“E la Cristoforetti
gira, gira…beata lei, da sola nell’immensità del cielo. No, in realtà non è da
sola ma divide la navicella con un gruppetto di uomini. E quindi: altroché
beata, deve essere un inferno. Mi ricordo, qualche estate fa, quando prendemmo
una cabina al mare con degli amici. A fine stagione i bambini si odiavano, io mi
trattenevo dal prendere per i capelli la Gina più volte al giorno solo per una
residua parvenza di educazione, ed i mariti, quando si incontravano, non si
salutavano nemmeno. Questo perché eravamo obbligati ad una convivenza, seppure
temporanea, in pochi metri quadrati con le robe di ognuno che invadevano gli
spazi degli altri. Pensa quindi a quella poveretta lassù. Adesso capisco perché
è sempre nei telegiornali o collegata con qualsiasi trasmissione, dalla D’Urso
a “Uno in Famiglia”. Dovrà pure sentire delle voci diverse e parlare d’altro oltre
che di vodka e matrioske – mi pare che i compagni siano russi -. Non vedrà
l’ora di tornare, anche se ritroverà la stessa grama situazione che ha
lasciato, se non peggiore.” Questo pensava la Kathia, parrucchiera per uomo e
signora (sic) in quel di Borgo Carige, mentre gustava l’ultima sigaretta della
giornata allungata sul dondolo nel giardinetto di casa. “Oh, Vittorio – si
rivolse verso il marito - ma lo vedi ‘sto stonfo di stelle che tappezzano tutto
il cielo?” L’uomo, che le sedeva accanto cercando di digerire il caciucco che
la consorte aveva preparato per cena, alzò appena gli occhi verso l’alto producendosi
nel massimo esercizio fisico che potesse concedersi in quel momento.
Era una di
quelle sere di fine primavera quando nell’aria già si sente il profumo
dell’estate, ma ancora non si soffre il caldo né la fastidiosa compagnia delle
zanzare. Kathia si spingeva avanti e indietro con il solo sottofondo del
leggero stridio delle molle dell’altalena e lo sporadico latrare di qualche
languido cane che, sperso nella campagna, abbaiando salutava la luna. Anche
Veronica, sua figlia, si era rintanata in cameretta per continuare
l’interminabile conversazione con le sue amiche tramite cellulare o pc. Dalla
tazzina di caffè che teneva in mano, una piccola voluta di fumo saliva perdendosi
nel blu profondo della notte, dominato da un padellone d’argento che
rischiarava il paesaggio come se fosse quasi giorno. “Eggià, belline le stelle.
Pensa che adesso, magari, ci sta passando sulla testa la Cristoforetti – ohhee:
lo stesso pensiero! - e noi neanche lo sappiamo. Forse, tipo Google View, ci
può anche vedere.” Disse Vittorio. “Allora togliti la mano dalle mutande, che
non saresti proprio un bello spettacolo.” Lo riprese la moglie. “Eddai, se non
si può stare neanche più in pace a casa propria…dove andremo a finire?” E con
questa sociologica osservazione venata da un evidente richiamo orwelliano alla
tirannia del grande fratello (?), vincendo la botta di sonno ormai incipiente, Vittorio
si avviò verso la camera da letto, dandosi un’ultima vigorosa grattata in segno
di sfida verso l’occhio degli intrusi. “Uffff…” Fu il giusto commento della
donna che racchiudeva l’accettazione del suo destino, nel quale era compreso
anche quella specie di affettuoso cinghiale di suo marito. Per carità, non è
che non gli volesse bene, ma qualche volta avrebbe voluto accanto qualcuno che sapesse
qualche altra poesia oltre le rime di “garrisca al vento il labaro viola / una
speranza viva ci consola”, l’inno della Fiorentina, e mostrasse entusiasmo
anche per un tramonto oltre che per i gol di Cuadrado. Ma era andata così. In
fondo era un brav’uomo, anche lui le voleva bene e questo era l’importante. “Oh
bellino – lo richiamò – ricordati che domani andiamo a Roma, non sparire come
al solito.” “E’ proprio necessario?” Kathia si voltò, piano, alzando il
sopracciglio sinistro. “OK, ho capito, ho capito, non c’è bisogno di scaldarsi.
