mercoledì 17 dicembre 2014

Il Giro di Blues



A me sembrava che mio nonno non si muovesse mai dalla sedia. Quando uscivo la mattina per andare a prendere il bus che mi portava a scuola, lo vedevo dondolarsi piano, con lo sguardo perso verso l’infinito, nell’angolo del piccolo pergolato fuori dalla porta di casa. Lo ritrovavo nella stessa posizione quando tornavo nel tardo pomeriggio. Dentro mia madre cucinava, puliva e si dava da fare nelle faccende a volte cantando e spesso imprecando contro il caldo, la vita, le mosche e quant’altro le venisse in mente per sfogare l’insoddisfazione del suo destino. Mio padre lavorava nei campi e talvolta tornava per pranzo, nelle ore più calde, per togliersi da sotto il sole e chiudere gli occhi bruciati dal riverbero e dalla polvere. Ogni tanto si ricordavano di nonno e gli portavano una limonata o gli chiedevano come stava. Ma la maggior parte del tempo il vecchio lo passava da solo confinato sulla poltroncina e perso nei suoi pensieri. Sembrava avesse abbandonato lungo la strada dell’esistenza ogni amico potesse avere avuto, e che tutti gli anni passati gli avessero lasciato solo il segno di mille rughe e tante cicatrici nell’anima. Per me, che avevo solo una decina di anni, era una presenza scontata, quasi come un vecchio gatto, accoccolato sulla terrazza, che ogni tanto ti guarda di sottecchi facendoti capire che lui sa già tutto, anche quello che hai intenzione di pensare. Era proprio questa impenetrabilità che mi affascinava e che sentivo come una sfida per riuscire a scuoterlo e togliergli quella strana aria triste che non riuscivo proprio a comprendere. Dopo cena i miei genitori si sedevano su due vecchie poltrone a fiori vivaci, intorno ad una grande radio a valvole che, prima di accendersi, doveva scaldarsi, e forse decidere se concedersi, e poi metteva in comunicazione con un mondo che noi tutti supponevamo esistesse al di là dei campi di mais e del grande fiume. C’era il notiziario che parlava di quello che succedeva a Montgomery e nelle altre città dell’Alabama, trasmetteva le notizie nazionali e le ultime sul baseball. Ma era tutto molto sfumato, come in una favola, a volte bella ed a volte brutta, che nessuno sa se corrisponde alla realtà. Nonno si alzava per mettersi a tavola con noi e consumava una grossa tazza con latte e pane raffermo, scambiava quattro parole sulla salute e sul tempo e poi, dopo aver lavato la sua ciotola nel lavello della cucina, tornava fuori, nella notte e sul suo dondolo. Si concedeva l’unica pipata del giorno accendendo con cura un vecchio fornello di spuma bianca raffigurante la polena di una nave nella quale, forse, un tempo era andato per mare. A volte portava con se una chitarra che si reggeva insieme a malapena. La cassa era scolorita e le chiavi lente non riuscivano a tenere l’incordatura. C’era un buco di troppo sotto le corde e graffiti senza senso tranne uno, grande, che urlava “Lucy”. Io lo guardavo sperando di sentirlo suonare, ma lui teneva abbracciato lo strumento come un vecchio pupazzo e solo ogni tanto pizzicava una corda lasciando vibrare la nota nel silenzio della notte. Un giorno, con l’innocente cattiveria dei bambini, lo volli, in qualche modo, provocare. “Che te lo tieni a fare quel pezzo di legno se non sai suonare niente?” Gli chiesi, sedendo sul gradino accanto a lui ed indicando lo strumento. Il vecchio mi guardò con dolci ed antichi occhi dove era passata una vita di tanta sofferenza e poca gioia. Non si offese, capendo come cercassi di stuzzicare il vecchio leone per provocare un ruggito testimone di una lontana giovinezza. “Sai, nipote mio, questa non è una chitarra.” “Ma và! Lo vedo che è una chitarra. Cos’è se no?” “E’ una scatola, o meglio un baule che contiene tante cose.” Mi veniva da ridere per le bugie che stavo sentendo. “Non è vero: lo vedo dal buco che non c’è niente!” “Eppure, ti assicuro che questo legno contiene di più di tutti gli armadi e le valigie di mamma.” Non è vero! – ripetei – Allora fammelo vedere!” Nonno sollevò la schiena, racchiuse le dita contorte e deformate sul manico, e carezzò la vecchia amica. Stette un momento immobile e poi ritmò un Mi, un La ed un SI in battute di quattro quarti. La chitarra pianse ed urlò, accompagnando la voce rauca del vecchio. Dalla musica e dalle parole uscì tutta la pena di una vita e tutte le vite di quanti avevano pianto quel dolore. Cantò l’amore, per una donna o per Dio, ed il rimpianto di un addio o l’attesa di un incontro. E poi, la speranza, la fede, la disperazione ed il coraggio. Il cuore, lo stomaco, la rabbia ed il sangue. Ed allora due grandi braccia mi presero trasmettendomi l’emozione, la consolazione e la gioia. Era un Blues.

