Il grande piroscafo mollò gli ormeggi staccandosi
dalla banchina del porto di Southampton. Virginia Von Zingen, con un lungo
sospiro, lasciò il ponte della nave avviandosi verso la sua cabina sul
camminamento esterno di prua.
Aveva
ancora negli occhi l’immagine dei genitori a terra che la salutavano con la
mano mal nascondendo la commozione per la partenza della giovane. Herr Stephen
e Frau Suzanne erano due stimati commercianti in tessuti che scambiavano con il
Nuovo Mondo e la figlia seguiva le loro orme facendo spesso la spola tra le due
sponde dell’Oceano.
Non era la prima volta che Virgy faceva quel viaggio. Negli anni precedenti si era recata
in America già due volte affrontando la traversata con coraggio, vincendo il timore che le incuteva la vastità del mare e l’angoscia
nel sentirsi tanto lontana da casa.
Nelle precedenti occasioni, però, era stata scortata
da almeno un genitore che, a causa della giovane età della fanciulla, l’aveva
accompagnata, ed in qualche maniera protetta e consigliata, affrontando con lei
le novità proposte dal contatto con culture così diverse ed esotiche.
In quell’aprile del 1912, invece, improrogabili
impegni trattenevano Herr e Frau Von Zingen presso i loro magazzini mentre da
New York arrivavano dispacci che sollecitavano la presenza in quella città per
concludere un importante accordo con Mr. William Carter.
Questo era un imprenditore nel nuovissimo settore
degli abiti già confezionati. Conoscendo la fama della famiglia Von Zingen,
prima di impiantare la propria fabbrica ed avviare il “business”, aveva
richiesto la loro consulenza proponendo di entrare come socio, anche di
minoranza, in quel settore di cui, all’epoca, egli non aveva alcuna esperienza.
L’incontro, però, doveva avvenire a breve e, quindi, Virgy si offrì di andare,
anche da sola, ad incontrare l’americano.
Per compensarla del disagio della solitudine ed
assicurarle il massimo della comodità possibile durante il viaggio, Herr Stephen,
forzando la propria encomiabile sparagnina natura, offrì alla giovane un
biglietto di prima classe per il viaggio inaugurale che l’orgoglio dei mari di
quel tempo avrebbe effettuato in quei giorni con destinazione New York.
E’ vero, il biglietto costava molto, ma
l’eccitazione per il viaggio a bordo di quello che era descritto come l’albergo più
lussuoso che solcasse i sette mari, compensava la spesa. Senza contare che,
comunque, la somma sarebbe stata in
carico alla “Sieben Hügel“ la società di famiglia preposta agli affari oltreoceano.
Virginia
si stava ambientando a bordo della RMS Titanic anche se ancora non aveva fatto
amicizia con nessuno. Ripensava a come si era divertita nell’ultima vacanza,
l’estate precedente, che aveva trascorso con Tess la sua amica del cuore. La
ragazza era una promettentissimo soprano di origini irlandesi, Tess O’ Rhona,
che si esibiva nei Café Chantant della riviera italiana con riconoscimenti
ancora di molto inferiori a quelli che la sua limpida voce avrebbe meritato.
La
vita, durante le lunghe giornate di navigazione, scorreva tra giochi di ponte,
tè danzanti e lettura stando bene attenti a non esporsi ai raggi del sole che,
come era noto, risultavano altamente nocivi per la pelle delle giovani ed,
inoltre, conferivano quella tinta scura propria delle classi inferiori abituate
a lavorare all’aperto.
In
definitiva: una noia! Virgy avrebbe almeno voluto fare quattro chiacchere con
qualcuno della sua età, ma in prima classe erano tutti anziani, ben oltre i
quarant’anni, e poco disponibili per una giovane che, per il solo fatto di
essere una bella ragazza e viaggiare da sola, aveva un’aria quasi equivoca.
Una
sera, dopo aver fatto onore alla cena, coerentemente con la sana filosofia del
“tanto è già tutto pagato”, mentre
sorbiva una tisana digestiva che, nelle sue aspettative, avrebbe dovuto
contrastare e vincere quel fastidioso senso di pesantezza che, inopinatamente,
la seconda porzione del tortino di peperoni, tonno e melanzane aveva
stabilmente allocato nel proprio stomaco, Virginia sentì una musica provenire
dal ponte inferiore riservato ai passeggeri di seconda classe.
Essendo
una appassionata del genere, la ragazza non resistette e, disobbedendo alle
calde e ripetute raccomandazioni della mutter Frau Suzy, scese la scala di
collegamento ed…era un altro mondo!
