giovedì 25 settembre 2014

A mio nipote



Piccolo Uomo, il tuo broncio, il dito puntato.
Quando stai nell’acqua, nuota e, mentre fai le bracciate, schiaffeggia, scalcia, sputa: non darla vinta al mare. Poi lasciati andare, fatti cullare dai flutti, avvolgere dal liquido salmastro. E ancora, gioca. Vai sotto, torna su, sfida le onde, ma sempre con rispetto e consapevole delle tue forze. Imparerai a nuotare come un pesce, ma non fidarti. In profondità, può esserci un nemico che vuole morderti, quell’isola che vedi all’orizzonte può essere al di là delle tue possibilità. Impara a valutare prima di tutto te stesso e poi quello che ti circonda. Se vedi un amico in difficoltà, aiutalo: il mare può essere infido e la mano che tendi in quel momento sarà un anello della catena che ti tiene a galla. Un cavallone improvviso potrà mandarti sotto e farti bere un po’, ma se terrai gli occhi aperti, nel fondale scoprirai un nuovo meraviglioso mondo. Non finire mai di stupirti, ci sarà sempre una creatura che ancora non conosci o un carosello di colori che ti inebrierà. Quando prenderai una barca e remerai verso la tua destinazione, porta con te poche cose, ma non dimenticare l’amore. Sappi che è qualcosa che non finisce mai e più ne distribuirai, più ne potrai raccogliere. Vedrai come a riva devi trascinare il tuo peso, ma nell’oceano dei sogni, delle speranze e, forse, delle illusioni, si vola! Non sei un pesciolino, dovrai uscire, riemergere ed abbandonare quell’abbraccio di lapislazzulo, ma capirai che non puoi godere di un momento di leggerezza se non sei disposto a versare tanto sudore per viverlo.

“Nonno, oggi ho fatto la mia prima lezione in piscina, con i bracciali e la cuffietta. Perché mi dici tutte queste cose?” “Sai, il mare e la vita sono la stessa cosa. Ricordati, se vuoi, di queste parole e l’orizzonte non chiuderà il tuo sguardo.”

venerdì 12 settembre 2014

Ritorno a Casa


Prese un lungo respiro ed, alzando gli occhi al cielo, intonò il finale dell’aria più conosciuta dell’opera “Gianni Schicchi” del Maestro Puccini. Non doveva essere cantata con un’estensione piena, ma anzi, dopo gli acuti ed i virtuosismi precedenti, l’ultimo andamento richiedeva una flebile ed espressiva modulazione, sufficiente però a farsi udire anche dall’ultima fila della platea. “Babbo pietà, pietà…” Rapita dall’interpretazione, tenne la nota finale anche oltre l’accompagnamento dell’orchestra. Nella grande sala da concerto, la voce rimase sospesa, quasi fisicamente galleggiando sopra le teste degli ascoltatori. Poi finalmente si spense. La cantante prima lanciò uno sguardo implorante verso l’immaginario padre, e poi chinò il capo cingendosi il petto con le braccia, nell’atteggiamento di umile supplica e rassegnata accettazione del fato che il suo personaggio richiedeva. Grazie alla musica, ed alla voce angelica della soprano, si creò improvvisamente un’atmosfera irreale e cadde un silenzio nel quale sembrava che tutti stessero immobili, addirittura trattenendo il fiato, per la paura di rompere l’incantesimo ed uscire dal sogno. Durò non più di pochi secondi, ma sembrava che, per quel periodo, il tempo si fosse fermato. Il meno sensibile, o forse il più entusiasta, degli spettatori si riscosse per primo e batté forte le mani svegliando dalla trance chi gli sedeva intorno. A lui si unirono calorosamente gli altri che, alzandosi in piedi, tributarono un’entusiastica e lunga ovazione all’artista sul palco. Anche dal golfo mistico gli orchestrali batterono sugli strumenti riconoscendo l’eccezionalità dell’esecuzione.
