sabato 17 gennaio 2015

Zingara di labbra scarlatte.




Zingara di labbra scarlatte e unghie nere,
 dimmi: cosa la vita maschera e sorprende?
Carta dei Tarocchi, l’impiccato o la dama velata?
Ruga nella mano, segni il monte della Luna
o graffi gli inciampi e le nefaste croci?
Gemini e Libra, algidi e distanti nel vostro
riverbero, di strali o d’illusione sarò il bersaglio?
Ruota della fortuna, nel giro dell’innocente,
raccogli o deridi il rischio di una speranza?
Il terzo bicchiere contiene la sfera e mai
l’indice vincerà il suo inganno.
Un’altra carta e un’altra mano nella quotidiana
sfida che sorte e destino manovrano sulla nostra vita.




mercoledì 14 gennaio 2015

Chi ha orecchio...

“E’ uno di quei giorni in cui rivedo tutta la mia vita: bilancio che non ho quadrato mai…” La Kathia canticchiava sottovoce la vecchia hit della Vanoni mentre con una mano stendeva la ciocca della signora seduta avanti a lei, e con l’altra dava veloci e mirati colpi di phon.  Il mestiere di parrucchiera le piaceva molto, ma ogni tanto s’assentava con la mente, mettendo il pilota automatico, per i lavori che quotidianamente doveva ripetere. Pensava alla figlia, sull’orlo dell’adolescenza, ovvero sull’orlo del baratro, che incominciava a fare richieste alle quali né lei né, tantomeno, suo marito sapevano come rispondere. Si erano opposti all’acquisto del motorino, tanto in paese non serviva e le era vietato allontanarsi senza essere accompagnata da un genitore. Avevano rintuzzato la smania di indossare sempre i leggings, potevano andare solo in alcune occasioni. C’era stata una scenata apocalittica con grave rischio per le coronarie del povero consorte, quando, per sfida, la piccola aveva annunciato che avrebbe accompagnato ad Orbetello un’amica che si voleva far fare un pircing e anche lei…chissà? Insomma, tutti i giorni la giovane ribelle poneva nuovi ostacoli alla tranquillità domestica inventandosi sempre nuove sfide per fiaccare la resistenza dei parenti che, sebbene appena sulla quarantina, lei vedeva come antiquati e dispotici. Ma non solo la figlia era oggetto di riflessione, anche quel bel tipo del marito che ultimamente, non si sa perché, si era iscritto alla palestra di Magliano. “Ora, innanzi tutto – pensava -  se hai la smania di veder nascere un bicipite laddove c’è un piattume moscetto, puoi andare alla palestra in paese gestita da don Gino nei locali attigui alla canonica: sta dietro casa e non ti costerebbe quasi niente. Poi, la tua massima attività sportiva sono stati sempre, al massimo, i quattro calci al pallone con gli amici, e adesso t’è presa la voglia del “Fittenesse”? Ummmhhh…mi dovrò preoccupare? Vedrai che se continua, io vado, vado, vado…a fare Pilade, no Pilato o come accidenti si chiama quella ginnastica che fa la Bice a Orbetello. Bada bene: due/tre volte a settimana dalle nove alle dieci di sera …m’intendo?” E non solo questi erano i suoi pensieri, fino a quando: “Oh la Kathia, che te tu voi tostarmela a puntino codesta ciocca? I so’ cinque minuti che la stai passando e ripassando. Te tu ti sei addormentata?” La signora Concetta che, a dispetto del nome, era maremmana al cento per cento, richiamò perentoriamente la parrucchiera al suo dovere. “Evvabè, scusa, ma qui c’è un nodo, un lo vedi?” Bluffò Kathia nascondendo la momentanea negligenza.
Era un momento così. Dopo tant’anni di matrimonio, sommati a quelli di fidanzamento, con il Vittorio, suo marito, La Kathia stava passando un periodo di stanca. Non si può sempre vivere con i cuoricini che escono dagli occhi, e la rutine del lavoro sommata a quella della gestione della casa, sembrava Diavolina buttata sulle piccole braci dell’insoddisfazione per farla divampare e bruciare tutto. Lei, a mente fredda, non aveva delle reali ragioni per lamentarsi, ma sentiva che la gabbia della famiglia, del lavoro, del paese e del suo destino l’aveva imprigionata, forse per sempre. Ormai non poteva più avere l’illusione di andare a vivere a “Nova Yorke” o semplicemente a Roma. Doveva abbandonare il sogno di essere protagonista di un amore romantico e travolgente, come in “Vento di Passioni”, ed accontentarsi della realtà.
