martedì 29 aprile 2014

Sanremo 1970

Guardalu bbonu guardalu tuttu, l’ommu senza sordi è sempre bruttu. Questo proverbio del mio paese avevo in testa quando, a diciott’anni, lasciai Zapponeta per andare a prendere il treno a Manfredonia. Mio padre si spaccava la schiena facendo il mezzadro in campagna dodici ore al giorno per poche lire ed io non volevo fare la stessa fine. A proposito, mi scuso se scrivo male, ma decisi di abbandonare presto la scuola ed andarmene da casa per cercare fortuna altrove. Ero un ragazzino bassetto, gracile con una massa di capelli ricci, un nasone e, come se non bastasse, cecato come una talpa. Però avevo chiaro in testa che, se fossi restato, non avrei avuto nessuna possibilità di farmi una vita, mentre al nord, a Milano, c’era u’ dinaru. I primi tempi, per mangiare, feci il cameriere, l’apprendista muratore e tutto quello che mi capitava. Il mio unico divertimento, che mi consentiva di guadagnare anche qualche mille lire, era cantare in qualche balera il sabato sera. In una di queste occasioni, ebbi il colpo di fortuna. Era presente un talent-scout che, forse annebbiato dal troppo barbera, vide in me il nuovo Peppino Gagliardi. Avevo un timbro di voce bassa, confidenziale e melodica, nella tradizione della musica popolare, e il fatto di essere miope e guardare verso l’infinito, mi faceva sembrare sempre particolarmente ispirato, mentre era dovuto allo sforzo di distinguere qualcosa a tre palmi dal mio naso. “Com l’è che te ciami?” mi chiese quello che poi divenne il mio agente. “Michele Scommegna e vengo dalla Puglia.” “Che razza di nome è? Devi farti conoscere con un nome facile, che si ricordi subito. Pensaci un po’, come vorresti essere presentato? Signore e signori ecco a voi…” Mi venne spontaneo. Tutte le sere affido la mia vita al Santo al quale sono particolarmente devoto, e quindi risposi: “Nicola!” “Sì, può andare. C’è Michele, Giuliano, ed altri. Però facciamo come Peppino di Capri: ti chiamerai Nicola di Bari!” “Ma io non sono di Bari.” “Bari, Lecce, Brindisi, chi se ne frega. Tutte laggiù stanno.” Fui battezzato una seconda volta, e con quel nome incominciai a fare le prime serate e poi il Cantagiro fino ad arrivare ad ora: il Festival di Sanremo del 1970. Miii che pauraaa!! Devo cantare “La prima cosa bella” che ho scritto insieme a Mogol. La seconda versione è affidata ai Ricchi e Poveri che la vogliono “swingare”. Mi ci stavo incavolando, mi ci stavo. Melodica deve essere la canzone. Che c’entrano i ritmati e gli urletti della brunetta? Va bè, lu centu per centu, manco lu papa è contentu, facciano un po’ come vogliono. Vedremo chi venderà di più. Mi sono stirato i capelli, ho alleggerito la montatura degli occhiali e porto i basettoni come i beat, ma sempre brutto sono. Angelo pure si ossigena i capelli per farsi biondo mentre fa la parte del “ricco” in contrapposizione all’altro “povero”, ma riesce a sembrare bello. Fa niente. Certe volte mi chiedo come faccio io a stare qui. Ti rendi conto che quelli sono Celentano e la Mori? Che lì c’è Patty Pravo, Fausto Leali e Ornella Vanoni? Che devo competere con Tony Renis, Iva Zanicchi e Caterina Caselli?  Non ci devo pensare. Tra un po’ tocca a me, e speriamo che la telecamera mi renda un po’ meno brutto di quello che sono. Come fanno le ragazzine, che dovranno comprare i dischi, a farsi affascinare da me? Guarda come sono belli Mal dei Primitives, Nino Ferrer o Sergio Leonardi. Io manco se vado in ginocchio a chiedere il miracolo, potrei diventare caruccio. Niente foto di gruppo, specialmente vicino a loro. Dice: “Ma allora, per esempio, Aznavour? E’ anche lui piccoletto, bruttino, eppure ha un successone!”. Dico: “Quello francese è! Fascinoso già per la lingua e poi di forte personalità, grande compositore, una storia umana tormentata. Io sono solo un immigrato meridionale come tanti.” Ohé, mi sta chiamando Enrico Maria Salerno, che presenta lo spettacolo: vado!