martedì 16 dicembre 2014

In un momento



In quell’attimo tutto si calmò.
Il mare, agitato e scuro, placò le sue acque
lambendo dolcemente gli scogli e l’arenile.
Tacque l’urlo del vento ed un delicato soffio carezzò
i capelli scostandoli dal suo dolce sguardo.
I mille latrati e le tumultuose ansie svanirono dalla mia mente
come montagne di freddo ghiaccio dissolte in un lago di pace.
Il momento passato divenne un ricordo mentre l’oscuro
dubbio del futuro si tramutò in evanescente speranza.
Solo l’interminabile attimo del presente rimase sospeso in attesa
che Kronos si scuotesse dall’imprevisto sortilegio.
Quieta una musica avvolse la mia anima ed un sussurro divino
trasfigurò il coro delle voci bianche.
E’ lì: ora lo percepisco. Sta nella mano vicino alla mia,
nel cordone che mi lega agli affetti più cari,
nell’attenzione affettuosa e vera della mia compagna di vita,
nella parola di un figlio, nel frammento scintillante di un attimo.
E’ il significato di un’esistenza che non so riconoscere,
quotidianamente nascosto dal baccano dei rutinari affanni,
ma sorge vivido nella meditazione di un momento.
Quale sia non ho la parola per renderlo vivo,
ma grata la sensazione mi pervade che niente è vano nel creato
e l’amore che ho cercato di dare giustificherà la mia esistenza.

domenica 23 novembre 2014

Lei sta con te

Il motivo per il quale vengo a “La Cave”? Principalmente perché mi sta sotto casa. E’ un locale buio e poco raccomandabile dove le signorine “per bene” non mettono piede, ma si possono scambiare quattro chiacchiere con quelle “poco per bene” che spesso sono solo più sincere delle altre. Una musica, che sembra sempre la stessa, viene diffusa da vecchi, grandi, altoparlanti sistemati negli angoli e ti rimbomba nello stomaco ritmando i bassi senza melodia. Fitta, una nebbia di sigarette e di fumo sbiadisce il profilo dei clienti dando una illusoria parvenza di privacy per chi vive piccoli incontri clandestini o a chi vorrebbe passare inosservato. Io non voglio restare nella mia mansarda all’ultimo piano, solo, a ripensare a tante cose. Se non esco, rivedo il cuscino sul divano, il quadro che abbiamo appeso insieme, quella strusciata sul muro lasciata dalla sua borsa mentre usciva di fretta. Mi sembra di risentire il suo profumo ed il suo odore, la sua piccola risata ed il suo ultimo urlo. Mi ha lasciato, con tutta la ragione dalla sua parte. Abbiamo passato bei momenti insieme, ma le ho rovinato la vita. Quando lei, guardandomi decisa, ma con gli occhi pieni di lacrime, ha buttato le sue chiavi di casa sul mobile e mi ha detto: “Vivi la tua vita, io non ce la faccio più!” scappando fuori, mi ha tirato tanti sassi quante erano le sue parole. Lo so, non si muore per amore, ma da allora è solo il mio corpo che si trascina nel quotidiano: qualcosa, dentro, non va’. E allora, fuori! Nella caverna dove mi aspetta il mio più caro amico dietro al bancone del bar, pronto a consolarmi con la mia più cara amica vestita di vetro. Mario è disposto ad ascoltarmi, facendo dei circoletti con lo straccio per asciugare eterni aloni e briciole. Ad un mio cenno rabbocca il bicchiere, senza giudicare né stancarsi mai. Lo sguardo, cinico ed ironico, racconta della sua vita e delle tante storie che sono state riversate sul suo bancone rotolando via come gocce di un liquore sfuggito al collo della bottiglia e sprecato nell’indifferenza. Dopo il terzo, o forse quarto, whisky tutto mi sembra più accettabile, perfino l’orrenda condanna di tornare a dormire nel letto con il fantasma di lei che non c’è più. In realtà, adesso ho un già superato quel limite, ma…ancora un po’. Guarda, guarda chi sta entrando adesso: è lui, quello che ha preso il mio posto. “Fermati! ... Stai tranquillo, voglio solo dirti due parole. Lei sta con te, lei vuole te, e ti dirà che tu sei stato il primo che ha mai amato. Ma tu non sai niente di lei. Se ti amerà come tu vuoi, ricorda che lei l’ha imparato da me. Se piangerà, senza un perché, allora ricordati che lei pensa a me!” Mi sta guardando, in silenzio. Ma questo chi è? Cosa vuole? Lasciami in pace, vattene! “Mario, versa ancora, e ancora, Mario, amico mio.”