Un mattino di sole, quando anche Borgo Carige acquistava in bellezza illudendosi di essere Saint Tropez, la Kathia si sedette sulla panchina fuori dal negozio. Approfittando di un momento di pace nel lavoro e lasciando all’Antonella, la sua aiutante, l’incombenza di rispondere ad eventuali telefonate, la parrucchiera si accese con voluttà la seconda sigaretta della giornata all’ombra del vecchio tiglio che riparava dalla calura. Nel silenzio del vicolo di paese, in quell’angolo riparato, le ombre tremolati delle foglie e gli sprazzi di luce creavano un effetto quasi psichedelico che incantava assopendo i sensi. “Ohè, manco fosse hascisce! Se non sto attenta, mi partono i sogni e le fantasie e prendo sta panchina come un’astronave per portarmi sulle stelle”…Pausa…”Ma che bel pensiero! Se quel cinghiale di mio marito conoscesse ‘sto stonfo de poesia che c’ho dentro, vedi come mi terrebbe bona!”
Come in tutte le storie che si rispettino, nel momento nel quale la protagonista è più debole e vulnerabile, arriva il lupo cattivo. In questo caso portava la divisa. Il maresciallo Viglietti, originario di Cava dei Tirreni e comandato alla Stazione di Capalbio, aveva da tempo monitorato il territorio facendo uno screening di appetibilità muliebre e redigendo un personale rapporto di abbordabilità a fini personali e non di servizio. Trentacinque anni, capelli neri gellati all’indietro, trentadue denti bianchi esibiti il più spesso possibile, sottotacchi di cinque centimetri a nascondere il suo unico deficit, si sentiva un tomber de femme o, nel suo dialetto, un vero e proprio “sciupafemmine”. La Kathia non era nella prima fascia di obiettivi, nella quale primeggiava la figlia della tabaccaia: venticinque anni di coscia lunga ed occhioni vellutati, ma aveva un che di “sfriccicoso” e quell’aria di “usato garantito” che era forse maggiormente appetibile dell’acerba giovinezza. Quella mattina dopo aver sorbito un caffè che, a suo giudizio, meglio si poteva definire come “ciofeca”, il carabiniere decise di fermare la sua ronda presso il negozio della parrucchiera. In una piccola Stazione spesso si esce da soli e, quindi, il graduato non doveva rendere conto a nessuno delle sue soste, anche in orario di servizio. “Nu babà dint na coppa ‘e rose…Sfruculiosa comm a te nun ci sta nisciun…” Era ovvio il significato, ma Kathia fece finta di non aver capito. “Maresciallo, qual buon vento ti porta da queste parti?” Per carità verso Vittorio, non diremo che tali parole furono accompagnate da un frenetico sbattere di ciglia, dallo stringersi nelle spalle in pudico atteggiamento e dal tono di voce alla Minnie quando flirta con Topolino.  “Ero di pattuglia per un importante servizio antiterrorismo – bugia!! – ma non potevo non fermarmi a salutare la più bella parrucchiera della Costa d’Argento.” Come sono stupide le donne – N.d.A. – a non capire lo sporco gioco dei Don Giovanni (o fanno finta di non capirlo?). “Ma và! Lascia perdere i complimenti, che lo sanno tutti che ti sei perso dietro quella ninfetta della tabaccaia. Dai, siediti qui e raccontami gli ultimi efferati delitti di cui ti stai occupando.” “Bella e perspicace – ribatté il militare – In realtà c’è un delitto sul quale stiamo investigando.””Racconta.” Il Maresciallo si mise comodo, per quanto le assi della panchina lo consentissero, e si accinse a narrare le proprie audaci avventure aggiungendo un fiocco qua e là, giusto per rendere la storia più interessante. Il passante, estraneo ed obiettivo, che