Secondo, dopo “Chi non lavora non fa l’amore” di Celentano, e prima di Sergio Endrigo e dei Camaleonti. Alcuni uomini, invecchiando, migliorano acquistando fascino e smorzando le asperità giovanili. Non per me. Io credo di essere diventato sempre più brutto, anche se non era facile. Eppure vinsi il Sanremo ‘71 e ’72 e il Festival Europeo oltre a vendere una valanga di dischi a 45 e 33 giri. La morale, credo, sia questa. A volte non è importante avere delle doti che spicchino in maniera rilevante rispetto agli altri. Nel mio caso, non ero bello, avevo una voce gradevole ma non eccezionale ed una scarsa presenza scenica. La cosa essenziale è provarci, avere costanza, impegno, buona volontà e, soprattutto, una stella che ti sorride nel firmamento. O, più volgarmente, culo!


 

venerdì 25 aprile 2014

Oltre la porta.


Sei oltre quella porta. Mi stai aspettando per vedere se uscirò con la mia chitarra o imbracciando il fucile. Potrei suonare un blues o una musica country, che ti farebbero sentire il dolore dell’anima e ti spiegherebbero la profondità delle mie rughe. Oppure potrei spararti, sarebbe lo stesso: tanto non capiresti. Ho vissuto ottant’anni più uno per cercare di parlarti, ma tu che ne sai di questa stoffa che copre la mia fronte o del significato di una chitarra bucata. La musica mi ha sempre accompagnato e mi è stata vicina lungo tutto il cammino per le tante strade per cui mi sono trascinato. Tu mi hai spesso seguito, ascoltato, adulato e illuso, ma più mi rendevo conto della tua presenza, maggiormente capivo come tramassi alle mie spalle aspettando solo il momento giusto. Sto accarezzando la mia bianca barba e rifletto sulla maniera migliore di affrontarti. Non ho certo paura di te. E’ una sfida che dovevamo, prima o poi, combattere e io sono pronto. Sono preparato, da molto tempo. Da quando ho capito che non mi avresti lasciato in pace e che tutto il sentimento e l’amore che ho sempre messo in quello che ho fatto, non ti avrebbero né convinto né commosso. Una volta ero in un capanno di caccia nel folto di una foresta del Wisconsin ed un grizzly, attirato dall’odore del cibo che stavo cucinando, sfondò la porta minacciandomi, dall’alto dei suoi tre metri d’altezza, ringhiando inferocito. Gli sparai una, due, tre volte senza riuscire a fermarlo. Mi diede una zampata scaraventandomi da una parte, si prese quello che, evidentemente gli sembrava più appetitoso di me, e se ne andò, facendomi provare tutta la mia impotenza nell’oppormi a forze superiori alla mia. Fu una bella lezione. Capii che non solo non si può sempre vincere, ma che, a volte, combattere è illusorio, anche se mai inutile. Ho l’impressione che con te, dall’altra parte della porta, sia un po’ la stessa situazione. Non ho la speranza di vincere, ma tu non hai il coraggio di entrare, e stai aspettando. E allora, vigliacca e infingarda, lasciami cantare ancora una volta “Blue eyes crying in the rain”, poi distruggerò la mia, LA MIA, chitarra. Ha raccolto le mie lacrime, rallegrato le mie feste e accompagnato le mie serenate: non la devi toccare con le tue manacce. Mi senti? Capisci che non ti temo? Ed ora esco, ti affronterò scaricando i pallettoni su di te.
Willie si alzò, scaraventò la chitarra sul pavimento, spezzando il manico, e aprì la porta di casa. Fuori non c’era nessuno, ma percepì una presenza che adesso non gli sembrava più ostile. Sembrava una specie di entità che teneva per le briglie un appaloosa già sellato. Con un gesto cortese fu invitato a montare. Lui salì, godendo ancora una volta della sensazione di libertà che aveva provato cavalcando nelle praterie del Texas. Il cavallo partì al galoppo per le valli dell’immenso cielo, lasciando in terra il corpo di un vecchio cow boy con un sorriso sulle labbra.      

mercoledì 16 aprile 2014

Quando il sole tramonta.