Tittel Nyserom, solo Tittel per il mondo intero nel quale aveva venduto più di sei milioni di dischi, lasciò il proscenio ritirandosi tra le quinte dove un solerte assistente, le coprì le spalle con l’accappatoio accompagnandola nel camerino. Era all’apice della carriera. A trentott’anni, dopo tanto studio e gavetta, poteva dire di essersi affermata come una delle soprano più dotate ed amate sulla scena musicale internazionale. Oltre alla lirica ed ai recital, si cimentava con brani tratti da commedie musicali e con classici della canzone, spesso duettando con altri suoi celebri colleghi. Una delle ragioni del grande successo era che alle indubbie doti vocali si univano una grazia ed una sensibilità innata, arricchendo le sue interpretazioni con una magnetica presenza scenica. Nella Chiesa Presbiteriana di Bergen, la cittadina di pescatori affacciata sul Mare di Norvegia dove era nata, ricordavano come si distinguesse la sua folta chioma castana nel coro delle sue compagne tutte inevitabilmente bionde platino. I grandi occhi scuri, vivaci ed espressivi, donavano un fascino particolare allo sguardo della ragazzina con la bella voce. Anche il carattere aperto e socievole, contribuiva a metterla in evidenza, facendo asserire a molti che la figlia di Björn sarebbe stata sicuramente destinata a grandi cose. Vivendo nella provincia di un Paese nel quale la natura è rispettata, amata e vissuta come parte integrante della vita, praticava molti sport all’aria aperta e, fin da piccola, si era cimentata nello sci, con l’escursionismo ed in ogni tipo di attività che avevano modellato il suo fisico donandole una avvenenza asciutta e tonica. Cosa poteva volere di più dalla vita? Bellezza, talento, successo, fama e ricchezza erano piovute su di lei come se il Creatore avesse voluto scegliere un esemplare dell’umanità a caso e gli avesse infuso una scheggia di divinità. Eppure Tittel sentiva di essere afflitta da quella malattia che tormentava molta parte della popolazione scandinava, all’apparenza tanto serena. Quando si spengevano le luci della ribalta ed il pubblico lasciava il teatro, o quando si ritrovava in camerino con ancora nelle orecchie l’eco degli applausi, l’assaliva una grande onda di riflusso. Tutto le sembrava vano e senza significato. I sorrisi e le acclamazioni di quanti la circondavano, apparivano falsi e superficiali, rivolti all’interprete, ma non alla donna. Gli abbracci, le congratulazioni, i complimenti mettevano sempre in risalto la sua bravura, esaltando la dote di una voce fuori del comune che lei aveva avuto il solo merito di educare, ma che si era ritrovata come un meraviglioso ed immeritato dono naturale. Aveva la sensazione di essere il contenitore di quella voce che aveva la responsabilità di curare e far conoscere al pubblico più vasto possibile. Ma se l’involucro esterno fosse stato un altro, ovvero quella voce fosse appartenuta ad un’altra persona, lei sarebbe svanita per tutti senza essere rimpianta da nessuno. Si sentiva sola. La solitudine: la grande bestia, feroce ed infida, che saltava sulle spalle di molti suoi connazionali e che anche lei sentiva tanto spesso in agguato negli angoli delle stanze d’hotel o mentre saliva in prima classe, sull’ennesimo aereo, verso il prossimo spettacolo. Non aveva ancora imparato a combatterla. Per rincorrere il successo, vedeva la sua famiglia sempre più di rado e gli amici dell’infanzia erano rimasti in contatto solo con i biglietti natalizi o in qualche improvvisata e frettolosa visita a Bergen. Talvolta si era fatta accompagnate in tournée dal padre o, più raramente, dalla madre, ma il genitore era un vecchio pescatore che amava solo la musica celtica e le ballate tradizionali e, anche se non si lamentava mai, si vedeva chiaramente quanto fosse infastidito da tutto quel circo intorno alla figlia. Un’altra esperienza negativa fu quando, pensando di fare una cosa gradita e con tutto l’affettuoso entusiasmo possibile, invitò la sua più cara compagna d’infanzia a seguirla per alcune date in Nord America. A parte la complicazione di far staccare Solveig, l’amica, dai bambini e dal marito ed i relativi quasi insormontabili problemi organizzativi, per tutto il viaggio si erano sentite ambedue a disagio tra loro. Non erano riuscite a ricreare l’antica complicità e la confidenza che le univa da ragazzine. La ricchezza di Tittel, con la conseguente frequentazione dei migliori alberghi e ristoranti, e la costante adulazione dalla quale era circondata, mettevano Solveig perennemente a disagio, sottolineando la sua aria da sempliciotta. Era quello che la cantante non avrebbe certamente voluto, ma non poteva sottrarsi alla sua vita, spesso per lei organizzata da altri, anche se aveva cercato in tutte le maniere di coinvolgere l’amica. Dopo quella volta, non ripeté l’invito, non perché non ne sarebbe stata felice, ma per lasciare intatta la loro amicizia, almeno nel ricordo dei tempi passati. 
Fino a poco tempo prima, aveva sperato di incontrare l’Uomo Per Lei. Quel mitologico essere che le favole dicono esista per ogni giovane donna abbia la voglia di cercarlo. Ma tante avventure, spesso frettolose ed insoddisfacenti, qualche breve relazione, inevitabilmente finita con una delusione, e decine di persone incontrate e subito dimenticate, l’avevano convinta a riporre nel cofanetto delle illusioni il sogno di trovare un compagno.
