venerdì 25 aprile 2014

Oltre la porta.


Sei oltre quella porta. Mi stai aspettando per vedere se uscirò con la mia chitarra o imbracciando il fucile. Potrei suonare un blues o una musica country, che ti farebbero sentire il dolore dell’anima e ti spiegherebbero la profondità delle mie rughe. Oppure potrei spararti, sarebbe lo stesso: tanto non capiresti. Ho vissuto ottant’anni più uno per cercare di parlarti, ma tu che ne sai di questa stoffa che copre la mia fronte o del significato di una chitarra bucata. La musica mi ha sempre accompagnato e mi è stata vicina lungo tutto il cammino per le tante strade per cui mi sono trascinato. Tu mi hai spesso seguito, ascoltato, adulato e illuso, ma più mi rendevo conto della tua presenza, maggiormente capivo come tramassi alle mie spalle aspettando solo il momento giusto. Sto accarezzando la mia bianca barba e rifletto sulla maniera migliore di affrontarti. Non ho certo paura di te. E’ una sfida che dovevamo, prima o poi, combattere e io sono pronto. Sono preparato, da molto tempo. Da quando ho capito che non mi avresti lasciato in pace e che tutto il sentimento e l’amore che ho sempre messo in quello che ho fatto, non ti avrebbero né convinto né commosso. Una volta ero in un capanno di caccia nel folto di una foresta del Wisconsin ed un grizzly, attirato dall’odore del cibo che stavo cucinando, sfondò la porta minacciandomi, dall’alto dei suoi tre metri d’altezza, ringhiando inferocito. Gli sparai una, due, tre volte senza riuscire a fermarlo. Mi diede una zampata scaraventandomi da una parte, si prese quello che, evidentemente gli sembrava più appetitoso di me, e se ne andò, facendomi provare tutta la mia impotenza nell’oppormi a forze superiori alla mia. Fu una bella lezione. Capii che non solo non si può sempre vincere, ma che, a volte, combattere è illusorio, anche se mai inutile. Ho l’impressione che con te, dall’altra parte della porta, sia un po’ la stessa situazione. Non ho la speranza di vincere, ma tu non hai il coraggio di entrare, e stai aspettando. E allora, vigliacca e infingarda, lasciami cantare ancora una volta “Blue eyes crying in the rain”, poi distruggerò la mia, LA MIA, chitarra. Ha raccolto le mie lacrime, rallegrato le mie feste e accompagnato le mie serenate: non la devi toccare con le tue manacce. Mi senti? Capisci che non ti temo? Ed ora esco, ti affronterò scaricando i pallettoni su di te.
Willie si alzò, scaraventò la chitarra sul pavimento, spezzando il manico, e aprì la porta di casa. Fuori non c’era nessuno, ma percepì una presenza che adesso non gli sembrava più ostile. Sembrava una specie di entità che teneva per le briglie un appaloosa già sellato. Con un gesto cortese fu invitato a montare. Lui salì, godendo ancora una volta della sensazione di libertà che aveva provato cavalcando nelle praterie del Texas. Il cavallo partì al galoppo per le valli dell’immenso cielo, lasciando in terra il corpo di un vecchio cow boy con un sorriso sulle labbra.      

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