Verso il tramonto di una sera d’estate, un vecchio pescatore sedeva fuori di una baracca in riva al mare, con in mano un bicchiere di vino, e lo sguardo perso all’orizzonte. “Scusate, mi sapete dire dove si trova la Locanda del Cartello?” Mi dispiacque interrompere quello che sembrava un intenso raccoglimento di fronte al maestoso spettacolo che la natura stava mettendo in scena, ma mi ero perso ed avevo bisogno d’aiuto. “Signorì, la locanda è chiusa. Gli affari non andavano tanto bene ed i fratelli che la gestivano hanno litigato. Si sono spartiti quello che c’era, e hanno chiuso il locale.” Questa era una piccola delusione. Mi avevano raccomandato il locale per la sua cucina, ancora fatta di prodotti genuini, e per la vista spettacolare del golfo di Sorrento che si poteva godere dalla terrazza. Il pescatore notò come fossi contrariato e, per consolarmi, mi fece una proposta. “E’ ancora presto per la cena. Dopo vi indicherò un altro posto di un compare amico mio che vi tratterà bene. Vi assicuro che, se assaggerete il suo fritto di paranza, più tardi mi ringrazierete. Per fare ora, se non avete altri posti dove andare, gradite un bicchiere di vino con me.” Come prima impressione, non avrei detto che quell’uomo anziano, assorto nei suoi pensieri, fosse una persona particolarmente socievole, ma forse ero capitato in uno di quei momenti in cui si sente il bisogno di sturare la propria anima e lasciar traboccare quello che di troppo vi è compresso. Il pescatore, dopo avermi versato un’abbondate dose di un bianco asprigno, mi fece accomodare su una sedia accanto alla sua. In quel momento pensai che non c’era al mondo nessun cinque stelle lusso che potesse offrire di più di quel mare, di quel vino e di quella pace. E di come fosse bella la vita. Ma, come dicevo, il vecchio, aveva bisogno di parlare. “Vedete, signorì, com’è bello qui. Non vi fate ingannare: è una fregatura. La vita è una fregatura. Mi ricordo di un fogliettino dei Baci Perugina e, cambiando un po’ quello che c’era scritto, posso affermare che “la vita è l’apostrofo grigio tra le parole aggia’amurì”. Veniamo dal niente, se vuole, da una casuale combinazione biochimica, e finiremo nel nulla. Però noi ci raccontiamo che questa “vita” sia importante. Ma è solo perché l’abbiamo. Anche una vacca è importante per il contadino che la possiede come una casa per il proprietario e così via, ma che valore ha una cosa della quale non possiamo disporre come vogliamo e che, soprattutto, spesso ci rende più infelici che soddisfatti? E poi è fetente, la vita. Gioca con noi, alle tre carte. Ci fa vedere una carta con l’amore e la felicità dei sentimenti, poi la copre, poggia le carte sul banchetto, le muove e chiede, se vogliamo vincere, di indicare qual è la carta che aveva mostrato. Noi, ovviamente ingannati dall’abilità della vita truffatrice, indichiamo quella sbagliata, e perdiamo. Poi fa lo stesso con le carte della ricchezza e del successo, ma ancora ci inganna. Se è particolarmente carogna tira fuori la carta della salute e gioca facendoci perdere anche con quella. E questa è la vita che noi dovremmo amare? Io, signorì, sono ignorante, ma ho tanti anni sulle spalle e ancora non ho capito il senso dello stare al mondo, ma Bonolis, in televisione, lo chiedeva a tutti e mi sembra che ognuno avesse una risposta diversa. Quindi non esiste una sola e vera risposta, come nessun filosofo o teologo, in tutti i secoli passati, credo sia mai riuscito a dare. Per quanto mi riguarda c’è soltanto il ricatto dei sentimenti, ovvero il senso di colpa nei confronti dei mei cari che mi tiene legato a tutta questa pantomima. Altre motivazioni, più l’artrite mi impedisce di riparare le reti per la pesca, meno riesco a trovarle.” Lo guardai negli occhi azzurri e profondi, immersi in un mare increspato di rughe, che da soli parlavano in quel viso bruciato dal sole e sbiancato dalla barba ormai incanutita. Come non serve nessun insegnamento per trovare il seno di una madre, così non contano mille anni di studio per trovare una risposta che non c’è o che è diversa per ciascuno di noi. Così risposi nella sola, insoddisfacente, maniera che a quella domanda mi ero anch’io dato. “Amico mio, per alcuni la risposta è la fede. Motivano sofferenze e sottomissioni con una ipotetica e mai provata ricompensa in un’altra vita. Altri credono che questa sia solo una consolazione per i patimenti quotidiani ed i soprusi dei potenti e, quindi, niente abbia a che vedere con l’etica naturale non trovando alcun senso alla vita. Io, più semplicemente, credo che sediamo in un vagoncino agganciato al convoglio che corre sulle montagne russe. Ormai ci siamo. Non possiamo scendere, cerchiamo di spaventarci il meno possibile e, anzi, di divertirci se ci riusciamo. Urliamo, piangiamo, diciamo parolacce e speriamo che, alla fine del percorso, scenderemo con un sorriso.” “Tu sì nù babà!” In quel momento il sole si inabissò lasciando un cielo rosso con la promessa di un nuovo incontro dopo l’intervallo della notte.