Ok, vabbè, a Roma, ok, ricevuto. Ti lascio qui fuori con la Cristoforetti che
se l’è fumantina come te, pensa come se la passano quei poveracci di astronauti
che sono con lei. Ti aspetto in camera.” “Va bene, ti raggiungo finita la
sigaretta.” “Non fare tardi, che mi devi ancora far vedere come ti sta quel
completino che hai comprato da Intimissimi.” “Ma va là! Che fra trenta secondi
già russi.” Ribatté la donna, sbuffando una nuvoletta di fumo meglio della
Dietrich nell’” Angelo Azzurro”.
Il
matrimonio della cugina si avvicinava, era fissato per la metà di maggio, e
Kathia doveva ancora scegliere il vestito per lei e per la figlia, mentre Vittorio
avrebbe riciclato il completo blu “delle occasioni”. La donna aveva già fatto
un giro ad Orbetello, non trovando però niente di proprio gusto, e quindi aveva
intenzione di annegare nel mare grande della capitale dove l’offerta era
sicuramente più vasta. Per la ragazzina di tredici anni era certa di trovare
qualcosa di bello ed adatto per l’occasione in quel rinomato negozio di via
Gramsci, ma per lei…non aveva proprio idea. Avrebbe dovuto fare un giro in centro per trovare
qualche proposta che la soddisfacesse.
Non dovendo lavorare,
e non essendo per niente entusiasta della gitarella, quella mattina Vittorio se
la prese comoda e, mente la Kathia già aveva finito la colazione, lui giaceva
ancora nel letto cercando di scollare le palpebre. “Oh bellino! Ti dai una
mossa?” “Uhmmff, eh quanta furia, arrivo, arrivo.” La donna per distrarsi
dall’atteggiamento del marito che, sentiva, le stava facendo venire il nervoso,
aprì “Il Tirreno” che ogni giorno il figlio dell’edicolante le consegnava a domicilio.
Sorvolò sui principali titoli di politica e si soffermò sulla Cronaca. Subito
lesse: “La Pantera Scomparsa - Audace furto nel negozio Cartier di via Condotti
- Sparito l’anello a forma di pantera facente parte della collezione storica
del gioielliere.” “Vittorio, ma dal “Cartiere”, a Roma, un ci lavora l’Andrea
Ciccolini, il figlio della signora Anna?” Dal bagno, il marito alzò la voce per
farsi sentire: “Si, fu assunto quando si trasferì in città. E’ tanto che non ci
vediamo.” Incuriosita dalla coincidenza, Kathia continuò nella lettura del
lungo pezzo che poi, quando l’uomo la raggiunse al tavolo da cucina per la
colazione, riassunse manifestando tutta la sua meraviglia. “Insomma, dice che,
aprendo il negozio lunedì mattina, i commessi del gioielliere si sono accorti
che mancava un anello dalla vetrinetta d’esposizione interna. L’ultima volta
era stato visto da una venditrice che si era fatta portare le chiavi da Andrea
per prelevare un altro gioiello da mostrare ad un cliente. Poi, certa che fosse
tutto in ordine, aveva richiuso l’espositore e aveva riconsegnato le chiavi,
sempre ad Andrea. L’inserviente come al solito, presente un collega, aveva
riportato le chiavi al loro posto nell’armadio blindato sul retro.
Naturalmente, hanno subito interrogato Ciccolini che si è dichiarato estraneo
alla sparizione dell’oggetto e non in grado di darne una spiegazione. La
direzione del negozio ha affermato tutta la sua fiducia nella lealtà
dell’impiegato, che lavora con loro da più di quindici anni, mentre la polizia,
come spesso accade…brancola nel buio.” Vittorio esplose in una risata: “Vuoi
vedere che l’Andrea ha fatto il colpaccio? Bravo bischero!” “Come sei grullo,
ma grullo tanto! Se ci fosse qualche indizio a suo carico, l’avrebbero già
fermato. E poi, conoscendo la famiglia, sulla sua onestà ci metto la mano sul
fuoco.”