lunedì 17 novembre 2014

L'Albero di Natale

Non so perché, pur essendo di lontane origini napoletane, il presepe non lo facevamo mai. I miei genitori erano separati e, sotto Natale, ciascuno addobbava la casa al meglio per dare la sensazione della famiglia e non farci mancare il calore della festa. Il protagonista assoluto era l’albero. Papà dava l’incombenza dell’addobbo a mia sorella, fornendola di risorse pressoché illimitate per realizzare un abete il più festoso e tradizionale possibile. Parliamo, ovviamente, di alberi veri che, senza alcuna remora ecologista, visto che ancora si doveva persino inventare il neologismo, venivano presi in considerazione solo se alti dai due metri in su e con un diametro che doveva consentire il girotondo di una mezza dozzina di bambini. La ragazza, allora adolescente, sbuffava, e avrebbe avuto il desiderio di sottrarsi all’annuale incombenza, ma non poteva rifiutare il desiderio di un uomo che viveva solo, tra mille impegni quotidiani e che, perdippiù, avrebbe fatto trovare vicino alle radici del fronduto addobbo, una montagna di pacchetti, tanto più promettenti quanto più piccoli e con discreti incarti, sicuro indizio di provenienza dalle tradizionali gioiellerie romane.  Mamma, invece, era del segno della bilancia: ho detto tutto. Bella ed elegante come in un ritratto di Giovanni Boldini, con un gusto estetico che si manifestava anche nella cura della casa dove non mancavano mai fiori freschi e profumi. Il risultato ricordava un decadente boudoir dove io, paffuto prepubere, mi aggiravo attento a non fare come il proverbiale elefantino nel negozio di porcellane. Se un anno l’abete era stato abbellito con palle e decori rosa e argento, l’anno successivo doveva essere tutto bianco, per tornare poi al rosso con fiocchi dorati o al tutto oro e festoni con un effetto barocco e ridondante degno di una festa patrizia secentesca. Verso i primi di dicembre accompagnavo mia madre da Bocchi che, conoscendoci, ci consigliava l’abete bianco proveniente dall’Austria messo da parte appositamente per noi. Forse sembrerà strano a chi oggi compra le cimette ai bordi della strada, ma quel maestoso rappresentante delle foreste nordiche… profumava! Si sentiva il suo odore da lontano e bastava quello a far capire che il Natale era vicino. Poi ci si recava da Solfizi e, per rivestire l’ignudo silvano, si andava per multipli di dodici nelle tre misure delle sfere di vetro e relativi festoni. Brutto, ma indispensabile, il puntale finiva gli acquisti. Il giorno successivo compunti fattorini recapitavano il tutto a casa e, sotto la direzione artistica di mamma, procedevamo all’addobbo con matematica ed armonica precisione. Le palle erano di vetro soffiato e rifrangevano la luce con mille bagliori, le collane di perline sfaccettate bardavano mollemente i rami, l’angelo in cima si accompagnava con un mandolone per cantare l’avvento. Bastava la luce di un lume da tavolo, nel salone semibuio, per dare vita al simbolo del prossimo Natale ed io, sensibile, romantico, poeticamente rapito, commosso ed attonito, stupito e partecipe, gioioso e languido, melanconicamente allegro, capivo che era giunto il momento dell’anno più atteso. La considerazione conseguente era che se in salotto c’erano gli addobbi, in cucina ci dovevano stare panettone, torrone, zibibbo e nocchie che aspettavano di far parte della festa. Non mi sarei mai sentito di non fare la mia parte nel coro dei festeggiamenti e, solo per entrare maggiormente nello spirito del tempo, correvo a sbocconcellare un po’ di tutto  per poter esprimere un ponderato ed affidabile giudizio sulla bontà di quell’annata per Alemagna e Sperlari.

Sarà un segno di vecchiaia? Quest’anno ho fatto l’albero (sintetico, sigh!) in anticipo, per ritrovare la voglia e la magia di quella festa che tanto mi piaceva. Per avere la misura del mio rincoglionimento, già da adesso attendo che le mie pecorelle erranti, i miei figli all’estero, ritornino a casa e, per dar loro l’idea del Natale, ho speso una cifra non indifferente in decori, ovviamente made in China. Non solo, forse ho bisogno del geriatra, non vedo l’ora di travestirmi da Babbo Natale per stupire mio nipote la sera della vigilia. Vabbè!

martedì 11 novembre 2014

Interno Notte IV

Interno notte. 
Parte IV. Scena I
Ora di cena in famiglia. 
Attorno al tavolo Padre, Madre e due figlie di circa 28/30 anni.