lunedì 14 aprile 2014

Una goccia di cera.


Una goccia di cera bollente scivola sulla mia pelle
come una parola che non voglio mi ferisca nel profondo.
Quanto deve rendersi roccia quest’anima per sopportare
le mie e le tue tempeste?
Crescono, lividi ed infidi, i marosi voraci delle notturne inquietudini e fobie,
mentre una sorda pena corrode la stanca anima.
Un passo o un salto, soluzioni del destino, in sospeso
fintanto che il finto abbaglio di un’illusione muoverà la speranza.  









domenica 13 aprile 2014

L'ultima festa.

Rollami e fumami, quando morirò. E se a qualcuno non piacerà, guardalo negli occhi e lascialo andare. Quando sarà il momento, raduna gli amici intorno a un fuoco e dì loro che c’è una festa. Quando me ne andrò, avrò vissuto abbastanza e voi dovrete ridere, cantare e ballare fino a quando suonerà la musica. Poi rivolgetemi un saluto. Non ci dovrà essere tristezza o lacrime negli occhi di nessuno. Sedete intorno alle braci e guardate le stelle. Rollatemi e fumatemi, quando morirò. E se a qualcuno non piacerà, basterà guardarlo negli occhi.

  

venerdì 11 aprile 2014

Il mio primo libro.

