Lacrime dal
Paradiso, mentre la mia chitarra piange dolcemente. Sulla banchina del fiume
che lentamente attraversava la città, un giovane vagabondo, o un vecchio hippy,
imbracciava la chitarra affidando al vento una delle due melodie. Il cuore era
sofferente per un amore perso, non importa se rifiutato da una donna o
strappato dal destino. Gli occhi dell’uno, o dell’altro, erano colmi della
disperazione che porta solo alla fine di ogni pena o alla consapevolezza dell’esistenza.
Unicamente lo strumento consolava quello o questo, e che appartenesse a questa
o a quella generazione, aveva poca importanza. Le giovani dita, o quelle
adunche, premevano e accarezzavano le corde dello strumento, e una struggente
melodia rimbalzava da un muraglione all’altro che conteneva il lungo,
indifferente, corso d’acqua. Una voce limpida, o roca, accompagnava la musica,
ma le parole non erano importanti. La lirica poteva significare qualsiasi cosa per
il vagabondo, o per il menestrello, serviva solo cantare e dare sfogo all’emozione.
Cercava, il giovane o il vecchio, non di dimenticare la pena, ma di lenire la
sofferenza, sia pure per qualche vano e sfuggente attimo. Ed ai gorghi ed alle
correnti del falsamente placido spettatore, il musicista, o l’improvvisato
strimpellatore, affidava il suo urlo di sgomento o il suo straziato lamento. Il
fiume ne rimandava l’eco. “Se è vero fiume che tu dai la pace, fiume affatato
fammela trovare.”
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