Quello
che in prima era noia e routine, nella seconda classe sembrava essere allegria
e divertimento. Anche il rapporto generazionale era invertito. Alla maggioranza
di “vecchi” di sopra, corrispondeva un gruppo di ragazzi che, riuniti intorno
ad uno di loro con la chitarra, cantavano e ballavano con tutta la
spensieratezza della loro età.
Virginia
si sedette accanto a loro e, trascinata dalla musica, cantò, rise e ballò fin quasi allo sfinimento.
In una
pausa per riprender fiato, si guardò attorno. I visi degli altri erano
simpatici e aperti ma una strana attrazione calamitò gli occhi della fanciulla
verso un ragazzo che, un po’ in disparte, cercava di strizzare l’ultimo goccio
da una bottiglia di Jagermaister.
Da
sempre gli scienziati hanno studiato se fosse il caso di dare la colpa del
cosiddetto “coup de foudre” ai feromoni o alle compatibilità d’aura piuttosto
che all’odore animale o alle combinazioni astrali, ma ancora non hanno saputo
dare una risposta convincente.
Fatto
sta che, tra i due giovani, scoccò la scintilla, ma la decenza nonché la
supposta impazienza del lettore di questa storia, ci induce a sorvolare i
preliminari e l’evoluzione di una conoscenza che presto si tramutò in amore.
Conosciamo,
quindi, l’oggetto di tanto “scapricciamento”. Il ragazzo si chiamava Giuggio ed
era uno scugnizzo napoletano di vivace intelligenza e pieno di aspettative per
il suo futuro. Andava a New York per esercitare sul più vasto pubblico
possibile, le proprie capacità persuasive affinate, nel tempo, dalla maestria
nel gioco delle tre carte.
Gli
avevano detto che, nella metropoli, molti commercianti o industriali, per
vendere la loro mercanzia, cercavano persone intraprendenti e con idee nuove.
La scuola dei vicoli partenopei rilasciava diplomi di venditore di qualsiasi
cosa a qualsiasi persona e Giuggio si era distinto tra i migliori.
Aveva
un curioso modo di esprimersi. In particolare quando era eccitato o entusiasta
se ne usciva con una peculiare esclamazione: “Aggia vist’? Chist’ cosa è
genial’! Anzi viral’!” E più era coinvolto o stupito, più i due aggettivi,
geniale e virale, sembravano soddisfarlo.
Erano
circa le undici di sera del 14 aprile. I due ragazzi stavano sul ponte del
Titanic rimirando il cielo sereno e pieno di stelle. Faceva freddo ma loro non
lo sentivano presi l’uno dall’altro. Ogni tanto lanciavano uno sguardo verso il
mare che rifletteva la luce della luna in mille piccole argentee scintille.
Giuggio
immerse il viso tra i capelli di Virginia e poi alzò lo sguardo verso
l’orizzonte. Quale fu il suo stupore nel vedere profilarsi, sopra l’immensa
distesa d’acqua, una montagna che sembrava di cristallo.
Il
chiarore stellare accendeva quella massa enorme di una luce quasi
soprannaturale scomponendola in colori e sfumature che rimandavano uno
spettacolo magico e mai, prima d’allora, visto. La nave si muoveva lenta verso
l’iceberg come ipnotizzata da tanta spaventosa bellezza.
Il
ragazzo provò una fortissima sconvolgente emozione e quindi, coerente con le
sue abitudini gridò: “Chist’ è veramente viral’…VIRAL’…VIRAL’…VIRAAAAAL’!!!”
La
notte era silente e questo urlo fu chiaramente sentito dal Comandante della
nave che si era momentaneamente assopito sul Ponte di Comando. In realtà il
Capitano non capì “viral” con l’accento sulla “i” ovvero “virale”, ma “VIRA”
come fosse un ordine che, nel dormiveglia, provenisse direttamente dal Signore
degli Oceani.
Prontamente
ubbidì e, buttandosi sul timone, procedette alla virata della nave. Il
transatlantico, riluttante, eseguì la manovra modificando la rotta e passò
vicino sfiorando, ma senza toccare, il minaccioso ostacolo imprevisto.
Il
Titanic era salvo per merito di Giuggio e Virgy che festeggiarono lo scampato
pericolo insieme all’equipaggio ed i passeggeri che, per riconoscenza,
comprarono tutti i prodotti della linea food della “Sieben Hugel” che ( hai
visto mai?) la ragazza aveva portato con se.
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