“Sai quel
cliente che viene da Roma e, ogni tanto, si fa fare shampoo e capelli?” Chiese
la Kathia alla sua aiutante. “Chi, quel bel signore brizzolato e distinto che
ha comprato casa qui vicino?” rispose Antonella che sembrava vaga, ma notava
tutto e si ricordava di ogni frequentatore del salone. “Si. Mi ha detto che
viene da me perché gli sono simpatica, ma soprattutto perché paga dieci euro
per il servizio completo quando, a Roma, il suo barbiere gliene chiede trenta.”
“Beh, freghiamo la concorrenza!” “Già, ma non mi sembra giusto. Io faccio lo
stesso lavoro del collega e guadagno un terzo. Forse dovrei alzare i prezzi.”
Antonella rifletté un momento e poi rispose. “Mettiamola così. Quanto tempo
impieghi tra il taglio ed il resto?” “Con gli uomini, se non sono
particolarmente esigenti, dieci o, al massimo, quindici minuti.” “Quindi,
facciamo un conto. Tu valuti il tuo tempo lavorativo dieci euro per quindici
minuti, ovvero quaranta euro l’ora. Moltiplica per le otto ore giornaliere ed i
venticinque giorni lavorativi mensili e viene fuori…ottomila euro al mese! Ti
basta come stipendio?” “Vista così…Ma il barbiere, con lo stesso ragionamento,
si valuta ventiquattromila euro al mese!” La Kathia era leggermente sconvolta
da quelle cifre, ben sapendo ciò che in realtà riusciva a mettersi in tasca,
dopo tutta la fatica a bottega. “Ferma. Innanzitutto il ladrone lavora a Roma
e, probabilmente, paga qualche migliaio di euro d’affitto mentre qui te la cavi
con dugento-cinquanta. Poi avrà degli aiutanti, garzoni, un servizio di
lavanderia e forse offre pure il caffè.” “Ehhh, hai voglia di caffè…!”
“D’accordo. Che vogliamo fare, ci trasferiamo a Roma o alziamo i prezzi?”
Chiese Antonella sapendo che la sua domanda era solo provocatoria ed inutile.
“Oh grulla! Sai bene che non possiamo fare nessuna delle due cose. Siamo
condannate a vivere in questa provincia e ci dobbiamo accontentare.” Rispose la
parrucchiera con un sospiro di finto rimpianto per una vita che non era la sua.
Per rompere
la monotonia, evadere dal paesello e non lasciare che il suo cervello si
atrofizzasse nel compiere sempre le stesse attività e vedere ogni giorno le
medesime persone, la Kathia, con il marito, programmava un viaggio all’anno in
coincidenza delle vacanze di Pasqua. In quel periodo la figlia non andava a
scuola, e poteva essere affidata ai nonni, ed ancora non era iniziata la
stagione turistica che richiamava frotte di gente a visitare i dintorni. Poteva
permettersi di affidare il negozio di parrucchiere all’Antonella che non vedeva
l’ora di togliersi di mezzo l’amata, ma ingombrante, padrona anche solo per
pochi giorni. Quell’anno lei e Vittorio, il consorte, avevano discusso a lungo
sulla meta da scegliere. Fin da settembre si erano procurati cataloghi ed
opuscoli che illustravano gli itinerari più improbabili: dalla Terra del Fuoco
al sentiero degli Inuit. Lui, dopo aver visto un documentario sul Carnevale di
Rio, era in fissa con il Brasile, forse illudendosi di trovare la stessa
atmosfera di sfrenata allegria e vedere le brasiliane sempre abbigliate con
piume e tanga. Lei avrebbe voluto andare a “Nova Yorke” dove non erano mai
stati. Anche qui c’era una forte influenza culturale dettata dalla visione del
film “Sex and the City” uscito quell’anno. La Kathia sognava di entrare nel
negozio di Manolo Blahnik e provarsi le scarpe che aveva visto indossate da
Carrie, anche se sapeva bene di non potersele permettere. Dopo serate intere di
discussioni, conti alla mano, erano giunti ad un compromesso che non
accontentava nessuno dei due, ma era comunque invitante. Avevano deciso per una
breve crociera nel Mediterraneo che, partendo da La Spezia, avrebbe toccato
Barcellona, le Baleari e Malta, per finire a Napoli. I coniugi non conoscevano
la capitale della Catalogna e le altre destinazioni, ed il periodo primaverile
prometteva di far loro trovare delle belle giornate che avrebbero potuto godere
in mare.