Padre – Serenella, Veronica la smettete, per favore, con quel cellulare! Almeno a tavola, mettetelo via. Che c’è di tanto interessante?
Serenella (la figlia maggiore) – A pà, su Facebook hanno postato una domanda: “Qual è il libro che tenete sul vostro comodino e chi è il vostro poeta del cuore?” Tu cosa pensi che dovrei scrivere?
P. -  Beh, ho visto che vicino al tuo letto c’è: “Paolo Fox – Oroscopo 2015”.
S. – Mattipare che posso dire quello! Pensavo più a qualcosa come quello di quello spagnolo che scrive strano…come si chiama…Paolo…Quello!
P. – ?...Vorrai dire Paulo Coelho!
S. – Si, si. Dice che è fico il libro dal titolo “Là, chi mi sta”. Forse con il protagonista che racconta di quelli che gli stanno antipatici.
P. – ?...“L’Alchimista”, ma se neanche l’hai letto. E per la poesia?
S. – Famme pensà…che ne dici der polacco che faceva…”il mare più bello, è quello dello stabilimento accanto”… su per giù.
P. – Oggesù! Turco, Hikmet, il più bello dei mari è quello che non navigammo.
S. – Eggià, si proprio così. Mo' li posto…sai il figurone!
P. – Fammi capire. Che senso ha scrivere di sé cose non vere dando un’immagine che non è quella reale?
S. – Come sei antico! Non lo sai che è tutto falso? Si mettono frasi a effetto, immagini romantiche, link a siti intellettuali pescati a casaccio nel web, per far vedere come si è raffinati, istruiti, sensibili, ma non è che un gioco al rimbalzo per chi è più bravo a vendere la sua simpatia al fine di accaparrarsi più followers possibile.
P. – E tu quanti ne hai?
S. – Circa 700, ma le amiche mie, quelle più cool, vanno oltre i mille.
P. – E sono tutti amici?
S. – Ehhh, come quelli che trovi in metropolitana. Li incontri, magari scambi uno sguardo, ma chi te conosce? Anzi, visto che ci siamo, postiamo pure un selfie. Pà, mà, sorè, accostiamoci, vicini, vicini.
Veronica (la figlia più piccola) – Ma che sei scema? Ce manca il selfie a tavola che se vede lo spezzatino coi piselli. Ce fosse il sushi, tanto tanto, ma così è sfigatissimo! Sai che grezza che ce famo!
S. – C’hai raggio (hai ragione-N.d.A.)!
Bing! - Dokt – Dakt.
P. – E adesso questo cos’è?
V. – Ahò, ma ‘ndo vivi? Uoz Ap, no? Na cosa più privata, dove si scambiano messaggi e foto.
P. – Questo mi sembra utile.
V. – Seh, utile a fa casino. Sai quanti se so fatti beccà i messaggi o le foto con l’altro o l’altra de turno e hanno mollato il ragazzo-barra-ragazza? Ma tu non ce l’hai la app? Che il tuo non supporta l’IOS 8? Ancora non te sei comprato l’I Phon 6 con prenotazione all’I Phon 12 che uscirà nel marzo 2018?
P. – Pensavo di usare un telefonino che, come dice il nome dovrebbe servire a telefonare e non il distintivo di appartenenza alla tribù di Steve Jobs senza il quale sarei escluso dal comunicare con i miei simili.
V. e S. in coro – Ma quanto sei anticoooo!!

Dissolvenza.
Interno notte. Scena II
In sala da pranzo.

Buio totale tranne per una luce che viene dalla superfice del tavolo. Si sente Bing, Bing, Dokt, Dakt, Uoscccc, Brrrrr. Zoomata sul cellulare, orfano e dimenticato, che, come vivesse di vita propria, vibra, si illumina e manda richiami di tutti i generi.

Dissolvenza.






  


sabato 8 novembre 2014

Il Piccolo Buddha

A Saint-Germain-des-Prés non esistono strade senza storia. Avevo lasciato il mio alberghetto con le stanze decorate a fiori di lavanda, e passeggiavo lungo Rue de l’Universitè per ingannare le ore che mi separavano da un incontro di lavoro particolarmente importante. Con la mente ripassavo gli approcci e le argomentazioni che avrei dovuto usare per convincere monsieur Arnoux ad introdurre la nostra collezione di abbigliamento nei magazzini “Le Printemps” di sua proprietà e, per stimolare le sinapsi cerebrali, percorrevo a grandi passi i boulevard e le petit rues che incrociavano l’arteria principale. Ad un certo punto svoltai in Rue du Bac per fermarmi da “Eric Kayser” per una veloce baguette al Camembert, ma il subitaneo appagamento del gusto e della fame non riuscirono a distrarmi dai miei pensieri. Ripresi il mio peripatetico girovagare e, senza rendermene conto, imboccai Rue de Verneuil. Guardando il marciapiede, perso nei miei pensieri, superai la Galleria d’Arte di Yumi Kameyama, che avevo visitato il giorno prima attirato dalla frase di Fellini esposta come motto esplicativo di una esposizione di pittori figurativi contemporanei: “Tout l’art est autobiographique; la perle est l’autobiographie de l’huitre.”, e mi diressi verso il lungo Senna. Pensavo che niente mi potesse distrarre dall’immaginario contradittorio con il mio prossimo eventuale cliente, quando una forza agganciò la mia spalla trattenendomi. Niente di fisico, ma subii una magnetica fascinazione che rallentò i miei passi e mi fece rivolgere lo sguardo verso la vetrina di un piccolo rigattiere che, senza rendermene conto, avevo appena superato. Volsi lo sguardo e, fra le tante cianfrusaglie, vidi una piccola statuina di porcellana bianca raffigurante un Buddha seduto e sorridente. Sarà stata alta una decina di centimetri e, con il suo candido colore, spiccava tra gli altri policromi biscuit. Aveva arpionato il mio girovagare e sembrava volermi dire qualcosa. Entrai nella bottega. Era come se fossi stato scelto da una innamorata che implorava di farmi suo: non potevo non possedere quell’oggetto. Dopo una breve contrattazione, lasciai al vecchio ed astuto negoziante una cifra sproporzionata per accaparrarmi la statuetta, ed uscii tenendo in mano un sacchetto che, nella mia immaginazione, come la lampada di Aladino, conteneva una fatata entità. Mi affrettai verso la mia camera d’albergo per poter scartare il mio recente acquisto e cercare di capire cosa tanto mi piacesse nel piccolo blanc de chine. Quando fui al cospetto del piccolo Buddha capii. I gradi lobi simbolo di saggezza, le mani rivolte verso il cielo e la terra come unione tra la materialità e la spiritualità, ma soprattutto l’espressione di saggia serenità superiore agli affanni quotidiani, mi illuminarono. Il giorno dopo incontrai monsieur Arnoux forte della serenità che quella statuina mi aveva ispirato. Nella mia presentazione, sentendomi illuminato, o forse illuso di esserlo, seppi trasmettergli una tanto affidabile sensazione di consapevolezza nelle nostre qualità, che lo convinsi a comprare qualche centinaio di capi da proporre nei suoi Grandi Magazzini. Serenità, fiducia, determinazione ed azzeramento dell’ansia sono la strada per il raggiungimento di ogni obiettivo. Che poi queste predisposizioni siano raggiunte con la meditazione trascendentale, con i fiori di Bach o con una matura convinzione...poco importa. 

