A me
sembrava che mio nonno non si muovesse mai dalla sedia. Quando uscivo la
mattina per andare a prendere il bus che mi portava a scuola, lo vedevo
dondolarsi piano, con lo sguardo perso verso l’infinito, nell’angolo del
piccolo pergolato fuori dalla porta di casa. Lo ritrovavo nella stessa
posizione quando tornavo nel tardo pomeriggio. Dentro mia madre cucinava,
puliva e si dava da fare nelle faccende a volte cantando e spesso imprecando
contro il caldo, la vita, le mosche e quant’altro le venisse in mente per
sfogare l’insoddisfazione del suo destino. Mio padre lavorava nei campi e
talvolta tornava per pranzo, nelle ore più calde, per togliersi da sotto il
sole e chiudere gli occhi bruciati dal riverbero e dalla polvere. Ogni tanto si
ricordavano di nonno e gli portavano una limonata o gli chiedevano come stava.
Ma la maggior parte del tempo il vecchio lo passava da solo confinato sulla
poltroncina e perso nei suoi pensieri. Sembrava avesse abbandonato lungo la
strada dell’esistenza ogni amico potesse avere avuto, e che tutti gli anni
passati gli avessero lasciato solo il segno di mille rughe e tante cicatrici
nell’anima. Per me, che avevo solo una decina di anni, era una presenza
scontata, quasi come un vecchio gatto, accoccolato sulla terrazza, che ogni
tanto ti guarda di sottecchi facendoti capire che lui sa già tutto, anche
quello che hai intenzione di pensare. Era proprio questa impenetrabilità che mi
affascinava e che sentivo come una sfida per riuscire a scuoterlo e togliergli
quella strana aria triste che non riuscivo proprio a comprendere. Dopo cena i
miei genitori si sedevano su due vecchie poltrone a fiori vivaci, intorno ad
una grande radio a valvole che, prima di accendersi, doveva scaldarsi, e forse
decidere se concedersi, e poi metteva in comunicazione con un mondo che noi
tutti supponevamo esistesse al di là dei campi di mais e del grande fiume. C’era
il notiziario che parlava di quello che succedeva a Montgomery e nelle altre
città dell’Alabama, trasmetteva le notizie nazionali e le ultime sul baseball. Ma
era tutto molto sfumato, come in una favola, a volte bella ed a volte brutta,
che nessuno sa se corrisponde alla realtà. Nonno si alzava per mettersi a
tavola con noi e consumava una grossa tazza con latte e pane raffermo,
scambiava quattro parole sulla salute e sul tempo e poi, dopo aver lavato la
sua ciotola nel lavello della cucina, tornava fuori, nella notte e sul suo
dondolo. Si concedeva l’unica pipata del giorno accendendo con cura un vecchio fornello
di spuma bianca raffigurante la polena di una nave nella quale, forse, un tempo
era andato per mare. A volte portava con se una chitarra che si reggeva insieme
a malapena. La cassa era scolorita e le chiavi lente non riuscivano a tenere l’incordatura.
C’era un buco di troppo sotto le corde e graffiti senza senso tranne uno,
grande, che urlava “Lucy”. Io lo guardavo sperando di sentirlo suonare, ma lui
teneva abbracciato lo strumento come un vecchio pupazzo e solo ogni tanto
pizzicava una corda lasciando vibrare la nota nel silenzio della notte. Un
giorno, con l’innocente cattiveria dei bambini, lo volli, in qualche modo,
provocare. “Che te lo tieni a fare quel pezzo di legno se non sai suonare
niente?” Gli chiesi, sedendo sul gradino accanto a lui ed indicando lo strumento.
Il vecchio mi guardò con dolci ed antichi occhi dove era passata una vita di
tanta sofferenza e poca gioia. Non si offese, capendo come cercassi di
stuzzicare il vecchio leone per provocare un ruggito testimone di una lontana
giovinezza. “Sai, nipote mio, questa non è una chitarra.” “Ma và! Lo vedo che è
una chitarra. Cos’è se no?” “E’ una scatola, o meglio un baule che contiene
tante cose.” Mi veniva da ridere per le bugie che stavo sentendo. “Non è vero:
lo vedo dal buco che non c’è niente!” “Eppure, ti assicuro che questo legno
contiene di più di tutti gli armadi e le valigie di mamma.” Non è vero! –
ripetei – Allora fammelo vedere!” Nonno sollevò la schiena, racchiuse le dita
contorte e deformate sul manico, e carezzò la vecchia amica. Stette un momento
immobile e poi ritmò un Mi, un La ed un SI in battute di quattro quarti. La
chitarra pianse ed urlò, accompagnando la voce rauca del vecchio. Dalla musica
e dalle parole uscì tutta la pena di una vita e tutte le vite di quanti avevano
pianto quel dolore. Cantò l’amore, per una donna o per Dio, ed il rimpianto di
un addio o l’attesa di un incontro. E poi, la speranza, la fede, la
disperazione ed il coraggio. Il cuore, lo stomaco, la rabbia ed il sangue. Ed allora
due grandi braccia mi presero trasmettendomi l’emozione, la consolazione e la
gioia. Era un Blues.
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