casualmente fosse transitato vicino alla coppia durante la conversazione, non avrebbe faticato a notare che nel racconto c’erano più fiocchi che realtà, ma non passò nessuno. “Mi trovavo comandato…- si accorse subito di aver esordito con un tono troppo burocratico, e ricominciò – Ero solo a gestire la postazione della Beneamata quando, qualche giorno fa, ricevetti una chiamata. Lasciai cadere sulla mia grande scrivania dirigenziale le cartelline aperte sulle indagini a proposito delle Brigate Rosse, del Mostro di Firenze e sull’intreccio della CIA con i Servizi Segreti nord coreani, e ascoltai con attenzione la voce disperata di una donna che implorava il mio aiuto.” Se si dovesse riportare fedelmente tutta la immaginosa pappardella che il Viglietti imbastì per far colpo sulla Kathia, non basterebbe una risma di carta. La donna ascoltava divertita e leggermente affascinata più dalla fantasia del carabiniere che dal carisma dell’uomo. Coglieva, distrattamente, una frase qua e là mentre si domandava come facesse quel degno erede di Pulcinella a muovere tutti i muscoli facciali, dalle sopracciglia alle orecchie. “…e quindi, che t’aggia a dicere, constatai il decesso per strangolamento di tale Marinella Cimbula.” La Kathia si riscosse: quel nome lo conosceva. Immaginando di essere Sophia Lorèn con Vittorio de Sica, non seppe trattenersi da interrompere l’interlocutore in questa maniera: “Tuppe, tuppe, Marescià. Fermati un momento. Mi sa che quella ragazza era mia cliente.” “O’ vero?” “Sissignore – i fianchi fremevano per esibirsi in una “mossa” da sciantosa che però venne repressa. – Aveva telefonato tre o quattro giorni fa per prenotare un taglio e colore e, ricordo, ebbi qualche esitazione nel darle l’appuntamento perché ero piena di gente.” “Poi venne da te?” “Si, in qualche modo la incastrai tra una ragazza per gli shiatush e quella signora cieca che viene regolarmente a farsi sistemare.” “Interessante” Disse il militare per lusingare con la propria attenzione la parrucchiera, anche se pensava il contrario. “Ma, raccontami, com’era la scena del delitto?” chiese Kathia. “Ti dicevo che fui chiamato da una amica della vittima che era andata a farle visita. La donna, trovando la porta della villetta aperta, aveva provato a premere il campanello. Dal mancato suono, e dall’oscurità all’interno, si rese subito conto che nell’abitazione mancava l’energia elettrica. Provò a bussare e dopo entrò cautamente, per poi scappare urlando quando vide la Cimbula stesa a terra con un laccio al collo, chiaramente morta.”  “Quindi?” “Siamo intervenuti e abbiamo rilevato come fosse stato provocato un corto circuito dall’esterno e, pertanto, sembra che il delitto sia stato commesso al buio. La cosa ci lascia perplessi e non siamo ancora riusciti a ricostruire esattamente la dinamica dei fatti.” In quel momento un richiamo venne dall’interno del negozio. “Kathia, c’è il tu marito al telefono – urlò l’Antonella – che gli devo dire, che sei occupata con…” “Oh, te sei proprio grulla, ma grulla tanto! Arrivo, ciao marescià!” La parrucchiera congedò in questo modo il carabiniere per andare a parlare con Vittorio. Fu particolarmente carina e gentile al telefono, come per farsi perdonare…niente.
Perché si ricordava di quella donna, la vittima, anche se non era una cliente abituale? La Kathia non riusciva a prendere sonno e si rivoltava nelle coperte con la ritmica compagnia del sommesso russare del marito. Si rivide mentre la faceva sedere sulla poltrona avvicinando la bacinella per fare lo shampoo. Poi, come sempre, annodò il telo intorno al collo e, delicatamente, le premette sulla fronte per accompagnare la testa verso l’acqua. Ecco cosa le fece impressione. Rovesciando il capo all’indietro, e bagnando i capelli, la Kathia aveva notato le lunghe cicatrici tutt’intorno l’attaccatura e ancora dietro le orecchie. Si era incuriosita e, osservando meglio, fece caso ai rigonfiamenti sugli zigomi ed alla strana forma del mento. In quel momento aveva pensato a come fossero stupide le donne a sottoporsi a tanti interventi di plastica facciale solo per sembrare più belle, e che lei non lo avrebbe fatto mai. Proprio questa riflessione le rimase impressa, con la fisionomia della cliente.
