mercoledì 9 aprile 2014

Brahms e Paris

Ma Brahms mi piace davvero? Ero a Parigi per un congresso che si era rivelato noiosissimo a proposito delle nuove tecniche odontoiatriche di implantologia al titanio. Il terzo giorno non ce la feci più. Con l’animo di un liceale che fa la marachella di nascosto ai genitori, non mi presentai nell’aula dove diversi pedanti conferenzieri avrebbero continuato a pontificare (nel vero senso della parola) sulle nuove tecniche per far felici i pazienti e, di conseguenza, le proprie tasche. Con questo vago senso di colpa per un compito non fatto, ma con la stessa leggera euforia delle prime “seghe” a scuola, quel pomeriggio di aprile uscii dal mio albergo ad Avenue Montaigne senza una meta precisa, ma deciso a godermi la primavera parigina ed il senso di libertà che si prova quando nessuno ti conosce e non hai la responsabilità di indossare alcuna maschera. Un boulevard dopo l’altro ed, alle sei del pomeriggio, stanco della camminata, mi fermai ad un Cafè per una birra.
Mi sedetti nella veranda che dava sul marciapiede ad osservare i passanti mentre il liquido ambrato e fresco appannava il bicchiere dandomi il sollievo richiesto dai primi caldi e dalla lunga passeggiata. La mente vagava su pensieri piacevoli. Non poteva essere altrimenti in una città così bella. L’aria fresca faceva ondeggiare i mandorli già in fiore e le persone, camminando sui marciapiedi, sembrava fossero comparse di un film di Cukor.
Avevo lasciato la mia famiglia nel Maine per il tempo di adempiere a questo noioso dovere e avevo ancora due giorni di giustificata libera uscita che intendevo godermi appieno. Intendiamoci: senza alcun fine malizioso, ma la routine quotidiana fatta di bollette da pagare, lo stress quotidiano della metropoli, i problemi sul lavoro e tutto il resto che si deve affrontare per andare avanti, alla lunga, diventano pesanti.
 Mi mancava mia moglie. Ma, se devo essere sincero, sognavo di avere con me non la mia consorte attuale, ma la mia donna com’era quando l’avevo conosciuta o, almeno, i primi tempi del nostro matrimonio. Certo, capisco che anche per lei io non sono più lo stesso, e oggi, ambedue accettiamo l’evoluzione che hanno tutte le coppie con un pizzico di rimpianto per i tempi andati. Fatta questa riflessione, se mia moglie, così com’è, fosse stata qui, avrei volentieri stappato con lei una bottiglia di champagne con la speranza che sarebbe stato il viatico per qualcosa di fuori dall’ordinario.
Stavo, quindi, sorseggiando la mia birra con un sorrisetto sulle labbra e nel contempo osservando i passanti, quando la mia attenzione fu attratta da una giovane signora. Molto elegante, con un grande cappello grigio, a completare una mise in tinta. Passeggiava lungo il marciapiede ma con un’andatura che denotava o una zoppia molto pronunciata, o un grave problema con la sua scarpa destra. Ad un certo punto, evidentemente, la signora non ce la fece più. Si appoggiò al muro del palazzo vicino e, con molta non calanche, si tolse la calzatura. Guardò dentro con evidente fastidio, scrollò la scarpa, e ne fece uscire un sassolino, al quale leverei comodamente il diminutivo. Poi, sempre con molta classe, e come se fosse sola nel suo boudoir, si rimise la calzatura e riprese il suo cammino.
Non so perché quella scena mi affascinò tanto. Non era successo niente di speciale, e forse era proprio questo. Quella donna aveva compiuto dei gesti quotidiani, e quasi volgari, con una eleganza e con una classe che, forse, solo una parigina può avere.