Così, al goccetto che prendeva prima delle esibizioni per darsi coraggio, poi aggiunse un altro shot per sollevarsi dall’umore malmostoso, e quindi, per una necessità che divenne piacere, la bottiglia si trovò ad essere una compagna inseparabile e la sua migliore amica. Anche i ripetuti dischi d’oro, vedere il suo viso il suo viso sui manifesti fuori dal Covent Garden o dall’Opera di Parigi e qualche sporadico shopping compulsivo, non riuscivano più ad emozionarla come prima. Il dolce ed aperto sorriso che ancora, a volte, le illuminava il viso, non era più in grado di nascondere l’ombra di tristezza che ormai costantemente aleggiava nella sua anima. Il sonno arrivava sempre più tardi nella notte e, se non era accompagnato da una buone dose di alcol, rischiava di essere solo un susseguirsi di incubi e frequenti bruschi risvegli, col risultato di lasciarla stanca e di cattivo umore per tutta la giornata successiva. Lo stordimento, che pochi bicchieri avevano il potere di donare, era una benedetta panacea che induceva all’oblio e traghettava verso un nuovo giorno guadando i fiumi ribollenti di insoddisfazione e rimpianto che ogni notte doveva affrontare. Al mattino, si dava della pazza e ingrata per non avere la capacità di godere appieno i privilegi che il fato le aveva riservato, e chiedeva perdono a Dio per la bestemmia della sua infelicità. A volte si malediceva la voce per averla portata lontano dalla sua vita vera e dagli affetti che sentiva di aver lasciato. Incolpava quella carriera alienante per la sua solitudine, e già si vedeva vecchia, carica d’ori e con gli occhi bistrati, in una Casa di Riposo di lusso per artisti in pensione, ciabattare per i corridoi raccontando agli specchi della sua passata gloria. Questo atteggiamento e l’umore sempre più ombroso di Tittel, non potevano passare inosservati a chi gli stava accanto, ma anche chi le voleva più bene si trovava impotente a farla uscire da quel tunnel che sembrava solo il gioco di una mente viziata. Contattò psicoanalisti e specialisti famosi nell’ambiente dello spettacolo. Il solo risultato fu quello di buttare una quantità di denaro mentre continuava ad essere sola nella battaglia contro la depressione. Non si ritirava dalla carriera perché, quando sentiva le prime note di una romanza lirica e vedeva la bacchetta del Direttore d’Orchestra puntare verso di lei per darle l’attacco, di colpo, miracolosamente, dimenticava tutti i sui malesseri ed ogni fibra del suo corpo vibrava all’unisono con le note spingendola a cantare con la sua voce d’angelo. Cantando sentiva che quello era il motivo per il quale era al mondo e, mentre godeva della fusione delle sua capacità con la meraviglia dell’arte, sentiva che non poteva abbandonare il suo destino e che senza la musica sarebbe morta. Continuò, quindi, nel suo percorso, sempre invidiata ed ammirata, con il pubblico che inseguiva le sue rappresentazioni già mettendola nell’olimpo dei grandi della lirica. Sentiva che ogni gradino salito corrispondeva ad un passo verso il suo personale e non condivisibile baratro. Una bottiglia di Veuve Clicquot, era diventata la sua prima richiesta in camerino e l’ultima ordinazione al room service degli alberghi nei quali soggiornava. La vita per lei era solo un susseguirsi di impegni che faticosamente portava avanti, e non si curava più di tutte le incombenze e problemi che erano legati ad un grande guadagno ed un patrimonio sempre crescente. Aveva delegato tutto al suo agente e ad un avvocato che le era stato presentato a New York dal grande Pavarotti.
II
All’inizio della carriera si era imposta che, al massimo ogni tre mesi, sarebbe tornata a Bergen per vedere i suoi cari e gli amici di sempre. Era sicura che non li avrebbe mai abbandonati, e non voleva che la memoria di quei luoghi, e il ricordo che aveva lasciato in paese, svanissero col tempo. Negli anni, i tre mesi divennero sei e poi dodici fino a quando un mattino, svegliandosi nella suite al “The Peninsula Hotel” di Manhattan, si rese conto che erano passati quasi due anni dall’ultimo suo ritorno a casa. Doveva ancora tenere un recital verdiano al Lincoln Center la sera successiva, poi avrebbe avuto un buco nei suoi impegni per una quindicina di giorni. Invece di ripassare il “Libiamo” della Traviata o il “Ritorna vincitor” tratto dall’Aida, congedò il pianista che l’avrebbe dovuta accompagnare, e si buttò a preparare la valigia con un entusiasmo ed un’allegria come da tempo non provava. Sognava di dare nuovamente appuntamento ai suoi amici davanti al Museo di Øygarden, anche se si rendeva conto che non erano più adolescenti, e di gustarsi una fetta di Bløtkake comprata nella pasticceria di fronte alla Mariakirken. Era strana tutta quell’eccitazione solo per tornare a casa, ma Tittel sapeva bene che non era soltanto per nostalgia che affrontava il viaggio, ma anche, e soprattutto, per tornare alle sue radici, per ritrovare se stessa e capire se quella che stava vivendo era veramente la vita che voleva vivere. Guardando negli occhi il vecchio padre, abbracciando la madre e respirando il salmastro odore del mare, avrebbe capito se avesse ancora la forza e le motivazioni per continuare, oppure se era ora di tornare a…casa. Il primo sintomo della bontà della sua decisione, fu che quando le portarono la solita bottiglia di champagne serale, senza che lei l’avesse neanche chiesta tanta era diventata l’abitudine, Tittel la rimandò indietro già abbastanza ebbra dell’aspettativa del viaggio.