“Garda
Kathia, sembra la Rinascente!” “Ma che tu dici, grullo, l’è di molto più
grande.” Stavano tutti e due, tenendosi per mano, con il naso all’insù
nell’atrio principale del transatlantico. Tre scale mobili portavano ad
altrettanti ponti e, fra di loro, scrosciavano cascate d’acqua illuminate da luci
cangianti che le facevano brillare di rosso, blu, verde e tutte le sfumature
intermedie. Corrimano in ottone e lampadari di cristallo creavano la
scenografia perfetta per l’ambientazione di una favola. Era proprio quello che l’armatore
si proponeva, volendo offrire ai sui ospiti l’illusione di entrare in un mondo incantato
e fuori dal tempo, al riparo dalle preoccupazioni quotidiane che dovevano abbandonare
sulla banchina del porto. “Si, ma diciamoci la verità: la cabina l’è un buco!”
“Oh, stai sempre a brontolare” Rintuzzò la parrucchiera che aveva tutte le
intenzioni di godere del viaggio trascurando ogni eventuale piccola pecca. Si
sentivano un po’ come Pinocchio nel ventre della balena: piccoli, indifesi e
del tutto in balia di un organismo mastodontico che li avrebbe portati dove
avrebbe voluto. Con un “Wooofff” di avvertimento, il colosso di acciaio e vetro
mollò gli ormeggi allontanandosi da terra per affrontare il tragitto che il
comandante, dopo tante volte, ormai viveva nella maniera di un tranviere che fa
la spola da un capolinea all’altro, mentre i seicento passeggeri provavano un vago
senso di sgomento guardando l’immensità del mare. Chi ha paura dell’aereo dice
che se Dio avesse voluto che gli uomini volassero, li avrebbe dotati delle ali.
Qualcuno a bordo la pensava in maniera simile rispetto alla navigazione,
rassicurandosi nel credere che quella città galleggiante governata dalle più
moderne tecnologie, non potesse andare incontro a nessuna sorpresa inaspettata.
I più pavidi narravano storie di “inchini” bravamente osati da comandanti incoscienti
e fanfaroni con il rischio di collisioni in prossimità della terra, ma non riuscivano
ad intaccare la fiducia della maggioranza dei compagni passeggeri volutamente
sordi e fatalisti.
La prima
sera, a bordo, era prevista “La Cena col Comandante” e la Kathia tirò fuori
dalla valigia il tubino di seta nero con applicazioni di perline che aveva
portato per l’occasione. “Come sto?” chiese al marito piroettando su se stessa.
L’abito era accollato sul davanti, corto a metà coscia e senza maniche. La
sorpresa veniva quando, voltandosi, mostrava la profonda scollatura sulla
schiena che si fermava appena prima di diventare troppo osé. Vittorio, abituato
a vedere la moglie con il camice da parrucchiera o con il tutone da casa, rimase
quasi senza parole colpito dalla sensualità della consorte ed, immediatamente,
gli vennero in mente tanti passatempi che una volta facevano spesso e che era
ora di riprendere. “Mi sembri un cioccolatino che non vedo l’ora di scartare.
Anche se…la scolatura, non sarà un tantinello…” “Ma va là, grullo!” Rispose la
Kathia lusingata ed emozionata in vista della serata. Anche il marito indossò
il completo blu che aveva messo l’ultima volta al matrimonio del cognato, e si
avviarono verso il ristorante “Etoile” già addobbato per l’evento.