La Mattina dopo, sul presto, la parrucchiera lanciò la sua Panda 4X4 sui tornati della salita verso Capalbio e, parcheggiando alla bell’e meglio accanto alla pupazza della fontana, si attaccò al campanello della Stazione dei Carabinieri. Venne ad aprire proprio il maresciallo, un po’ sciupato a quell’ora. “Ohee, una stella di mattina: che cosa ecceziunala! Dopo che ti avrò offerto un caffè, fatto con la macchinetta che mi sono portato da casa, mi dirai a che devo l’onore di questa visita.” “Viglietti, non è il momento di scherzare!” “E’ successo qualcosa?” chiese il militare improvvisamente diventato serio ed allarmato dall’espressione dell’amica. “No, niente, io sto bene, ma devi dirmi una cosa.” “Se posso…” “La donna trovata morta era una collaboratrice di giustizia?” “Ma come…si, hai indovinato, ma adesso mi devi spiegare come l’hai capito e perché ti interessa.” Un sorriso si stese sul volto di Kathia, fiera di aver verificato l’ipotesi che aveva immaginato durante la notte. “Non solo questo – rispose – ma ti dirò anche chi l’ha uccisa.” “L’hai letto nei fondi del caffè?” “No, caro mio, ho solo osservato, riflettuto e, quindi, dedotto.” “Sentiamo.” “Quando venne da me a farsi lavare i capelli, notai le cicatrici della Cimbula che erano l’evidente indicazione di una pesante plastica facciale. Unite agli altri segni significavano che la donna aveva voluto cambiare completamente e radicalmente la sua fisionomia. Questo era eccessivo per compiacere la propria vanità. Stava ad indicare solamente una cosa: che voleva nascondersi cambiando faccia!” “Vai avanti.” “Allora ho capito che doveva trattarsi di una ex terrorista, o qualcosa del genere, che si nascondeva dai suoi passati complici e dalle loro vittime. Ma c’è una cosa che non aveva pensato di modificare: la voce.” “Embè?” “Accanto a lei era seduta quella mia cliente cieca e, come saprai, i non vedenti hanno un orecchio particolarmente fino. Ecco, io penso che la cieca abbia riconosciuto la Cimbula dalla voce e, sentendola, abbia rivisto l’assassina di un figlio o di una persona cara, che magari aveva udito deporre in tribunale. A questo punto sia riuscita, non so come, ad entrare nella villetta della vittima staccando la corrente, forse aiutata da un complice. Poi, nascosta al buio dentro la casa, quando entrò la vittima spaesata dall’oscurità, le sia saltata addosso e, con la forza dell’odio covato per tanto tempo, l’abbia strangolata.” Silenzio. La mascella del maresciallo era crollata in un’espressione che ricordava quella di una cernia stupita. “Beh – disse il carabiniere quando si fu ripreso – la ricostruzione è fantasiosa, ma plausibile, anche se presenta alcuni punti da chiarire. In questo caso direi…ancora oscuri (risatina), ma merita di essere verificata.” Il rappresentante delle forze dell’ordine si sentì richiamato al suo dovere e congedò rapidamente l’amica mettendosi alacremente al lavoro per le opportune verifiche.
Qualche giorno dopo “Il Tirreno” strillò così: “Il Delitto della Cieca – svelato il mistero dell’assassinio della ex terrorista – Le Autorità ringraziano una solerte cittadina per la collaborazione fornita alle indagini.” La Kathia, all’ombra del tiglio sulla panchina di fronte al negozio, inalberava un bel sorriso di soddisfazione con accanto le dieci copie del quotidiano che aveva comprato per ricordo e per compiacersi di come fosse venuta carina nella foto in cronaca.