Partirono da
Borgo Carige con la Panda 4X4 e, dopo un’ora e mezzo, entrarono a Roma
dirigendosi verso il garage sotterraneo di Villa Borghese per parcheggiare
vicino al centro. Lasciata la macchina come una pecorella in mezzo al gregge,
Vittorio si inventò un giochino per ricordarsi il numero di riferimento e
ritrovare l’autovettura. Non voleva ripetere l’esperienza dell’ultima volta,
quando aveva girato per i meandri dell’enorme autorimessa per più di un’ora,
con sconforto ed angoscia sempre crescenti, perché non si ricordava più
l’ubicazione dell’utilitaria. “Veronica, tu tieni a mente: livello due. Kathia:
numero 63. Per me il compito più impegnativo: memorizzo livello due e posto 63.
Così andiamo sul sicuro.” Soddisfatta e tranquillizzata, la famigliola si
concesse un corroborante cappuccino con cornetto a testa, e imboccò spavalda il
sottopassaggio verso piazza di Spagna. L’uscita dal parcheggio coincide con
quella della fermata della Metro, e quindi il tunnel finale convoglia una massa
di varia umanità, vociante e confusa, tutta verso la stessa direzione e
anelante di sbucare fuori dall’oscuro antro. Finalmente i tre rividero la luce
del sole, e furono immediatamente ripagati della fatica del viaggio quando Roma
si presentò ai loro occhi bella e calda come sempre. Il tempo per un’occhiata
alla Barcaccia e per un selfie con alle spalle la scalinata di Trinità dei
Monti, ed in formazione, con avanti le donne ed l’uomo in retroguardia, si avventurarono
a caccia di occasioni per lo shopping. “Seguiamo questo percorso. – annunciò
Kathia, sicura di quello che aveva già programmato- Giù per via Frattina fino
al Corso, poi viuzze varie a caso e quindi ritorno su per via Condotti.” E’
inutile seguire passo passo tutto lo sfiancante peregrinare da una boutique
all’altra, con la costante insoddisfazione della donna ed il crescente
sfinimento del marito, basti dire che, dopo buone tre ore di camminata, ancora
non avevano risolto niente. Il capo perfetto, che avrebbe dovuto vestire la
Kathia in occasione della festa, sembrava non esistesse da nessuna parte. O
meglio, qualcosa andava bene, ma c’era sempre un particolare che impediva
l’acquisto. Potevano essere le maniche, la lunghezza, il colore oppure, spesso,
il prezzo. “Basta! Sono le quattro, non ce la faccio più!” Sbottò Vittorio
esausto. Come aveva intenzione di dire Cristoforo Colombo quando, dopo mesi di
navigazione, ancora non era riuscito a scorgere le coste del Kathay, e che poi
per sua fortuna si rimangiò all’ultimo momento, l’uomo così comandò alla sua
ciurma: “Torniamo!” Kathia, con un sospiro, capì che non poteva tirare
ulteriormente la corda ed acconsentì alla resa. Da largo Goldoni imboccarono
via Condotti per tornare al parcheggio, non mancando di guardare ancora le
vetrine che proponevano tentazioni del tutto al di sopra delle loro possibilità
economiche. “Prima di riprendere la macchina, fermiamoci a bere qualcosa in un
bar.” Propose Veronica, che fin lì aveva sopportato di buon grado il tour de
force solo consolata da qualche pacchettino rimediato nei negozi più “cool”.
Si sedettero
al tavolino di una pasticceria che aveva attirato l’attenzione di Vittorio per
la sontuosa esposizione di dolci e sfizi di ogni genere e ordinarono un piccolo
rinfresco. Mentre stava sorseggiando la sua Diet Coke, Kathia improvvisamente
si alzò in piedi agitando la mano. “Andrea! Ehi, ciao! Guarda chi si rivede.