Lo so: sembra l’inizio di un film visto decine di volte, eppure è tutto vero. Avevo circa sette o otto anni e, in un noioso e solitario pomeriggio, andai in soffitta che, essendo grande e piena di scatoloni e cianfrusaglie, riservava sempre qualche sorpresa. Scoperchiai un baule a caso. Trovai qualche vecchio vestito, delle scatole con quaderni e diari di scuola, forse dei miei fratelli più grandi, e molti libri. I più belli erano illustrati a colori come gli Atlanti Geografici e, particolarmente affascinanti, i Planetari con la mappa del cielo e le costellazioni. Altri erano dizionari, volumi spaiati di enciclopedie e poi c’erano diversi romanzi per ragazzi. Uno di questi attirò la mia attenzione. Sembrava particolarmente vecchio, con la copertina un po’ consunta raffigurante un esotico disegno in bianco e nero che il tempo aveva reso quasi marroncino. L’aprii e, nelle pagine bianche che precedono la stampa, vidi poche righe scritte con una calligrafia antiquata e svolazzante, ma un po’ sbafata e con qualche macchiolina, come se le parole fossero state vergate ancora con il pennino intinto nel calamaio. “Questo volume appartiene a…(il nome di mio padre)…Roma, 1918.” Mio padre nacque nel 1906 e fra me e lui c’erano quarantotto anni di differenza che, specialmente nel secolo scorso, significava un gap generazionale praticamente insormontabile. Il fatto di trovare qualcosa che appartenesse a lui quando all’incirca aveva la mia età, e che probabilmente gli era piaciuto tanto da indurlo a rivendicarne per iscritto la proprietà, mi incuriosiva molto. Pensai, irrazionalmente, che se l’avessi letto, in qualche maniera, avrei avuto qualcosa in comune con lui e con quel bambino che anche mio padre, che avevo sempre conosciuto vecchio, doveva essere stato. A otto anni, avevo già letto qualcosa a scuola ma, fuori dai portoni del Marcantonio Colonna, per me esistevano solo i fumetti, e la decisione di affrontare il mio primo libro fu una tappa miliare nel cammino della mia esistenza. Per fortuna il genitore aveva scelto bene. Come meglio debuttare nella società dei lettori che leggendo “I Misteri della Giungla Nera” di Emilio Salgari? Ancora mi ricordo Tremal-Naik, Kamamurri e i malefici Sick con la dea Khali che richiedeva sacrifici umani. Grandioso! Il libro mi agganciò dalle prime pagine e lo lessi tutto scoprendo un mondo che poi seppi, con immensa ammirazione, l’autore aveva tutto inventato a tavolino non essendosi mai mosso da Torino. Ho posseduto l’intero ciclo dei pirati della Malesia e dei corsari nei vari colori per poi passare ad altre letture, ma quasi mai con lo stesso coinvolgimento. Ho il solo grande dispiacere che nei numerosi traslochi che mi è capitato di affrontare, è andato perso proprio quel libro che però, per me, rimane il più importante di tutti.


giovedì 10 aprile 2014

Sessant'anni.

Quando avrò sessant'anni. A quindici anni mi immaginavo se non proprio morto, molto vicino alla tomba. Sicuramente limitato nei movimenti, magari appoggiato ad un bastone, con pochi capelli bianchi ed occhiali con lenti spesse come fondi di bottiglia. Nel pieno della beat generation, quando anche i quarantenni facevano parte della razza dei “matusa”, un esemplare così anziano poteva solo avere un posto ai giardinetti o al Museo di Scienze Naturali nella sezione del Paleolitico. A trent’anni mi immaginavo a bordo di una Rolls Royce con al polso un Rolex d’oro ed un giro vita di centottanta centimetri. Un bel doppio o triplo mento avrebbe dovuto completare l’immagine di sfacciata opulenza che sarebbe stata la dimostrazione del mio successo nel campo degli affari. Cafonaggine al massimo grado solo temperata da una doverosa, ma distaccata, cortesia. A quarant’anni mi immaginavo con i figli cresciuti e sistemati. Chi executive manager con brillanti prospettive di carriera, chi seguendo il business di famiglia chi, magari, preferendo seguire la casa ed i nipoti che sarebbero nati nel frattempo. A cinquant’anni, beh per i sessanta manca poco. Mi immaginavo sereno, con la possibilità di tirare un po’ i remi in barca e, con mia moglie, di godermi i nipotini e quella vita che la frenesia delle decadi precedenti non aveva concesso di permetterci. Adesso ci sono vicino, anche se a detta dei miei amici del Circolo del Tennis non sembra neanche lontanamente, e qualcosa di quanto previsto l’ho realizzato. Non ho molti capelli e un po’ bianchi (qualcuno).  Il giro vita non è proprio di quell’ampiezza, ma con un po’ di buona volontà potrei arrivarci. Presento un accenno di doppio mento (appena percettibile) anche se il Rolex è solo d’acciaio. I figli sono in carriera e le soddisfazioni non mancheranno. Per quanto riguarda l’ultima parte, ogni tanto, con estremo piacere, mi godo il nipotino. Le gratificazioni accessorie, più legate agli aspetti venali, faccio finta che non siano importanti. “Will you still need me, will you still feed me?” è la domanda alla compagna della mia vita senza aspettare “when i’m sixty – four” promettendole che per me sarà lo stesso.   