  

mercoledì 7 gennaio 2015

Ciao, sono io.

“Stefano, c’è una chiamata per te.” Il barman mi chiamò in stanza per annunciarmi una telefonata che, non ricordo per quale ragione, non poteva essere passata. La Villa dei Pini era un vecchio albergo di Fregene dove trascorrevo le mie vacanza estive nel quale mia madre prenotava una stanza per tutto il mese di agosto e mi lasciava, solo, fidando che i proprietari ed il personale, che mi conoscevano dalla nascita, avrebbero, in qualche modo, vegliato su di me. Ovviamente non era così ed io, forte dell’esperienza dei miei quindici anni, gestivo goduriosamente la mia beata indipendenza. Alla mattina, colazione in camera (doppio cornetto) se riuscivo a svegliarmi prima delle dieci e trenta, poi al mare col motorino, da Toni o all’Albos, a trovare gli amici fino alle due quando, avendo a disposizione la pensione completa, tornavo nel ristorante dell’albergo. Sotto i pini e con un giornaletto per compagnia, spiluccavo una fettuccina, piuttosto che la cotoletta, per finire con un’ombra di crostata. Ricca siesta fino alle cinque quando tornavo al mare per bagni e pallavolo fino al tramonto. I gestori del Tirreno ancora ricordano un gruppo di ragazzi, tra i quali spiccava un acerbo emulo di Gigi Rizzi, vestito con aderenti pantaloni bianchi a zampa, camicia di seta e collana d’argento con decine di amuleti e pendagli, che si presentavano nel night quasi tutte le sere verso la mezzanotte per ascoltare la musica, ballare un po’, e (essendo scattata la prescrizione, lo si può confessare) dividersi una boccia di whisky. Volendo pignoleggiare, e per onestà intellettuale, il Rizzi, che all’epoca essendo fidanzato con Brigitte Bardot era l’eroe nazionale, aveva un fisico leggermente più asciutto di me, ma lo sentivo fratello nelle comuni aspirazioni di vita. Insomma: una vitaccia. Manca l’altra metà del cielo, ovvero le ragazze che, a quell’età con un flipper di ormoni in costante rischio di tilt, occupavano, se non il tempo, certamente gran parte delle fantasie dei maschietti. Per quanto mi riguarda ero…non so come dire: fidanzato è troppo, impegnato mi sembra impegnativo, promesso non si può sentire…diciamo coinvolto da una dolce, bionda, tenera, a volte impertinente, piccola quattordicenne che però trascorreva le vacanze in un’altra località balneare con i genitori. Per grazia di Dio, oltre ai segnali di fumo, non esisteva altro modo per tenersi in contatto che il telefono, senza la disgraziata schiavitù della costante reperibilità imposta dai moderni cellulari. Per questo con la mia…non so come dire: ragazza non ancora, bambina mi sa di perverso, donna non si può sentire…diciamo piccolo amore le comunicazioni erano sporadiche e dovevamo indovinare il momento nel quale entrambi eravamo disponibili e nei pressi di un apparecchio telefonico. Quella sera ricordo che avevo appena domato con il phon, la mia vivace e ribelle chioma che non intendeva adeguarsi alla moda dei capelli lisci, che ricevetti la sua telefonata. “Pronto, sei tu?” “Si, sono io, ti chiamo da Anzio.” “Come stai…” e così via, entrambi timorosi di dimostrare a parole il reciproco interesse e con lo strano pudore tanto contrastante con la spavalderia dell’età. Anche il grande e millenario ulivo è germogliato nascendo da un piccolo seme piantato con cura o portato dal vento del destino, fatto sta che sono passati quaranta e più anni e ancora ci diciamo: “Come stai…” 