Vieni, siediti con noi!” “Oh, la Kathia e famiglia. Che piacere! Mi siedo solo
dieci minuti perché devo tornare al lavoro.” La parrucchiera non si lasciò
sfuggire l’occasione per interrogare l’amico sul fatto di cronaca che l’aveva
visto protagonista. “Raccontami un po’, com’è che è andato sto’ furto dal
Cartiere?” Il Ciccolini non poteva sottrarsi a quella legittima curiosità, e
forse voleva anche sfogarsi dopo essere stato tanto sotto pressione. “Beh, è
andato tutto esattamente come avete letto. Non si è riusciti a spiegare come la
vetrina sia stata aperta senza tracce di scasso, visto che le chiavi sono
sempre state in consegna a me. Fatto sta’ che l’anello è sparito. Ti dirò, e lo
dico solo a te che mi conosci da tanto tempo, sono quasi contento che sia
andata così.” “Che intendi?” “Il gioiello in questione era un pezzo unico della
collezione storica della maison. Era un anello in oro e diamanti, con una
pantera in smalto adagiata su uno zaffiro cabochon: un capolavoro! Si dice
fosse stata ordinato, negli anni quaranta, dalla duchessa di Windsor e poi non
ritirato. Certamente la figura del felino fu studiata apposta per la nobildonna
che desiderava indossare un gioiello “animalier”, ma non è certo che quel pezzo
particolare fosse proprio destinato a lei. Comunque io ne ero, diciamo,
innamorato! Tutti i giorni lo guardavo e, dopo tanto tempo, mi sembrava fosse
diventato un po’ mio. Adesso non c’è più, ma tanto non ci sarebbe rimasto ancora
a lungo in negozio. Giusto qualche giorno addietro un cliente arabo l’aveva
acquistato, lasciando una caparra, per poi venirlo a ritirare nel suo prossimo
viaggio a Roma. Quindi non l’avrei più visto, con mio grande dispiacere.” La
Kathia ascoltò il racconto quasi stupita nel vedere l’amico così commosso al
ricordo di quell’oggetto che doveva avere tanto amato. “Che ci vuoi fare?
Vedrai che forse lo ritroveranno o i ladri proporranno un riscatto. E’
difficile ricettare un pezzo così conosciuto da tutti i collezionisti del
mondo.” “Forse hai ragione. Adesso scusami, devo andare. Fatevi abbracciare, e
ci sentiamo presto.” Con queste parole, e con calorose effusioni, Andrea si
alzò dal tavolino e si diresse verso il negozio nel quale lavorava. Anche la
famigliola in trasferta finì le consumazioni e riprese la via per il
parcheggio. “Eccheccavolo! – se ne uscì Vittorio appena fuori dalla portata
delle orecchie del cameriere del bar – Quattro bibite, un po’ di
spilluzzicamenti e due patatine e m’hanno scucito cinquanta euri! Un se po’, maremma
bucaiola!” “Eddai, un ci facciamo riconoscere! E te tu stai nel cuore di Roma,
e che tu ti pretendi? Prossima tappa: via Gramsci per il vestito di
Veronichina.” Ribatté la Kathia con rinnovato vigore.
Qui ci
starebbe tutto un paragrafo con la descrizione di come la famigliola raggiunse
il più antico e rinomato negozio di abbigliamento per bambini e ragazzi di Roma
e, forse, d’Italia. Della maniera in cui furono accolti e serviti da personale
gentile e qualificato. Della meraviglia della madre e della ragazzina di fronte
alle proposte originali, ma classiche, che avrebbero trasformato quella piccola
paesana in una principessa da favola. Della gioia nel consegnare il bancomat
nelle mani del titolare, persona squisita e charmant, per farsi addebitare la
contropartita di un acquisto effettuato con tanta soddisfazione. E, infine,
della gratificazione per essersi lasciati consigliare dall’affascinante e
convincente signora che, con tanta grazia, li aveva accolti ed indirizzati
verso la scelta migliore. Ma non vogliamo indugiare su realtà commerciali che
meritano altre più elegiache descrizioni e che sono ben conosciute da tutta la
clientela più selezionata ed esigente. E se qualcuno ancora non li conoscesse,
peggio per lui e per la sua prole destinata a rientrare nella categoria degli
sciattoni.