Avrebbe potuto essere un sedile della Ryanair o una poltrona di business, come in realtà era, la cantante non avrebbe notato la differenza. Dopo tanto tempo, viaggiava sola. Non aveva voluto che l’accompagnasse nessuno, segretaria, promoter, ufficio stampa, nessuno che fosse legato al suo lavoro. Anzi aveva ordinato esplicitamente di non chiamarla per tutto il tempo che avesse trascorso in Norvegia. Si sarebbe fatta viva lei, e con un segreto sorriso interiore, immaginava l’infarto che avrebbe rischiato il suo impresario, per un suo eventuale annuncio di voler rimanere a Bergen. Le otto ore di volo tra il JFK e l’aeroporto Moss Rygge di Oslo non esistettero e Tittel si trovò davanti all’ufficiale della dogana norvegese con un gran sorriso, già godendo nel risentire la sua lingua. Si aspettava di essere accolta come ormai era abituata. Di essere immediatamente riconosciuta e circondata dai soliti complimenti e con il calore che normalmente le tributavano i fan. Ma c’era qualcosa che non andava. Il poliziotto teneva in mano il suo passaporto e sembrava studiarlo con attenzione e con un’aria grave ed attenta. “C’è qualche problema, ufficiale?” chiese Tittel vagamente inquieta. “Si, signora Nistrom, abbiamo una segnalazione sul suo nominativo. La prego di seguirmi negli uffici di Polizia di Frontiera.” Non era ancora preoccupata, doveva trattarsi di qualcosa legato magari ad un contratto o di qualche formalità burocratica che, nella moltitudine dei suoi spostamenti, aveva omesso di adempiere. “Si accomodi.” Le disse il capitano invitandola a sedere di fronte alla sua scrivania. Tamburellò per qualche secondo sul piano del tavolo tenendo gli occhi fissi su una cartella aperta avanti a lui. Gli capitava qualche volta di fermare una celebrità, ed in quei casi si faceva vanto di essere ancora più inflessibile del solito, a sottolineare l’importanza e l’incorruttibilità della sua persona. Mentre lui taceva, l‘interlocutore diventava sempre più nervoso, come reazione all’ancestrale paura dell’autorità, e spesso quando finalmente veniva interrogato, si dimostrava più collaborativo. Anche in Tittel stava aumentando l’ansia e sentiva quasi fisicamente come stesse soffrendo il suo sistema nervoso, già così poco stabile in quel periodo. “Non va per niente bene, signora Nystrøm. Qui risulta che, presso la Procura Generale di Oslo, è aperta una procedura nei suoi confronti per carente conformità alle leggi di accertamento fiscale.” La cantante non capiva una parola di quello che stava sentendo e la voce del poliziotto le rimbombava nel cranio, rimbalzando da un occipite all’altro, accavallando e facendo eco tra le parole. Le stava venendo un gran mal di testa e vedeva piccoli piccoli lampi di luce in fondo alle pupille. “Quindi? Lei ne è al corrente? Comprende la gravità della cosa?” “Ufficiale, la prego, non mi sento bene. Mi lasci andare a casa e il mio manager potrà chiarire tutto.” - Eh, certo, manager, leccapiedi e chissà chi altro. -  Pensava il doganiere indispettito da quelle moine. – Chi si crede di essere? Solo perché è famosa, crede di poter fare come vuole. Ma si sbaglia, di grosso! – “Signora, lei non può andare a casa fintanto che non abbiamo redatto il verbale. Stia calma e aspetti.”  Tittel percepì solo che non poteva andare a casa e, in quel momento qualcosa le si ruppe dentro. Sentì che tutto complottava contro di lei per non farla tornare a Bergen a rivedere la sua famiglia. Di più, quel diavolo che aveva di fronte, la voleva imprigionare, trattenere, forse uccidere. Perse qualsiasi forma di lucidità e sentì solo che si doveva difendere, a tutti i costi. Si alzò dalla sedia e, urlando come un’ossessa, afferrò un pesante fermacarte che stava sul tavolo e lo scagliò contro il nemico. Non riuscì a colpirlo, ma muovendosi freneticamente, mentre urlava tutta la sua rabbia e disperazione con frasi scomposte e senza senso, fece un balzo animalesco verso il tenente cercando di graffiarlo in faccia. L’ufficiale si difese istintivamente e, per allontanarla, diede un gran sbracciata che fece volare la donna dall’altra parte della stanza facendole sbattere il capo contro la parete e, poi scivolando, sul pavimento. Tittel giacque immobile, senza sensi, nello squallido ufficio della dogana.
Si risvegliò in un letto dell’Ospedale Maggiore di Oslo. Si accorse di avere la testa fasciata e che una lunga cannula di plastica era infilzata nel suo braccio. Provò a girare cautamente il viso e vide che nella stanza c’erano alti tre letti occupati da donne più o meno vigili ed una di loro sembrava costretta in una camicia di forza. – Dove sono? Che succede? Voglio andare via! Aiuto… - “Ahhh, Aiutoo!!” Al suo grido le corse accanto un’infermiera. “Buona, buona. Stai calma che va tutto bene.” “Voglio andare via! Lasciatemi andare!” “Con calma, adesso stai male. Hai una piccola commozione cerebrale. Devi rimanere qui qualche giorno, e poi vedremo.” Rimanere…non voleva rimanere. Ancora nebbia e confusione in testa. Afferrò il braccio dell’infermiera e, con una forza del tutto inaspettata, cerco di alzarsi dal letto. L’infermiera era abituata alle reazioni delle pazienti ed aveva sempre in tasca una siringa ipodermica con un potente calmante ad azione rapida. Con un abile gesto infilò l’ago nella carne di Tittel, che rimase un attimo stupita di quel leggero dolore, e successivamente si accasciò sul letto, ancora una volta priva di conoscenza.