venerdì 7 novembre 2014

Interno Notte III

Interno notte. 
Parte III. Scena I
Ora di cena in famiglia. 
Attorno al tavolo Padre, Madre e due figlie di circa 28/30 anni.

Padre.   –   Allora, Serenella, come vanno gli studi?
Serenella (la figlia maggiore)   -   Alla grande! Mi hanno preso a fare l’MBA presso l’Università di San Marino. Considera che è la quarantacinquesima in graduatoria in Europa.
P.   -  Che vuol dire? Avrai una qualificazione sufficiente per poi entrare nel mondo del lavoro?
S.  -  Eccome no? Chi esce da là viene preso nell’arco di pochi mesi da una multinazionale affamata di cervelli freschi con stipendi medi doppi rispetto a quelli di un normale laureato.
P.  -  Fantastico! Così finalmente saranno premiati tutti i tuoi anni di studio. Ma hai dovuto fare un concorso o presentare un dettagliato CV?
S. – No, no. Devo solo mandare un bonifico di trentamila euro quale retta per il primo anno e poi impegnarmi per altri quaranta per il secondo, e un piccolo fondo per mantenermi là.
P. -  Azzz..Scusa: oh perbacco! E dove pensi di trovarli, cara figliola?
S.  -  Beh, pensavo che se vado a vivere fuori, la station wagon non ti servirà più e quindi potresti venderla per far fronte alla prima tranche.
P.  -  Ummhhh…E per la seconda tranche,…cara figliola?
S.  -  Allora, fatti conto che io vado a lavorare all’estero, Veronica si sposa, rimanete soli te e mamma.
P.  -  Embè?
S.  -  A che vi serve la casa di Santa Marinella? Intanto si potrebbe vendere e, come m’insegnano i miei studi, mettendo a frutto il capitale con spread e indicizzazione vincolata all’andamento dei Bund sulla piazza di Francoforte e un derivato a capitalizzazione su un mercato secondario (???), con la rendita al netto della cedolare secca, possiamo pagare tranquillamente.
P.  -  Alt! Ferma. Mi vorresti dire che dopo che ti abbiamo mandato per anni 5 alle elementari dalle Suore, anni 3 per le primarie dalle medesime, poi, cambiando, anni 5 per le secondarie dai Fratelli con i salamini al collo, ancora 3 + 2 anni alla LUISS, per un totale di anni 18 di rette annuali in Istituti Privati, ancora dobbiamo pagare?
S.  -  Eccolo! Vuoi o no che io abbia un futuro?
Madre  -  Beh, caro, Serenella lo fa per crearsi una posizione.
P.  -  Ok. Una posizione…Mi dicevi che, dopo troveresti subito lavoro?
S.  -  Sicuro come una palla, pà!
P. -  Con stipendio…
S. – Come dicevo, se mi dai retta, sarà il doppio di un normale neolaureato. Ovvero, se consideriamo che i miei amici che hanno fatto la semplice Università, ora stanno lavorando con impieghi a contratto per circa seicento/ottocento euro al mese, potrei arrivare a 1200/1600 netti in busta paga!
P.  -  Scusa eh, non vorrei sembrarti arido. Calcolando che per i diciotto anni di scuole private più i due di MBA la spesa approssimativa è sull’ordine dei 200 mila euro, spiccio più o meno, escluso il rendimento sul mancato risparmio, e che con l’IPOTETICO futuro stipendio, decurtato dal costo della vita, potremmo supporre un rientro dell’investimento in circa vent’anni, ti faccio una proposta.
M.  -  Serenella, cara, senti che ti dice il tuo papà.
P.  -  Pensavo…SHAMPISTA  a vita e mi tengo la casa di Santa Marinella!!!
M.  -  Ecco, bravo, l’hai fatta piangere! Sei sempre il solito, mai un sacrificio per i TUOI figli! In fondo li hai messi al mondo tu, mica hanno chiesto loro!
P.  -  Non hanno chiesto prima, ma continuano a chiedere dopo!
Veronica (seconda figlia)  -  Nun te se po’ chiede mai gnente che prendi subbito d’acido. Ma che c’hai ar posto der core? Er portafojo?
P. -  Zitta te, che t’ho fatto prendere pure ripetizioni d’italiano e senti i risultati! Basta, sta cena m’è andata di traverso.
M.  Serenè, Veronicù, non è cattivo. Sta solo un po’ stressato col lavoro. Lo dovete capire.
S. e V. in coro  -  ECCHEPPALLEEE!!!

