora non avevano risolto niente. Il capo perfetto, che avrebbe dovuto vestire la Kathia in occasione della festa, sembrava non esistesse da nessuna parte. O meglio, qualcosa andava bene, ma c’era sempre un particolare che impediva l’acquisto. Potevano essere le maniche, la lunghezza, il colore oppure, spesso, il prezzo. “Basta! Sono le quattro, non ce la faccio più!” Sbottò Vittorio esausto. Come aveva intenzione di dire Cristoforo Colombo quando, dopo mesi di navigazione, ancora non era riuscito a scorgere le coste del Kathay, e che poi per sua fortuna si rimangiò all’ultimo momento, l’uomo così comandò alla sua ciurma: “Torniamo!” Kathia, con un sospiro, capì che non poteva tirare ulteriormente la corda ed acconsentì alla resa. Da largo Goldoni imboccarono via Condotti per tornare al parcheggio, non mancando di guardare ancora le vetrine che proponevano tentazioni del tutto al di sopra delle loro possibilità economiche. “Prima di riprendere la macchina, fermiamoci a bere qualcosa in un bar.” Propose Veronica, che fin lì aveva sopportato di buon grado il tour de force solo consolata da qualche pacchettino rimediato nei negozi più “cool”.
Si sedettero al tavolino di una pasticceria che aveva attirato l’attenzione di Vittorio per la sontuosa esposizione di dolci e sfizi di ogni genere e ordinarono un piccolo rinfresco. Mentre stava sorseggiando la sua Diet Coke, Kathia improvvisamente si alzò in piedi agitando la mano. “Andrea! Ehi, ciao! Guarda chi si rivede. Vieni, siediti con noi!” “Oh, la Kathia e famiglia. Che piacere! Mi siedo solo dieci minuti perché devo tornare al lavoro.” La parrucchiera non si lasciò sfuggire l’occasione per interrogare l’amico sul fatto di cronaca che l’aveva visto protagonista. “Raccontami un po’, com’è che è andato sto’ furto dal Cartiere?” Il Ciccolini non poteva sottrarsi a quella legittima curiosità, e forse voleva anche sfogarsi dopo essere stato tanto sotto pressione. “Beh, è andato tutto esattamente come avete letto. Non si è riusciti a spiegare come la vetrina sia stata aperta senza tracce di scasso, visto che le chiavi sono sempre state in consegna a me. Fatto sta’ che l’anello è sparito. Ti dirò, e lo dico solo a te che mi conosci da tanto tempo, sono quasi contento che sia andata così.” “Che intendi?” “Il gioiello in questione era un pezzo unico della collezione storica della maison. Era un anello in oro e diamanti, con una pantera in smalto adagiata su uno zaffiro cabochon: un capolavoro! Si dice fosse stata ordinato, negli anni quaranta, dalla duchessa di Windsor e poi non ritirato. Certamente la figura del felino fu studiata apposta per la nobildonna che desiderava indossare un gioiello “animalier”, ma non è certo che quel pezzo particolare fosse proprio destinato a lei. Comunque io ne ero, diciamo, innamorato! Tutti i giorni lo guardavo e, dopo tanto tempo, mi sembrava fosse diventato un po’ mio. Adesso non c’è più, ma tanto non ci sarebbe rimasto ancora a lungo in negozio. Giusto qualche giorno addietro un cliente arabo l’aveva acquistato, lasciando una caparra, per poi venirlo a ritirare nel suo prossimo viaggio a Roma. Quindi non l’avrei più visto, con mio grande dispiacere.” La Kathia ascoltò il racconto quasi stupita nel vedere l’amico così commosso al ricordo di quell’oggetto che doveva avere tanto amato. “Che ci vuoi fare? Vedrai che forse lo ritroveranno o i ladri proporranno un riscatto. E’ difficile ricettare un pezzo così conosciuto da tutti i collezionisti del mondo.” “Forse hai ragione. Adesso scusami, devo andare. Fatevi abbracciare, e ci sentiamo presto.” Con queste parole, e con calorose effusioni, Andrea si alzò dal tavolino e si diresse verso il negozio nel quale lavorava. Anche la famigliola in trasferta finì le consumazioni e riprese la via per il parcheggio. “Eccheccavolo! – se ne uscì Vittorio appena fuori dalla portata delle orecchie del cameriere del bar – Quattro bibite, un po’ di spilluzzicamenti e due patatine e m’hanno scucito cinquanta euri! Un se po’, maremma bucaiola!” “Eddai, un ci facciamo riconoscere! E te tu stai nel cuore di Roma, e che tu ti pretendi? Prossima tappa: via Gramsci per il vestito di Veronichina.” Ribatté la Kathia con rinnovato vigore.