“Prego,
signori, accomodatevi qui.” Un cameriere dai tratti asiatici, come tutti gli
altri suoi colleghi, li fece sedere ad un tavolo per dieci già quasi del tutto occupato.
Kathia capitò di fronte ad un signore sulla sessantina che indossava uno
smoking sicuramente risalente a qualche anno prima, quando doveva essere stato molto
più magro. Esibiva spavaldamente un pronunciato doppio mento, un bel riporto di
capelli tinti incollati sul capo ed un pacchiano assortimento di gioielleria
composto da un Rolexone d’oro, un anello con rubino e svariati braccialetti anch’essi
d’oro. Accanto a lui una signora assai piacente, di almeno vent’anni di meno,
lo teneva per mano e, ogni tanto, gli sussurrava qualcosa all’orecchio. L’unico
gioiello della donna, oltre alla fede, era uno sfavillante solitario all’anulare
destro che, se vero, valeva almeno due anni di reddito della parrucchiera. “Guarda,
Vittorio, quella coppia. Lui potrebbe essere il padre. Si vede chiaramente che
lei l’ha imbambolato ben bene.” “Che linguaccia che te tu sei. Un si possono
volere bene anche con quella differenza d’età?” “Uhh, quanto siete ingenui voi
uomini. Una bella donna di quarant’anni starebbe con quel tricheco per amore?
Ma và! S’è fatta convincere dal cecio da cinque carati, altro che
romanticismo!” In quel momento si abbassarono le luci e, dalla porta della
cucina, che spiccava illuminata nella sala semibuia, uscì una fila di camerieri
portando ciascuno un vassoio coperto alzato al livello delle spalle. Sfilarono
tra i commensali fermandosi, coreograficamente, ognuno vicino ad un tavolo.
Stettero un momento fermi, tra l’ammirata aspettativa degli ospiti, ed ad un
cenno del maître, contemporaneamente, sollevarono i coperchi mostrando fieri la
prima pietanza che fu accolta da un” Ohhh” e da uno scrosciante applauso. Poi
servirono la prima delle seguenti dodici portate, da tutti entusiasticamente
spazzolate all’insegna del “E’ tutto pagato, diamoci sotto!”.
La prima
notte a bordo servì per digerire, e la mattina dopo Kathia ed il marito si
affacciarono sul ponte accolti da un magnifico sole e dal cielo azzurro e senza
una nuvola. La temperatura era ideale, non troppo caldo ma sufficiente per restare
in camicetta e pantaloncini. La brezza marina scompigliava i capelli della
donna ed il riverbero del mare la costrinse ad indossare gli occhiali scuri.
Barcellona era ancora a circa tre ore di navigazione e l’arrivo era previsto
nel primo pomeriggio. “Vieni, sdraiamoci su quei lettini.” I coniugi presero
posto su due sdraio in favore di sole e chiusero gli occhi cercando
l’abbronzatura e godendo delle sensazioni trasmesse dal leggero rollio e dallo
sciabordare dell’acqua sulla chiglia. Non parlavano per non interrompere la
magia del momento, e si stavano quasi assopendo, quando una coppia si stese sui
lettini vicino. Kathia riconobbe, dalla voce, il marito e la moglie di Modena
che sedevano al loro tavolo la sera prima, e non poté fare a meno di tendere
l’orecchio alla conversazione. “Boia d’un mond lader, che brutta fine!” disse
l’uomo. “Uhmmm” “Poco fa ho fatto colazione con il Commissario di bordo, e mi
ha raccontato.” “Cosa?” “Non lo vogliono dire per non turbare i croceristi, ma
stamattina, sai quella bella donna che stava con quel signore maturo vicino a
noi a cena, è andata dal Comandante e gli ha detto che suo marito è morto nel
sonno, stanotte.” “Oh, Signur!” “Ehhh…dice che si è suicidato. Pare abbia
ingerito del cianuro in bagno, prima di andare a letto, e poi nella notte è