Dissolvenza.
Interno notte. Scena II

In ingresso.
Panoramica con inquadratura della consolle sulla quale è aperto un quotidiano di annunci economici. Zoomata su due annunci cerchiettati nella sezione “vendesi” degli immobili e delle auto.

Dissolvenza.





mercoledì 5 novembre 2014

Interno Notte II

Interno notte.
Parte II – Scena I

Ora di cena in famiglia.
Attorno al tavolo Padre, Madre e due figlie di circa 28/30 anni.
La Madre posa al centro del tavolo una zuppiera fumante.

Serenella (la figlia più grande)   -    Mamma, che ci sta la dentro?
Madre   -                                            Bucatini al ragù, amore.
S.  -                                                     Me lo fai apposta? Ancora non lo sai che sono quasi vegetariana?
M.  -                                                   Che vuol dire “quasi” vegetariana?
S.   -                                                    Cioè, io ho rispetto per gli animali, sono i nostri compagni di viaggio su questo pianeta, però quando vado fuori con gli amici…e che devo fa’? Comunque chissà che c’hai tritato là dentro.
M.  -                                                   Guarda, cara, che è solo macinato di prima scelta che ho comprato da Feroci pagandolo un occhio della testa.      
S.   -                                                    Ecco, vedi, pure l’occhio. No, grazie.
M.  -                                                   Vabbè, e quindi, che ti mangi?
S.  -                                                     Sono andata da Daruma e ho preso un Sushi Sashimi Combo e un Tuna Tataki.           
M.  -                                                   Embè? Se sei vegetariana, i pesci non sono animali?
S.  -                                                     Okkapito, ma mica urlano quando li prendono!
M.  -                                                   Ohhh, fa un po’ come ti pare! E tu, Veronica, lo vuoi un piatto di pasta?
Veronica (seconda figlia)   -             Ma che sei mattaaaa? Là dentro ci saranno almeno un milione di calorie. Pensa che fra un po’ non mi entra neanche più la 44! Eppoi c’ho la prova costume.
M.  -                                                   Ma se siamo a novembre?
V.  -                                                    Ecchevordì? Non lo sai che in palestra c’è la SPA in comune coi maschi e le sgrinfie stanno tutte in tiro? Me mangio solo un po’ di tofu con delle gallette di riso.
M.  -                                                   Ahò, mo m’avete stufato! Chi vò mangià, mangia…Siete sicure che non vi verrà fame più tardi? Sicure, sicure?
S. e V. in coro              -                    A mà, come sei anticaaaaa!
Padre.  -                                             Dà qua, ci penso io a fare onore alla pietanza. Quello che avanza mettilo coperto in cucina e domani ci fai la frittata di pasta.
Dissolvenza.

Interno notte. Scena II
In cucina.
Panoramica con inquadratura su un orologio a muro che segna le ore tre.
Soggettiva con zoomata su una zuppiera scoperchiata e semivuota con accanto due forchette
sporche di sugo. Briciole e pezzetti di pane sparsi sul tavolo.


Dissolvenza.    

martedì 4 novembre 2014

Interno Notte

Interno notte.

Sala da pranzo di una famiglia borghese di Roma Nord.
Intorno al tavolo padre, madre e due figlie di circa 28/30 anni.
Si sta consumando la cena.