mercoledì 9 aprile 2014

Brahms e Paris

Ma Brahms mi piace davvero? Ero a Parigi per un congresso che si era rivelato noiosissimo a proposito delle nuove tecniche odontoiatriche di implantologia al titanio. Il terzo giorno non ce la feci più. Con l’animo di un liceale che fa la marachella di nascosto ai genitori, non mi presentai nell’aula dove diversi pedanti conferenzieri avrebbero continuato a pontificare (nel vero senso della parola) sulle nuove tecniche per far felici i pazienti e, di conseguenza, le proprie tasche. Con questo vago senso di colpa per un compito non fatto, ma con la stessa leggera euforia delle prime “seghe” a scuola, quel pomeriggio di aprile uscii dal mio albergo ad Avenue Montaigne senza una meta precisa, ma deciso a godermi la primavera parigina ed il senso di libertà che si prova quando nessuno ti conosce e non hai la responsabilità di indossare alcuna maschera. Un boulevard dopo l’altro ed, alle sei del pomeriggio, stanco della camminata, mi fermai ad un Cafè per una birra.
Mi sedetti nella veranda che dava sul marciapiede ad osservare i passanti mentre il liquido ambrato e fresco appannava il bicchiere dandomi il sollievo richiesto dai primi caldi e dalla lunga passeggiata. La mente vagava su pensieri piacevoli. Non poteva essere altrimenti in una città così bella. L’aria fresca faceva ondeggiare i mandorli già in fiore e le persone, camminando sui marciapiedi, sembrava fossero comparse di un film di Cukor.
Avevo lasciato la mia famiglia nel Maine per il tempo di adempiere a questo noioso dovere e avevo ancora due giorni di giustificata libera uscita che intendevo godermi appieno. Intendiamoci: senza alcun fine malizioso, ma la routine quotidiana fatta di bollette da pagare, lo stress quotidiano della metropoli, i problemi sul lavoro e tutto il resto che si deve affrontare per andare avanti, alla lunga, diventano pesanti.
 Mi mancava mia moglie. Ma, se devo essere sincero, sognavo di avere con me non la mia consorte attuale, ma la mia donna com’era quando l’avevo conosciuta o, almeno, i primi tempi del nostro matrimonio. Certo, capisco che anche per lei io non sono più lo stesso, e oggi, ambedue accettiamo l’evoluzione che hanno tutte le coppie con un pizzico di rimpianto per i tempi andati. Fatta questa riflessione, se mia moglie, così com’è, fosse stata qui, avrei volentieri stappato con lei una bottiglia di champagne con la speranza che sarebbe stato il viatico per qualcosa di fuori dall’ordinario.
Stavo, quindi, sorseggiando la mia birra con un sorrisetto sulle labbra e nel contempo osservando i passanti, quando la mia attenzione fu attratta da una giovane signora. Molto elegante, con un grande cappello grigio, a completare una mise in tinta. Passeggiava lungo il marciapiede ma con un’andatura che denotava o una zoppia molto pronunciata, o un grave problema con la sua scarpa destra. Ad un certo punto, evidentemente, la signora non ce la fece più. Si appoggiò al muro del palazzo vicino e, con molta non calanche, si tolse la calzatura. Guardò dentro con evidente fastidio, scrollò la scarpa, e ne fece uscire un sassolino, al quale leverei comodamente il diminutivo. Poi, sempre con molta classe, e come se fosse sola nel suo boudoir, si rimise la calzatura e riprese il suo cammino.
Non so perché quella scena mi affascinò tanto. Non era successo niente di speciale, e forse era proprio questo. Quella donna aveva compiuto dei gesti quotidiani, e quasi volgari, con una eleganza e con una classe che, forse, solo una parigina può avere.