Riaprì gli occhi, senza avere la minima cognizione del tempo passato, e con un senso di torpore che sfumava i contorni di tutte le cose intorno a lei. “Tittel, guardami! Sono io.” “Oh, Marcus, Marcus!” La donna scoppiò a piangere vedendo seduto accanto al letto il suo manager, e amico fidato, che la seguiva da tanto tempo. “Portami via, Marcus!” “Non posso, cara sei in stato di fermo giudiziario per l’aggressione al poliziotto e poi devono fare accertamenti sulle tue condizioni generali. Pare che tu sia un po’ confusa. Vedrai si risolverà tutto in breve tempo.” “Oh, meno male che sei qui. E’ vero, mi sento un po’ fuori di me, ma posso andare a casa. Diglielo tu, che posso andare a casa!” “Certo, certo. Devi solo stare calma, dimostrare che sei in possesso delle tue facoltà, e ti rilasceranno immediatamente.” “Si, si lo farò. Starò calma. Farò quello che dicono.” Mentre pronunciava queste parole, si senti riprendere dalla debolezza e le si chiusero gli occhi ripiombando nuovamente in un profondo sonno senza sogni. Il manager, seduto tenendole la mano, la guardò ancora lungamente. Poi si alzò e, con affettuosa premura, prese una pezzuola e le deterse il sudore sulla fronte. Quindi, con calma, infilò la mano in tasca e prese una fialetta, l’aprì cautamente e, dopo un breve sguardo intorno per accertarsi di non essere visto, ne versò il contenuto nel flacone della flebo appeso al trespolo vicino al letto. Si allontanò velocemente dalla camera. Dopo qualche minuto, la sostanza raggiunse la vena, il cuore accelerò i battiti e la forte aritmia fece svegliare di soprassalto Tittel, boccheggiante e terrorizzata. Sicura di stare per morire, emise un lungo lamento disperato che fu udito dal medico di guardia che passava nel corridoio. Il dottore non si degnò neanche di entrare nella stanza per vedere cosa fosse successo ed, al collega che l’accompagnava, declamò con sicurezza: “E’ la nuova paziente, sai la cantante. Anche il primario è d’accordo: soffre di una sindrome maniaco depressiva con sintomi schizofrenici e disturbo paranoide della personalità. Possibili atti di autolesionismo. E’ necessario il ricovero sotto stretta osservazione, in lunga degenza.” Più che una diagnosi, le parole suonarono come una sentenza.
III
Era andato per mare lungo cinquant’anni e più della sua vita. Conosceva il buio profondo delle acque al largo delle coste, quando sembrava di navigare sopra la notte piena di incubi ed angosce. Aveva visto giorni e mesi non finire mai, ed il chiarore non cedere alle tenebre mentre, ai bordi del polo, le balene passavano soffiando maestose. Aveva caricato reti stracolme di skrei catturati nelle acque intorno alle Lofoten, ed era stato in attesa del branco magico che avrebbe fatto affondare il peschereccio sotto il peso del pesce. Non si era spaventato affrontando le tempeste più furiose, con il fatalismo indispensabile a chi faceva il suo mestiere, ed era stato in bonaccia passando il tempo cercando di inventare la storia più inverosimile che avrebbe raccontato ai compagni prima di cedere all’ultimo bicchiere di Linie, l’acquavite norvegese. Aveva visto qualcuno sparire tra i flutti, qualcuno era morto tra le sue braccia ed, una volta, aveva aiutato a partorire la moglie di un amico che era rimasta isolata dall’alta marea sulla sua isola. Non era mai stato un chiacchierone e, con il passare del tempo, sentiva di aver quasi esaurito le parole a sua disposizione e di dover risparmiare le restanti per esprimere concetti che ne valessero la pena o che fossero indirizzati a persone che li meritassero. Björn credeva di essersi creato un callo sul cuore che lo rendesse quasi insensibile, ma pensare alla sua povera, amatissima, figlia costretta in un ospedale psichiatrico senza poter fare niente per aiutarla, gli causava una pena sorda e costante molto più dolorosa di tante ferite che gli avevano segnato il fisico durante la sua attività. Adesso capiva come la sensibilità di Tittel l’avesse resa una grande artista ma, nello stesso tempo, fatta vulnerabile agli strali della vita. Avrebbe voluto aiutarla. Si era consigliato e dato da fare, per quanto poteva, ma tutti i consulti esterni alla struttura ospedaliera non avevano fatto altro che confermare la diagnosi dei medici curanti. La cantante alternava periodi nei quali sembrava stare bene e si comportava del tutto normalmente, con momenti di crisi violenta che, stranamente, sembravano coincidere con le visite che riceveva. Pertanto, era stato drasticamente ridotto il numero delle persone alle quali era consentito incontrarla, limitandole ai genitori, al suo manager e vecchio amico, ed al pastore della sua Chiesa che la conosceva fin da piccola.