Padre  -                                               Allora, uscite dopo?
Serenella (la figlia più grande) -      A me non me regge. Mi doveva passare a prendere un tipo, ma dice che ha fatto tardi al calcetto.
P.                                                        Chi è, uno con cui ti vedi spesso?
S.                                                        Maddai…è un ragazzo che ho conosciuto alla Mason.
P.                                                        Bene. E che fa nella vita questo ragazzo?
S.                                                        L’avvocato, dice. A me però sembra che stia sempre sullo scooter tra il Due Ponti e i campi di paddle. Però c’ha il Daytona d’acciaio e quindi tanto male non se la deve passare.
P.                                                        Dì la verità: ti piace?
S.                                                        Che ti devo dire, pà, mi sembra un bravo ragazzo. Vive ancora con i suoi, ma si mantiene da solo e, a parte qualche sera, si comporta sempre bene. Solo che è un fissato con il fisico. Tratta i suoi bici (bicipiti n.d.a.) come se fossero pianticelle da crescere e curare, ma che vuoi, è un ragazzo.
P.                                                        Beh, comunque se è avvocato deve essersi laureato e quindi avrà una certa cultura.
S.                                                        Maddechè! L’atro giorno stavamo al Riviera, a Fregene, a prende un po’ de sole stesi sul lettino e lui stava leggendo ad alta voce dove poter andare la sera. Mi fa: “Ah cì, che sarà sta musica che danno all’Auditorium? Qui parla che suonano Kopin, ma che d’è qualcosa tipo i Marlene Kuntz?” C’ho messo un po’ per capire che intendeva Chopin e che non l’aveva mai sentito nominare. ‘Na traggedia!
P.                                                        Vabbè, avrà altri interessi questo ragazzo.
S.                                                        Tzè!
P.                                                        E allora, che vi raccontate?
S.                                                        Che ci dobbiamo raccontare, quello che ci diciamo con tutti gli altri ragazzi che frequentiamo. Praticamente niente. Ma tanto so’ tutti uguali.
P.                                                        Beh, non credo non ci sia nessun altro con un minimo di cultura e con il quale sia possibile fare un discorso. A proposito, questo ragazzo quanti anni ha?
S.                                                        Ha appena fatto la sua festa di compleanno con gli amici a Formentera. Ha compiuto quarantadue anni.
P.                                                        QUARANTADUE? E lo chiami ragazzo?
S.                                                        A pà, come sei antico! Tu come lo chiameresti uno che si fa ancora i riccetti sulla fronte e che quando, qualche giorno fa, abbiamo incontrato una madre con la carrozzina, s’è passato la mano sul viso facendo finta di togliersi il sudore, e ha esclamato: “Anvedi che pratica!”?
P.                                                        Ci sarà qualcun altro da frequentare…
S.                                                        No, so’ tutti così! O li prendi pischelli, alle prime esperienze, che ancora si innamorano, o dopo i trent’anni non si vogliono più impegnare. Capiscono che possono divertirsi allegramente senza prendere responsabilità e regrediscono all’adolescenza. Non gli parlare di un legame serio che possa portare a qualcosa di concreto che sembra di vedere Beep Beep quando scappa da Will Coyote. Dietro di loro rimane solo una nuvoletta di polvere e gli scarpini da calcetto che hanno dimenticato.
P.                                                        Non ci posso credere. Io a quell’età…
S.                                                        A pà, ammolla! I tempi sono cambiati adesso siamo noi ragazze che ci dobbiamo adeguare al mercato.
P.                                                        Bah, magari sei tu sfortunata negli incontri. Veronica, sei d’accordo con tua sorella?
Veronica (sorella minore)                Che te devo dì? Io uscivo con un RAGAZZO di quarantanove anni. L’ho mollato quando m’ha detto che gli ponevo troppi problemi e lui non era ancora pronto per una relazione seria. E’ ‘na TRAGGEDIA!!!   


                                                           

sabato 25 ottobre 2014

Los Supervivientes

Bruciato nel bunker? A Buenos Aires giurano che, anche negli ultimi anni settanta dello scorso secolo, se si capitava nei giardini di Plaza Alemania – che coincidenza! – si poteva vedere un ragazzetto passeggiare per mano con un vecchio dai lunghi capelli bianchi e lisci e con un ciuffetto di peli grigi sotto il naso. Non ci avrebbe fatto caso nessuno se non per la curiosa abitudine dell’uomo di voltarsi di scatto e guardare fisso le persone con aria spiritata. Portavano a spasso un pastore tedesco che rispondeva ai richiami del padrone quando urlava “Blondi, herkommen!” Quasi sempre, dopo aver camminato per una mezz’oretta, si dirigevano verso un portone in Avenida del Libertador sormontato da una insegna che diceva: “Club De Los Supervivientes”. Già in quegli anni, ma anche dopo, chi viveva in quel palazzo si lamentava di essere spesso svegliato nel cuore della notte dalla musica a tutto volume che proveniva dal Circolo. Qualcuno più curioso e attento, raccontò di aver sentito spesso le note di “Blue Suede Shoes” uscire dalle finestre aperte del club, affermando che fosse cantato così bene da poter essere scambiato con l’originale interpretato da Elvis. Il ragazzetto del bar sulla strada giurava di aver portato dentro le sale del club un whisky per un signore dal gran ciuffo, il sorriso storto e con una bellissima giacca bianca con le frange, ma si pensava lo dicesse solo per farsi bello agli occhi degli amici. La cosa strabiliante accadde il 25 ottobre 1983. Il señor Emilio Torres, portiere dello stabile, verso le nove di sera, fece un giro di telefonate a tutti i suoi parenti e agli amici più cari. Raccontò che era dal pomeriggio che stava osservando un frenetico via vai dal portone del circolo e che fino ad allora aveva sentito un gran rumore, come delle prove di strumenti ad alto volume. Voleva quasi chiamare la policía, ma poi c’era stato un susseguirsi di limousine che, come pantere, arrivavano e si acquattavano ai lati della strada. Gli era venuta l’idea che doveva trattarsi di una riunione di pezzi grossi e che forse stavano organizzando una festa con musica. Siccome era un avvenimento eccezionale per il quartiere, voleva renderne partecipi i suoi cari. Fu così che, dopo poco tempo, una ventina di persone si trovarono affacciate alle finestre dell’appartamento del portiere. Non videro entrare nessuno ma improvvisamente, a tutto volume, una band cominciò a suonare. Pedro Caliente, cugino di primo grado del padrone di casa, si vantava di essere un esperto di rock, specialmente quello classico a cavallo degli anni settanta, e si mise ad ululare di godimento quando riconobbe le note di alcune delle sue canzoni preferite. Si sentì in obbligo di manifestare la sua cultura enunciando titolo ed interprete dei brani man mano che venivano eseguiti. “Light my fire – Jim Morrison” fu il primo, e poi in successione: “Little wing – Jimi Endrix; Satisfation – Brian Jones dei Rolling; Me and Bobby Mc Gee – Janis Joplin; On the Road Again – Alan Wilson dei Canned Heat; Friend of the Devil – Ron Mc Kerman dei Grateful Dead…”