lunedì 5 gennaio 2015

Il conte Vorolinsky

Il conte Vorolinsky fissava lo stoppino ardente della candela posata sul suo tavolo, estraneo ed indifferente a quanto accadeva a lui d’intorno. Nel grande salone del Palazzo d’Inverno era in pieno svolgimento il ballo dato dal Pincipe Niejevsky in occasione del genetliaco della consorte, e coppie di dame e cavalieri volteggiavano leggiadri sulle note delle musiche di Strauss. Tutto sarebbe potuto accadere, ma il giovane gentiluomo, perso nei suoi pensieri e mesmerizzato dal tremolio della piccola fiamma, non avrebbe mosso un muscolo né mutato l’espressione del nobile volto. Troppo era il tumulto della sua anima e grandi preoccupazioni, miste a languidi rimpianti, creavano un vortice di sentimenti ed emozioni tanto contrastanti quanto intensi. Era stato richiamato per raggiungere il Primo Reggimento Ussari di stanza ad Uppsala nei pressi del confine prussiano. La guerra sembrava inevitabile e tutte le risorse di uomini e mezzi erano state mobilitate per difendere gli interessi di Santa Madre Russia. Il conte non aveva certo l’intenzione di sottrarsi ai suoi doveri né, tantomeno, di mostrarsi men che degno rispetto alla devozione patria da sempre dimostrata dai membri della sua casata, ma la convocazione significava che avrebbe dovuto allontanarsi da Mosca per un tempo indeterminato e difficilmente prevedibile. In qualsiasi altro momento della sua ancor giovane vita sarebbe stato entusiasta di partire e, a parte il comprensibile timore di subire il battesimo del fuoco, si sarebbe unito ai compagni d’arme con tutto l’ardore e lo slancio dettati dalla nuova avventura e dall’orgoglio di servire lo Tzar, ma non adesso. Allontanarsi dalla città avrebbe significato non poter combattere una battaglia che per lui era importante quanto quella contro il nemico, se non di più. “Caro Nikolaj, vi vedo assorto e pensieroso. Cos’è un po’ di timore in vista di unirvi alle truppe, o già sentite la mancanza degli agi di palazzo?” Il giovane, a quelle parole, alzò di scatto il volto pronto a dimostrare, anche coi fatti se necessario, come fosse offensiva tale insinuazione. Poi riconobbe il suo più caro e vecchio amico che certamente non aveva intenzione di provocalo, ma solo di dileggiarlo un pochino. “Andrej Grigorievich Dobronin, se non vi avessi caro come sapete, sareste già a terra con il naso rotto. Ritenetevi fortunato, ma non mi provocate. Anche perché, specialmente oggi, non sono di certo dell’umore più adatto ai lazzi.” “Cosa vi angustia – chiese il nuovo arrivato, cedendo l’aria goliardica, con reale interesse nelle vicende dell’amico – raramente vi ho visto tanto ombroso. Vi sono nuove che vi tormentano?” Un gran sospiro uscì dalla bocca del conte che sfogava in tal maniera la pena in sé repressa. “Ditemi, dunque!” “Ebbene, vecchio mio, se andrete a cercare una bottiglia di vodka che possa prendere il posto di quella desolatamente arida che ho davanti e, con la vostra abituale solerzia, la porterete qui, mi permetterò di chiedere in prestito la vostra spalla a sostegno delle mie lamentazioni.” “Ritengo che mai missione fu a miglior scopo giustificata. Sarò di ritorno immantinente con il consolante nettare.” Dopo pochi minuti, i due amici, scintillanti nella loro uniformi di gala, ma con aria tutt’altro che fiera, sedevano