Quel giorno a casa Nystrøm aleggiava un odore intenso ed invitante che usciva dalla cucina. La signora Hannah stava preparando lo smalahove, come pietanza principale, ed un buon dolce multekremen, per suo marito Björn ed Ernst che veniva a pranzo da loro. Erano contenti di ricevere il giovane che sentivano un po’ come un figlio essendo cresciuto accanto alla loro villetta fino a che non era partito per gli Stati Uniti per completare gli studi. Ernst era andato a scuola con Tittel ed erano cresciuti insieme, facendo nascere nella madre della ragazza la vana speranza di vederli un giorno sposati tra di loro e sistemati a vivere vicino a lei. La vita poi li aveva allontanati, ma dopo essersi specializzato in diritto tributario internazionale, l’ormai affermato professionista era tornato in Norvegia e, quando passava per Bergen, non mancava mai di fare visita a quelli che considerava i suoi secondi genitori. “Vieni, accomodati. Facciamoci una pipata, mentre la signora Nystrøm finisce di preparare.” Björn indicò con la mano una poltrona accanto alla sua, prendendo il sacchetto di tabacco e la pipa con il fornelletto di schiuma bianca che, era ormai tradizione, riservava solo al giovane amico in occasione delle sue visite. “Dammi notizie di Tittel, come sta?” chiese subito Ernst al vecchio padre. “Non bene. Non riesce ad uscire dal tunnel ed i professori non sanno aiutarla.” “Che tragedia! Ma come può essere successo? Sembrava felice con il suo lavoro ed aveva raggiunto tutto quello che avesse mai potuto desiderare.” “Evidentemente, non era così. Covava un’infelicità di fondo che, nel tempo, è emersa violentemente facendole perdere la salute mentale.” L’avvocato aveva le lacrime agli occhi ripensando all’amica e rivedendo il suo sguardo allegro ed a volte impertinente. C’era stato anche un piccolo flirt tra loro, anzi per lui, e forse anche per lei, era stato il primo bacio. Di quelli che non si scordano mai e, quando tornano alla mente provocano un malinconico rimpianto che comprende tutto, dalla gioventù trascorsa alle occasioni mancate. Ernst sentiva che era stata una sua mancanza lasciarsi scappare Tittel dalle mani, come una farfalla che dispieghi le ali, mostrandone a tutti i meravigliosi colori, ed in un soffio voli via. “Come mi dispiace. E la sua carriera, i suoi interessi, adesso chi li cura?” “Per fortuna c’è Marcus, il manager. E’ l’unico che le è rimasto vicino, si è fatto fare una procura generale per ogni suo affare e cura tutto lui. Sta affrontando anche la vicenda che è stata alla base della crisi di Tittel. Ha fatto molte azioni, non ti so spiegare meglio, nei confronti del Ministero delle Finanze, per contestare le presunte irregolarità fiscali. Insomma, sta tutto nelle sue mani.”” Bene, bene. E’ importante avere vicino qualcuno di cui fidarsi.” In quel momento, la signora Nystrøm li chiamò a tavola e cercarono, per quanto possibile, di godersi insieme quei momenti di serenità.
Quella sera Ernst, mentre fumava l’ultima sigaretta prima di andare a letto, pensò, per l’ennesima volta a Tittel ed al suo beffardo destino. Come tanti grandi, aveva raggiunto la vetta per poi precipitare repentinamente nell’abisso, in un tragico fatale momento. E tutto, come causa scatenante, per la stupida contestazione alla dogana da parte di una guardia che non aveva capito la delicatezza dell’anima con la quale il Signore gli aveva dato la fortuna di entrare in contatto. A proposito: la vicenda fiscale. Lui faceva parte dello studio tributario più importante della Norvegia e, per lavoro, aveva contatti, amicizie, relazioni o semplici agganci in tutti gli uffici del Ministero delle Finanze. Sapeva bene come muoversi nei meandri della burocrazia anche solo per trovare informazioni o arrivare al funzionario giusto. Se c’era un caso nel quale Ernst avrebbe potuto mettere a frutto la sua professionalità, con tutto il corollario di aderenze, era proprio la vicenda di Tittel. Con il massimo impegno avrebbe tentato di influire sulla pratica in carico all’amica e agevolarne la soluzione nella maniera più rapida e soddisfacente possibile.
La mattina appresso, arrivò di buon’ora nello Studio Trygve, in Kongens Gate a Oslo, dove grazie alle sue capacità, seppur molto giovane, era diventato vicepresidente con il diritto di occupare un ufficio d’angolo con vista sulla Kontrasktjǽret. Si attaccò al computer ed al telefono e mosse tutte le pedine necessarie per farsi un quadro esauriente della situazione. Rimase al suo posto tutta la giornata ed, alle dieci della sera, fece una chiamata a Bergen. “Björn, scusami se ti disturbo a quest’ora, ma devo parlarti urgentemente. “Cos’è successo, Ernst? Mi stai allarmando. Riguarda Tittel?” “Si, stai tranquillo, non la sua salute, ma ho scoperto alcune cose che vorrei discutere con te quanto prima. Però vorrei pregarti di fare un piccolo viaggio e venire nel mio ufficio perché ci sono documenti che non posso far uscire.” Il vecchio sapeva quando era il momento di troncare le chiacchere e muoversi. “Domattina alle otto e trenta sono da te.” “Ti aspetto, a domani.”