Qui ci starebbe tutto un paragrafo con la descrizione di come la famigliola raggiunse il più antico e rinomato negozio di abbigliamento per bambini e ragazzi di Roma e, forse, d’Italia. Della maniera in cui furono accolti e serviti da personale gentile e qualificato. Della meraviglia della madre e della ragazzina di fronte alle proposte originali, ma classiche, che avrebbero trasformato quella piccola paesana in una principessa da favola. Della gioia nel consegnare il bancomat nelle mani del titolare, persona squisita e charmant, per farsi addebitare la contropartita di un acquisto effettuato con tanta soddisfazione. E, infine, della gratificazione per essersi lasciati consigliare dall’affascinante e convincente signora che, con tanta grazia, li aveva accolti ed indirizzati verso la scelta migliore. Ma non vogliamo indugiare su realtà commerciali che meritano altre più elegiache descrizioni e che sono ben conosciute da tutta la clientela più selezionata ed esigente. E se qualcuno ancora non li conoscesse, peggio per lui e per la sua prole destinata a rientrare nella categoria degli sciattoni.
Il viaggio di ritorno sull’Aurelia fu fatto in silenzio. Solo la radio mandava un sottofondo musicale, nella macchina nessuno parlava. Vittorio, alla guida, era troppo impegnato ad esercitare la sua forza di volontà nel restare sveglio e vigile al volante, Veronica aveva indossato le cuffie e immediatamente era volata in altri mondi e la Kathia era immersa in pensieri tanto profondi ed impegnativi che il suo volto, solitamente sereno, mostrava un severo cipiglio. La donna riandava con la mente al colloquio con Andrea e all’articolo letto alla mattina. Non riusciva a spiegarsi come potesse essere avvenuto quel furto all’apparenza impossibile. Il suo hobby erano i gialli che aveva letto in quantità industriale e, dopo tanta esperienza letteraria, si considerava un’esperta detective, anche se in maniera solo potenziale e teorica. I sospetti che avrebbero potuto compiere il reato erano pochi, e pareva quasi di trovarsi nello scenario classico degli “enigmi della porta chiusa” dove non sembravano esserci soluzioni. Fino a quando l’arguto investigatore di turno, nelle ultime pagine del libro, non chiariva il mistero all’aiutante che, rilevando come fosse ovvia la spiegazione della vicenda, faceva l’inevitabile figura del cretino, insieme con il lettore che per tutte le 230 pagine si era fatto abilmente abbindolare dall’autore. Al kilometro 124 della statale A1, Kathia giunse ad una conclusione, per lei evidente. Arrivata a casa, sbraitò contro i familiari: “Pensateci da soli alla cena. Io devo scrivere una mail, non mi disturbate.” Prese il suo tablet e si chiuse in camera. Telefonò alla signora Ciccolini e, con una scusa, si fece dare l’indirizzo elettronico del figlio. Poi si sedette comoda, si concentrò e cominciò: “Caro Andrea, come disse Sir Arthur Conan Doyle, per bocca di Sherlock Holmes, “Eliminato l'impossibile, ciò che resta, per improbabile che sia, deve essere la verità”. Riferendoci al furto dell’anello, è impossibile che qualsiasi altra persona possa averlo compiuto, e quindi il colpevole deve essere il solo che ne abbia avuto la possibilità: tu. Anche se non vorrei crederlo e mi dispiace molto anche solo pensarlo, non vedo altre alternative. Ovviamente non posso dimostrarlo, e forse neanche lo vorrei, come credo che neanche la polizia troverà delle prove. Però tu e la tua coscienza conoscete la verità. Capisco le tue motivazioni dettate più dal sentimento che dall’avidità, ma ti prego di riflettere come non valga la pena per un oggetto, per quanto bello sia, compromettere la propria onestà, il rispetto verso se stessi e causare, qualora ne venisse a conoscenza, un così grande dolore a tua madre. Se ho ragione non lo voglio sapere, ma pensaci ed agisci come farebbe il bravo ragazzo che sei sempre stato.” Chiuse il portatile, anche se avrebbe potuto aggiungere molte altre righe di rimprovero ed incoraggiamento, e rimase per svariati minuti seduta al tavolino con lo sguardo nel vuoto e la mente altrove.
Qualche giorno dopo la Kathia era nella sua bottega concentrata su una messa in piega che, come una panna girata dal verso sbagliato, non aveva nessuna intenzione di montare. “Ma dimmi tu! – esclamo la cliente dalla sua poltrona mentre sfogliava un giornale – E’ tornato Arsenio Lupin, il ladro gentiluomo. Qui dice che hanno ritrovato l’anello rubato da Cartier con un biglietto di scuse. Non so se quello è un bischero o una brava persona. Tu che ne dici, Kathia?” La parrucchiera non rispose, ma un gran sorriso le si stampò sulla faccia e tutto il mondo le apparve all’improvviso meraviglioso.








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