insieme al tavolo dove, per prima cosa, si impegnarono a non far rimanere mai vuoti i rispettivi calici. “Vi dirò – cominciò Vorolinsky – avevo in mano il messaggio che il Colonnello Turgeniev aveva fatto recapitare a me, come a tutti gli altri, per l’adunata di raggruppamento del Reggimento, quando il mio servitore entrò con un vassoio d’argento in mano. Sul lucido metallo spiccava l’inconfondibile busta rosa che indicava come la missiva avesse la fortuna di appartenere alla più amabile giovane signora che mai fosse nata. Non potevo sbagliarmi: era una comunicazione della cara Olga Iljechevna. Lasciai cadere, in maniera alquanto irrispettosa, la precedente comunicazione ed afferrai il delicato involucro dei pensieri della mia amata. Strappai ansiosamente il sigillo in ceralacca raffigurante un’edera, e lessi le parole che, più ancora del Fato, avrebbero governato il mio destino.” Cosa vi era vergato? Non tenetemi sui carboni ardenti, orsù confidatevi!” “Non crederete come poche, semplici, sillabe tracciate dal pennino di una piuma che una incolpevole oca magnanimamente cedette, possano avere la forza di mille proietti di spingarda. Colei che Venere invidierebbe, Minerva ammirerebbe e Diana emulerebbe, si espresse con queste testuali parole: “Abbello!! Si te ne vai, nun te posso assicurà gnente. Sai che er pischello che vedo ogni tanto mi batte i pezzi, nun so se m’aregge di mandarlo in bianco. Vedi un po’ tu se t’attizza più d’annà alla guera, o si sei der parere che ogni lasciata è perza. Famme sapè, sinnò si nun te vedo, poi m’aregolo da per me. Basscciii.” Andrej non represse un moto di stupore: “Orbene, quale significato ed in che idioma si esprime la donzella? E’ forse originaria degli Urali o proviene dalla remota Siberia, dacchè non la riesco ad intendere?” “Non saprei, in realtà. Anche per me è tutto di criptico intendere. Interrogai gli istitutori ed il Pope, ma nessuno seppe interpretare la missiva. Poi, non so per quale divina illuminazione, ebbi l’dea di interpellare il mugik ordinandogli di leggere, senza toccare, quelle ermetiche espressioni. Il servo è cresciuto a palazzo ed, unico fra i paria, ha imparato i rudimenti del cirillico.” “Concludi.” “Il compendio è nel darmi un ultimatum tra il vigliaccamente restare e l’alea di non rivederla. Al ché lo sozzo villano mi suggerì di rispondere in tal guisa: “Ah ciccia, nun me sfruculià, che nun c’è trippa pe’ gatti. Se voi, m’aspetti, sinnò: m’arimbalza! Bella, Olghè…!” Adesso il mio arrovellare è se far mia tale istanza oppure no. Cosa ne pensi, caro amico?” Il gagliardo Ussaro, ristette pensoso e, dopo aver cogitato si espresse in maniera definitiva e chiaramente esplicativa con un sonoro: “Boscio!!!”  

domenica 4 gennaio 2015

Urlo in silenzio.

Urlo in silenzio e ringhio dentro di me.
Voglio sbattere contro la notte, imprecare verso le stelle,
mordere la paura, colpire il destino.
Correre, fremere, gridare, prendermela con qualcuno.
Provoco Dio che, nascosto dietro la luna, sfugge ai miei tormenti.
Cerco la fiamma purificatrice e la consolazione del pianto.
Mi guardo e mi sfido: so di trovare in me il mio nemico.
Catarsi o speranza, lotta o abbandono, volontà tirata con i denti.
Oblio consolatorio, in attesa che la notte torni amica mentre
strappo i rancidi demoni aggrappati alla mia anima.