Björn non pensava che Ernst, che ancora ricordava con i pantaloni corti, avesse fatto tanta strada nella sua vita professionale. Rimase stupito nell’entrare in quel moderno edificio tutto vetri e acciaio nel cuore della capitale. E poi continuò nella sua meraviglia quando, scortato da una segretaria che avrebbe potuto fare la modella, mise piede nel grande studio del figlioccio. “Vieni, accomodati. Scusami per questa convocazione tanto pressante, ma devo metterti al corrente di quello che ho scoperto.” Dimmi.” “Come sai, il mio lavoro mi dà accesso a quasi tutti i database del paese sia governativi che privati, anche se a volte in maniera non del tutto lecita. Ho voluto verificare quanto mi avevi detto in merito ai guai di Tittel e se avessi potuto fare qualcosa per lei. Ho cercato la pratica ma, contrariamente alle tue informazioni, ho rilevato che non è stato fatto niente per difendere tua figlia. Anzi, invece di fare le necessarie opposizioni e presentare i documenti, sono stati richiesti solo rinvii per motivi di salute che, ovviamente, non risolvono niente. Sembrerebbe che “il fidato” Marcus, grazie alla sua procura, abbia prodotto carte addirittura negative per l’iter della pratica.” Il vecchio era attento e pendeva dalle labbra del giovane avvocato. “Non solo – continuò Ernst – mi sono ricordato che mi avevi accennato che le condizioni di salute di Tittel subiscono un aggravamento dopo le visite che riceve. Allora, per averne la certezza, ho fatto una cosa che non avrei potuto, ed è per questo che ti ho fatto venire e non ho portato i fogli da te.” “Vai avanti.” “Con l’aiuto di un nostro collaboratore, genio informatico, ho avuto accesso al computer centrale dell’ospedale dove è ricoverata Tittel. Sono riuscito a trovare la sua cartella clinica e, cosa vietatissima, ne ho raccolto i dati. In particolare sono andato a vedere quando alla paziente sono stati somministrati medicinali e cure per tenerla sotto sedazione in seguito ad una crisi conclamata. Devi sapere che il reparto registra anche tutte le visite ricevute ed i nomi dei visitatori con data e ora relativa. Ebbene, confrontando i giorni in cui Marcus è andato in ospedale con quelli in cui c’è stato l’intervento terapeutico, risulta che Tittel ha avuto le ricadute sempre nello stesso giorno in cui il suo manager è andato a trovarla. Per togliermi ogni ulteriore dubbio, ho visto, dalle dichiarazioni, qual è la banca alla quale sono appoggiati i conti di Tittel e, siccome conosco bene il direttore, l’ho subito chiamato per fargli qualche domanda. Per fartela breve, il funzionario mi ha detto come fosse addolorato nel constatare che la sua cliente, tramite il manager che gli aveva presentato la procura ad agire per suo conto, stesse gradualmente, ma sistematicamente, trasferendo i suoi risparmi dalla banca ad un Istituto svizzero, su un conto numerato.  E allora, mi sono fatto una convinzione. Tittel sta subendo un infido raggiro da parte di Marcus che, quando va da lei, le somministra, in qualche maniera, medicinali o droghe che inducono la crisi. Questo fa intervenire i medici che, non notando miglioramenti, continuano a tenerla in ospedale. Marcus, ha quindi il tempo di fare i suoi loschi affari derubando Tittel di ogni suo avere, fino a quando non sarà prosciugata e, a quel punto…temo il peggio.” Björn non interruppe l’amico per la durata di tutto il lungo discorso. La sua faccia era impassibile e grave come al solito, ma all’altezza dello stomaco sentiva salirgli una sensazione d’ansia, o addirittura di panico, come non ne aveva mai provate in tutta la vita. La prima idea che gli venne fu quella di precipitarsi in clinica e strappare la figlia da quella situazione e sottrarla alle grinfie di quel maledetto diavolo. Ma capiva che, per il bene di Tittel, si doveva agire con il cervello. “Hai fatto un lavoro egregio, mio caro Ernst. Sicuramente ti sarai fatto un’idea dei passi che dobbiamo compiere per mettere fine a questa tragedia.” “Certamente. Prima cosa dobbiamo incastrare Marcus, dimostrando la sua colpevolezza, per far annullare la procura e farlo arrestare. Quindi, una volta rimossa la causa, anche le condizioni di Tittel miglioreranno e la riporteremo, finalmente, a casa.” “Oggi mi hai dimostrato come tutto l’affetto, oltre alla stima, che sempre abbiamo provato nei tuoi confronti, fosse ben riposto. Figliolo caro, agisci! Velocemente e con prudenza. Ridammi mia figlia e te ne sarò debitore per sempre.” L’avvocato mise in un cassetto della sua memoria le parole del vecchio ripromettendosi di tornare a risentirle quando avrebbe potuto permettersi il lusso di intenerirsi. Per il momento doveva essere lucido ed aggressivo, e muoversi.