Cosa mi scattò nella mente? Certo non l’istinto predatore del pappagallo latino né, tantomeno, la voglia di una poco probabile avventura. Mi alzai dal tavolino lasciando una cifra che, probabilmente, avrebbe pagato almeno cinque delle mie consumazioni, e mi misi appresso a quella donna.
Che intenzioni avevo? Non lo sapevo. Nessuna, se non la curiosità di vedere come si muovesse un animale tanto diverso dalla fauna alla quale ero abituato. Lei, liberata dal fastidioso impiccio, si mosse spedita verso la strada che conduceva verso l’Opera Bastille. Standole dietro non potei fare a meno di notare come la sua andatura ricordasse il movimento sinuoso delle onde del mare, e di considerare che ciò che in un’altra donna ed in un altro posto avrei considerato voluto e civettuolo, in lei sembrava far parte della sua natura, del suo essere donna fatta per essere ammirata, ma forse, neanche toccata.
Si diresse spedita verso il teatro ed entrò dirigendosi verso il botteghino. Io sempre dietro con la speranza che non se ne avvedesse. Comprò un biglietto ed entrò nella sala. Mi avvicinai alla locandina per vedere quale spettacolo fosse in programmazione. Era la sinfonia n. 3 di Brahms diretta dal Maestro Von Rischovich con l’orchestra dell’Opera di Berlino.
Mi piace la musica. Un po’ tutta. Dovessi fare una classifica metterei prima il rock/blues poi il pop quindi l’opera e poi la sinfonica. Spesso, la sera, sto al computer a scrivere le mie cose con le cuffie a sentire i classici degli anni sessanta. Se proprio mi sento in vena intellettuale, posso mandare una quinta di Beethoven o un Mozart, raramente Chopin, troppo triste. Brahms, sinceramente: sconosciuto. Ero arrivato fino a lì, l’avventura è l’avventura: comprai il biglietto. Entrai nella sala. C’era poca gente sparsa senza un ordine preciso. Individuai subito il cappello grigio. I posti erano numerati, ma nessuno mi avrebbe detto niente se mi fossi messo dietro la signora in un posto lasciato vuoto.
Così feci. Perché e con quale scopo? Non so e nessuno, con tutta sincerità. L’orchestra era schierata ed, ad un cenno del primo violino, si alzò in tutti i suoi componenti per accogliere con un applauso il Maestro. Due colpi al leggio ed il concerto iniziò. Fui rapito dai primi movimenti ed il basso accompagnamento dei violoncelli sottolineò una melodia che mi rapì nella sua fascinazione. Il cappello avanti a me, ogni tanto accompagnava un movimento o sottolineava un passaggio armonico. Finché non ci fu una pausa tra i due tempi del concerto.
Feci una cosa che non avrei mai sognato di osare di fare. Mi sporsi verso la signora avanti a me e le dissi in inglese, visto il mio scarsissimo francese, “mi scusi avrebbe un programma del concerto?” Lei si voltò. Le vidi, per la prima volta, gli occhi. Si dice che quello che affascinò Richard Burton fu il viola profondo degli occhi di Liz Taylor. Non saprei definire, o non ricordo, il colore dei suoi occhi, ma il suo sguardo mi inchiodò alla poltrona del teatro. “Le piace Brahms?” mi chiese. Non seppi rispondere. La domanda era troppo difficile. Lo sguardo troppo impegnativo. Già solo il contatto verbale troppo pericoloso. Troppo, troppo di tutto. Biascicai qualcosa in risposta e mi ritrassi spaventato da una Circe che sarebbe potuta essere domata da un Ulisse molto più forte di me.
All’intervallo uscii dal teatro fiero di aver resistito alla tentazione di quella sirena, ma anche con un po’ di rimpianto per un’avventura non vissuta. Ho fatto bene o sono fuggito? Mi sono lasciato scappare una Leslie Caron da accompagnare al “Lapin Agile” di Montmartre? Je ne sais pas. Comunque è meglio vivere con l’illusione di un sogno che si sarebbe potuto realizzare che con il segno rosso di uno schiaffone sulla guancia.




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