Cosa mi scattò nella mente? Certo non l’istinto predatore del pappagallo latino né, tantomeno, la voglia di una poco probabile avventura. Mi alzai dal tavolino lasciando una cifra che, probabilmente, avrebbe pagato almeno cinque delle mie consumazioni, e mi misi appresso a quella donna.
Che intenzioni avevo? Non lo sapevo. Nessuna, se non la curiosità di vedere come si muovesse un animale tanto diverso dalla fauna alla quale ero abituato. Lei, liberata dal fastidioso impiccio, si mosse spedita verso la strada che conduceva verso l’Opera Bastille. Standole dietro non potei fare a meno di notare come la sua andatura ricordasse il movimento sinuoso delle onde del mare, e di considerare che ciò che in un’altra donna ed in un altro posto avrei considerato voluto e civettuolo, in lei sembrava far parte della sua natura, del suo essere donna fatta per essere ammirata, ma forse, neanche toccata.
Si diresse spedita verso il teatro ed entrò dirigendosi verso il botteghino. Io sempre dietro con la speranza che non se ne avvedesse. Comprò un biglietto ed entrò nella sala. Mi avvicinai alla locandina per vedere quale spettacolo fosse in programmazione. Era la sinfonia n. 3 di Brahms diretta dal Maestro Von Rischovich con l’orchestra dell’Opera di Berlino.
Mi piace la musica. Un po’ tutta. Dovessi fare una classifica metterei prima il rock/blues poi il pop quindi l’opera e poi la sinfonica. Spesso, la sera, sto al computer a scrivere le mie cose con le cuffie a sentire i classici degli anni sessanta. Se proprio mi sento in vena intellettuale, posso mandare una quinta di Beethoven o un Mozart, raramente Chopin, troppo triste. Brahms, sinceramente: sconosciuto. Ero arrivato fino a lì, l’avventura è l’avventura: comprai il biglietto. Entrai nella sala. C’era poca gente sparsa senza un ordine preciso. Individuai subito il cappello grigio. I posti erano numerati, ma nessuno mi avrebbe detto niente se mi fossi messo dietro la signora in un posto lasciato vuoto.
Così feci. Perché e con quale scopo? Non so e nessuno, con tutta sincerità. L’orchestra era schierata ed, ad un cenno del primo violino, si alzò in tutti i suoi componenti per accogliere con un applauso il Maestro. Due colpi al leggio ed il concerto iniziò. Fui rapito dai primi movimenti ed il basso accompagnamento dei violoncelli sottolineò una melodia che mi rapì nella sua fascinazione. Il cappello avanti a me, ogni tanto accompagnava un movimento o sottolineava un passaggio armonico. Finché non ci fu una pausa tra i due tempi del concerto.
Feci una cosa che non avrei mai sognato di osare di fare. Mi sporsi verso la signora avanti a me e le dissi in inglese, visto il mio scarsissimo francese, “mi scusi avrebbe un programma del concerto?” Lei si voltò. Le vidi, per la prima volta, gli occhi. Si dice che quello che affascinò Richard Burton fu il viola profondo degli occhi di Liz Taylor. Non saprei definire, o non ricordo, il colore dei suoi occhi, ma il suo sguardo mi inchiodò alla poltrona del teatro. “Le piace Brahms?” mi chiese. Non seppi rispondere. La domanda era troppo difficile. Lo sguardo troppo impegnativo. Già solo il contatto verbale troppo pericoloso. Troppo, troppo di tutto. Biascicai qualcosa in risposta e mi ritrassi spaventato da una Circe che sarebbe potuta essere domata da un Ulisse molto più forte di me.
All’intervallo uscii dal teatro fiero di aver resistito alla tentazione di quella sirena, ma anche con un po’ di rimpianto per un’avventura non vissuta. Ho fatto bene o sono fuggito? Mi sono lasciato scappare una Leslie Caron da accompagnare al “Lapin Agile” di Montmartre? Je ne sais pas. Comunque è meglio vivere con l’illusione di un sogno che si sarebbe potuto realizzare che con il segno rosso di uno schiaffone sulla guancia.