IV
Il manager arrivò al nosocomio per la consueta visita settimanale. Ormai per lui era diventata un’abitudine. Variando il giorno della visita, ma non facendo passare mai più di dieci giorni, controllava le condizioni della sua cliente e, nello stesso tempo, si mostrava come un amico premuroso e solerte, attento alle necessità della giovane ricoverata per la quale sbrigava tutte le onerose incombenze legate alla gestione del suo patrimonio. I medici ed il personale della clinica avevano fatto l’abitudine alle sue viste ed erano quasi entrati in confidenza con quella persona all’apparenza così sollecita e caritatevole. Gli permettevano di passare senza difficoltà e lo lasciavano tranquillamente solo con Tittel alla quale pensavano facesse bene parlare con qualcuno di caro. E’ vero che dopo, magari nelle ore successive o durante la notte, Tittel si agitava a volte fino ad avere delle convulsioni, ma i luminari ritenevano che questo fosse l’effetto di una scossa emotiva che, se da una parte aggravava momentaneamente le sue condizioni, dall’altra non permetteva al suo cervello di scollegarsi del tutto dalla realtà circostante e dalla vita che aveva vissuto in precedenza. Marcus anche quel giorno, con un falso sorriso sulle labbra, aprì la porta della camera dove sul quarto letto vicino alla finestra, Tittel era riversa pallida ed esangue. Aveva perso molto peso ed i suoi meravigliosi capelli ramati erano ridotti ad una matassa di ciocche, spente ed arruffate, intorno al viso sofferente. “Dolcezza, sono qui. Sei contenta di vedermi?” Quando era lontano da eventuali testimoni, l’uomo lasciava cadere la maschera, consapevole che la giovane, anche se avesse avvertito la sua malvagità, non era in grado di reagire in alcuna maniera. “Sono tornato a trovarti. Ora il tuo amico ti fa un po’ di compagnia e ti racconta di come sta curando i tuoi interessi.” Marcus sapeva che poteva dire qualsiasi cosa, tanto Tittel non avrebbe raccolto o, se anche avesse riferito a qualcuno le sue parole, sarebbe stata solo un’ulteriore dimostrazione della labilità del suo equilibrio psichico. “Il tuo fidato e affezionato collaboratore, che hai sempre trattato come un cagnolino a disposizione dei tuoi comandi e dei tuoi capricci, sta giocando con i soldini. Sai, come soldatini, i tuoi dollarucci, insieme al contenuto delle cassettine bancarie, si stanno mettendo in fila e marciano ordinatamente. Pensa, lasciano i tuoi conti e si dirigono verso un piccolo paese lontano, patria dell’Emmental, dove si nasconderanno agli occhi di tutti e risponderanno solo ai comandi del nuovo padroncino, ovvero io.” Non poté trattenere una sardonica risata di autocompiacimento. “Io ti racconterò questa storiellina fino a quando, malauguratamente, non ci sarà più bisogno che tu resti in questa valle di lacrime, e per farti contenta, ti aiuterò a fare un bel sonno profondo e senza risveglio.” Tittel guardava l’amico e non capiva il senso del discorso. Sentiva solo il mellifluo suono delle parole che raccontavano una bella fiaba, e la cullavano dolcemente, facendo apparire uno stanco e tremulo sorriso all’angolo delle sue labbra. Era passato abbastanza tempo per giustificare la sua visita, Marcus poteva finalmente fare quello per cui era venuto. Come di consueto, lanciò una rapida occhiata intorno e infilò la mano in tasca per prendere la fialetta di medicinale, o meglio di veleno. Non se l’aspettava. Improvvisamente si sentì le braccia immobilizzate e vide sbucargli intorno degli uomini in divisa che, strattonandolo senza tanti riguardi, lo gettarono in terra non consentendogli di muovere un muscolo. Quello che sembrava l’ufficiale in capo, verificò il contenuto delle tasche di Marcus e sequestrò non solo una, ma diverse fiale contenenti un farmaco fortemente atropico vietato in commercio. Fu ammanettato e tradotto in galera.
Dall’articolo di spalla sulla prima pagina del quotidiano VG: - Le campane della Chiesa hanno suonato in segreto per Tittel, martedì 13 agosto, quando ha stretto il nodo con uno fra i più importanti avvocati norvegesi, Ernst Rondnaas. La coppia si è sposata martedì con una semplice cerimonia nella chiesa di Hov, alla presenza di pochi invitati e dei parenti più stetti. Gli sposi attualmente risiedono a Frogner, Oslo, ma passano anche molto tempo nella loro fattoria a Hov, Sǿndreland. –
“Certo che lui non si può proprio definire un Adone!” Come in tutti i ricevimenti nuziali che si rispettino, il divertimento più grande per gli invitati era quello di criticare. “Guarda come gli tira il gilet del tight e bisogna dire che, per essere un giovane uomo, è già abbastanza in piazza, sulla fronte.” A questa acida osservazione della zia Nilde, una vecchietta, che era stata la tata di Tittel, rispose con fermezza: “in compenso, lei è uno splendore. E poi, guarda come si fissano negli occhi. Credo che nessuno dei due veda l’aspetto fisico dell’altro, ma se c’è una coppia dove ha vinto l’amore, beh credo proprio che l’abbiamo davanti.”
Tittel e Ernst non si lasciarono la mano per tutta la durata del ricevimento, e se dopo qualcuno avesse chiesto loro cosa fosse successo quel pomeriggio, non avrebbero saputo riferire niente tranne che avevano fluttuato su una nuvola. Il serio avvocato aveva finalmente realizzato il sogno che l’aveva per tanti anni accompagnato ed intenerito mentre, quando stavano lontani, gli capitava di sentire una vecchia canzone che aveva ballato con Tittel o di vedere una stella cadente alla quale affidava sempre un unico e costante desiderio. La cantante aveva trovato, dove era nata, quello che aveva inconsciamente cercato girando tutto il mondo. Il suo cuore era colmo e l’anima leggera. Sentiva di dovere, in qualche modo, esprime il ringraziamento per quella benedizione e, nello stesso tempo, condividere con chi amava la felicità di quel momento. Lo fece nella maniera che meglio sapeva. Senza alcun accompagnamento, e sorprendendo gli invitati, seguì la sua ispirazione e lentamente si alzò da tavola, richiamando su di sé tutti gli sguardi. Fissò negli occhi Ernst e poi il padre e la madre, socchiuse le palpebre, e cantò.