Guardalu
bbonu guardalu tuttu, l’ommu senza sordi è sempre bruttu. Questo proverbio del
mio paese avevo in testa quando, a diciott’anni, lasciai Zapponeta per andare a
prendere il treno a Manfredonia. Mio padre si spaccava la schiena facendo il
mezzadro in campagna dodici ore al giorno per poche lire ed io non volevo fare
la stessa fine. A proposito, mi scuso se scrivo male, ma decisi di abbandonare presto
la scuola ed andarmene da casa per cercare fortuna altrove. Ero un ragazzino
bassetto, gracile con una massa di capelli ricci, un nasone e, come se non
bastasse, cecato come una talpa. Però avevo chiaro in testa che, se fossi
restato, non avrei avuto nessuna possibilità di farmi una vita, mentre al nord,
a Milano, c’era u’ dinaru. I primi tempi, per mangiare, feci il cameriere, l’apprendista
muratore e tutto quello che mi capitava. Il mio unico divertimento, che mi
consentiva di guadagnare anche qualche mille lire, era cantare in qualche
balera il sabato sera. In una di queste occasioni, ebbi il colpo di fortuna. Era
presente un talent-scout che, forse annebbiato dal troppo barbera, vide in me
il nuovo Peppino Gagliardi. Avevo un timbro di voce bassa, confidenziale e
melodica, nella tradizione della musica popolare, e il fatto di essere miope e
guardare verso l’infinito, mi faceva sembrare sempre particolarmente ispirato,
mentre era dovuto allo sforzo di distinguere qualcosa a tre palmi dal mio naso.
“Com l’è che te ciami?” mi chiese quello che poi divenne il mio agente. “Michele
Scommegna e vengo dalla Puglia.” “Che razza di nome è? Devi farti conoscere con
un nome facile, che si ricordi subito. Pensaci un po’, come vorresti essere
presentato? Signore e signori ecco a voi…” Mi venne spontaneo. Tutte le sere
affido la mia vita al Santo al quale sono particolarmente devoto, e quindi
risposi: “Nicola!” “Sì, può andare. C’è Michele, Giuliano, ed altri. Però facciamo
come Peppino di Capri: ti chiamerai Nicola di Bari!” “Ma io non sono di Bari.” “Bari,
Lecce, Brindisi, chi se ne frega. Tutte laggiù stanno.” Fui battezzato una
seconda volta, e con quel nome incominciai a fare le prime serate e poi il Cantagiro
fino ad arrivare ad ora: il Festival di Sanremo del 1970. Miii che pauraaa!!
Devo cantare “La prima cosa bella” che ho scritto insieme a Mogol. La seconda
versione è affidata ai Ricchi e Poveri che la vogliono “swingare”. Mi ci stavo
incavolando, mi ci stavo. Melodica deve essere la canzone. Che c’entrano i
ritmati e gli urletti della brunetta? Va bè, lu centu per centu, manco lu papa
è contentu, facciano un po’ come vogliono. Vedremo chi venderà di più. Mi sono
stirato i capelli, ho alleggerito la montatura degli occhiali e porto i
basettoni come i beat, ma sempre brutto sono. Angelo pure si ossigena i capelli
per farsi biondo mentre fa la parte del “ricco” in contrapposizione all’altro “povero”,
ma riesce a sembrare bello. Fa niente. Certe volte mi chiedo come faccio io a
stare qui. Ti rendi conto che quelli sono Celentano e la Mori? Che lì c’è Patty
Pravo, Fausto Leali e Ornella Vanoni? Che devo competere con Tony Renis, Iva
Zanicchi e Caterina Caselli? Non ci devo
pensare. Tra un po’ tocca a me, e speriamo che la telecamera mi renda un po’
meno brutto di quello che sono. Come fanno le ragazzine, che dovranno comprare
i dischi, a farsi affascinare da me? Guarda come sono belli Mal dei Primitives,
Nino Ferrer o Sergio Leonardi. Io manco se vado in ginocchio a chiedere il
miracolo, potrei diventare caruccio. Niente foto di gruppo, specialmente vicino
a loro. Dice: “Ma allora, per esempio, Aznavour? E’ anche lui piccoletto,
bruttino, eppure ha un successone!”. Dico: “Quello francese è! Fascinoso già
per la lingua e poi di forte personalità, grande compositore, una storia umana
tormentata. Io sono solo un immigrato meridionale come tanti.” Ohé, mi sta
chiamando Enrico Maria Salerno, che presenta lo spettacolo: vado!
Secondo,
dopo “Chi non lavora non fa l’amore” di Celentano, e prima di Sergio Endrigo e
dei Camaleonti. Alcuni uomini, invecchiando, migliorano acquistando fascino e
smorzando le asperità giovanili. Non per me. Io credo di essere diventato
sempre più brutto, anche se non era facile. Eppure vinsi il Sanremo ‘71 e ’72 e
il Festival Europeo oltre a vendere una valanga di dischi a 45 e 33 giri. La
morale, credo, sia questa. A volte non è importante avere delle doti che
spicchino in maniera rilevante rispetto agli altri. Nel mio caso, non ero
bello, avevo una voce gradevole ma non eccezionale ed una scarsa presenza
scenica. La cosa essenziale è provarci, avere costanza, impegno, buona volontà
e, soprattutto, una stella che ti sorride nel firmamento. O, più volgarmente,
culo!
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