Il viaggio di
ritorno sull’Aurelia fu fatto in silenzio. Solo la radio mandava un sottofondo
musicale, nella macchina nessuno parlava. Vittorio, alla guida, era troppo
impegnato ad esercitare la sua forza di volontà nel restare sveglio e vigile al
volante, Veronica aveva indossato le cuffie e immediatamente era volata in
altri mondi e la Kathia era immersa in pensieri tanto profondi ed impegnativi
che il suo volto, solitamente sereno, mostrava un severo cipiglio. La donna riandava
con la mente al colloquio con Andrea e all’articolo letto alla mattina. Non riusciva
a spiegarsi come potesse essere avvenuto quel furto all’apparenza impossibile. Il
suo hobby erano i gialli che aveva letto in quantità industriale e, dopo tanta
esperienza letteraria, si considerava un’esperta detective, anche se in maniera
solo potenziale e teorica. I sospetti che avrebbero potuto compiere il reato
erano pochi, e pareva quasi di trovarsi nello scenario classico degli “enigmi
della porta chiusa” dove non sembravano esserci soluzioni. Fino a quando l’arguto
investigatore di turno, nelle ultime pagine del libro, non chiariva il mistero
all’aiutante che, rilevando come fosse ovvia la spiegazione della vicenda, faceva
l’inevitabile figura del cretino, insieme con il lettore che per tutte le 230
pagine si era fatto abilmente abbindolare dall’autore. Al kilometro 124 della
statale A1, Kathia giunse ad una conclusione, per lei evidente. Arrivata a
casa, sbraitò contro i familiari: “Pensateci da soli alla cena. Io devo
scrivere una mail, non mi disturbate.” Prese il suo tablet e si chiuse in
camera. Telefonò alla signora Ciccolini e, con una scusa, si fece dare l’indirizzo
elettronico del figlio. Poi si sedette comoda, si concentrò e cominciò: “Caro
Andrea, come disse Sir Arthur Conan Doyle, per bocca di Sherlock Holmes, “Eliminato l'impossibile,
ciò che resta, per improbabile che sia, deve essere la verità”. Riferendoci
al furto dell’anello, è impossibile che qualsiasi altra persona possa averlo
compiuto, e quindi il colpevole deve essere il solo che ne abbia avuto la possibilità:
tu. Anche se non vorrei crederlo e mi dispiace molto anche solo pensarlo, non vedo
altre alternative. Ovviamente non posso dimostrarlo, e forse neanche lo vorrei,
come credo che neanche la polizia troverà delle prove. Però tu e la tua
coscienza conoscete la verità. Capisco le tue motivazioni dettate più dal
sentimento che dall’avidità, ma ti prego di riflettere come non valga la pena
per un oggetto, per quanto bello sia, compromettere la propria onestà, il
rispetto verso se stessi e causare, qualora ne venisse a conoscenza, un così
grande dolore a tua madre. Se ho ragione non lo voglio sapere, ma pensaci ed
agisci come farebbe il bravo ragazzo che sei sempre stato.” Chiuse il
portatile, anche se avrebbe potuto aggiungere molte altre righe di rimprovero
ed incoraggiamento, e rimase per svariati minuti seduta al tavolino con lo
sguardo nel vuoto e la mente altrove.
Qualche
giorno dopo la Kathia era nella sua bottega concentrata su una messa in piega
che, come una panna girata dal verso sbagliato, non aveva nessuna intenzione di
montare. “Ma dimmi tu! – esclamo la cliente dalla sua poltrona mentre sfogliava
un giornale – E’ tornato Arsenio Lupin, il ladro gentiluomo. Qui dice che hanno
ritrovato l’anello rubato da Cartier con un biglietto di scuse. Non so se
quello è un bischero o una brava persona. Tu che ne dici, Kathia?” La
parrucchiera non rispose, ma un gran sorriso le si stampò sulla faccia e tutto
il mondo le apparve all’improvviso meraviglioso.
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