spirato senza che lei se ne accorgesse. Stamattina si è alzata e l’ha trovato
cadavere, povera donna.” “Poverino lui, casomai. Tu prendi sempre le parti
delle belle donne, vè?” “Ma va là, stai buonina, pensa lo shock della
poveretta. Adesso è sconvolta. Ha telegrafato per un elicottero che
l’aspettasse al porto, vuole rientrare subito a casa ad avvisare i figli di
lui,” “E la salma?” “Dice il Commissario che sarà trattenuta dalla Polizia di
Barcellona per gli adempimenti burocratici e poi translata in Italia.” La
parrucchiera era ancora stesa e con gli occhi chiusi, ma il suo cervello elaborava
le informazioni ricevute mentre il ginocchio aveva incominciato a dolerle,
forte. Questo non era un buon segno. Il sintomo si manifestava quando nel suo subconscio
suonava un campanello d’allarme. C’era qualcosa nelle chiacchiere che aveva
ascoltato che non quadrava. Di colpo ricordò un articolo che aveva letto su
“Focus”, la rivista scientifica che qualche volta comprava il marito, e si
rizzò a sedere sul lettino. “Che l’è?” disse Vittorio vedendo quell’improvviso
scatto. “Vieni, dobbiamo parlare con il Commissario di Bordo.” “Per cosa?”
“Zitto e alzati! Dai!” Quando partiva in quarta, l’uomo aveva imparato che era
meglio assecondarla e, sbuffando, si rassegnò ad abbandonare quel piccolo
angolo di paradiso.
“E’ evidente
che il morto è stato ucciso, e l’assassina è la moglie.” Kathia esordì in
questa maniera davanti all’Ufficiale della nave che si erano affrettati a
raggiungere. “Calma, signora. Se si riferisce al disgraziato evento di
stanotte, non abbiamo alcun motivo per dubitare delle parole della signora. Ci
ha raccontato che il marito era gravemente depresso per sue vicende personali,
e lei temeva un gesto disperato, ma non se l’aspettava proprio ieri.” “Balle!
L’ha ucciso lei!” “Come fa ad affermarlo con tanta sicurezza se non ha altri
dati che il racconto udito sul ponte? Non ha visto il cadavere né può avere
scoperto alcuna prova.” “Commissario, possibile che non vedete l’evidenza? La
“signora” ha affermato che il marito è morto nel sonno e che lei se ne è
accorta solo al mattino. Vero?” “Si, e quindi?” “Si è accertato, dall’odore di
mandorle e dalle parole della donna, che si è trattato di cianuro. Vero?”
“Affermativo, vada avanti.” “Ohggesù! Il prosciutto sugli occhi!” Kathia si
accorse di avere esagerato. “Scusi, Commissario, non intendevo essere sgarbata,
ma il racconto è palesemente falso.” L’ufficiale era sul punto di cacciare
quella maleducata impicciona, ma la curiosità ebbe il sopravvento. “Si
spieghi.” “La morte provocata dal cianuro è particolarmente dolorosa ed impiega
diversi minuti a compiersi. L’agonia è progressiva e la vittima non può non
lamentarsi e urlare straziata dalle fitte lancinanti. Questo può protrarsi fino
a quindici minuti o più, dipende dalla dose ingerita. E’ una morte certa, ma
mai silenziosa. E’ impossibile che la moglie, dormendo nella stessa cabina, non
si sia accorta che il marito stava morendo. E l’affermazione che il trapasso
sia avvenuto silenziosamente è una bugia grande quanto una casa! Di
conseguenza, il motivo per il quale ha mentito è che lei ha assassinato il marito.”
L’elicottero
fu annullato ed alla Guardia Civil, insieme alla salma, fu consegnata anche la
donna in attesa dell’estradizione con l’accusa di omicidio volontario. La
grande balena d’acciaio continuò la sua navigazione per il Mediterraneo indifferente
e maestosa.
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