Il concerto durò fino a tarda notte, e dopo i macchinoni neri accolsero gli anziani personaggi che, un po’ barcollanti ma visibilmente soddisfatti, uscirono dal portone dello stabile. L’evento, a detta del señor Emilio, non si ripeté più, ma quello che infastidì veramente il portiere fu che, quando ne parlò in giro, nessuno credette a quella strana riunione di miti scomparsi da tempo, prendendolo in giro e tacciandolo di aver inventato tutto. Per fortuna aveva i testimoni che, con lui, giurarono di aver visto e sentito tutti quei componenti del “club del 27” per una sera riuniti insieme, ospiti dell’altro club… quello “De Los Supervivientes”.

lunedì 13 ottobre 2014

La metafora della vita

Camminando lungo la spiaggia, sul bagnasciuga, lascio le mie impronte sulla rena bianca e scura. Viene un’onda che cancella le tracce del passaggio, mentre affondo nella fanghiglia che si è improvvisamente creata. Perdo un po’ l’equilibrio, ma mi riprendo e faccio un altro passo. Poi con la punta di un piede traccio un disegno nella liscia tavola sotto di me. E’ solo un arco di piccoli solchi che ricorda un arcobaleno dopo la pioggia e, come un mandala, viene subito cancellato dalla risacca. Il sole del tardo pomeriggio mi brucia la schiena mentre seguo l’insenatura fino alla barriera degli scogli. Non è una meta, è solo la fine del cammino. Una passeggiata che non lascia una traccia dietro di sé e che vale solo per il segno dei prossimi passi. Ma la bellezza sta in se stessa. Nella perfezione di un momento, nella commozione della natura, nella vanità di ogni affanno. E poi questo cammino ha rivoltato la sabbia e niente è più come era prima. Giocherò ancora con il mare e con la sabbia, fino a quando una dolce marea ritirerà la sua schiuma prima di una mia orma. 

giovedì 25 settembre 2014

A mio nipote



Piccolo Uomo, il tuo broncio, il dito puntato.
Quando stai nell’acqua, nuota e, mentre fai le bracciate, schiaffeggia, scalcia, sputa: non darla vinta al mare. Poi lasciati andare, fatti cullare dai flutti, avvolgere dal liquido salmastro. E ancora, gioca. Vai sotto, torna su, sfida le onde, ma sempre con rispetto e consapevole delle tue forze. Imparerai a nuotare come un pesce, ma non fidarti. In profondità, può esserci un nemico che vuole morderti, quell’isola che vedi all’orizzonte può essere al di là delle tue possibilità. Impara a valutare prima di tutto te stesso e poi quello che ti circonda. Se vedi un amico in difficoltà, aiutalo: il mare può essere infido e la mano che tendi in quel momento sarà un anello della catena che ti tiene a galla. Un cavallone improvviso potrà mandarti sotto e farti bere un po’, ma se terrai gli occhi aperti, nel fondale scoprirai un nuovo meraviglioso mondo. Non finire mai di stupirti, ci sarà sempre una creatura che ancora non conosci o un carosello di colori che ti inebrierà. Quando prenderai una barca e remerai verso la tua destinazione, porta con te poche cose, ma non dimenticare l’amore. Sappi che è qualcosa che non finisce mai e più ne distribuirai, più ne potrai raccogliere. Vedrai come a riva devi trascinare il tuo peso, ma nell’oceano dei sogni, delle speranze e, forse, delle illusioni, si vola! Non sei un pesciolino, dovrai uscire, riemergere ed abbandonare quell’abbraccio di lapislazzulo, ma capirai che non puoi godere di un momento di leggerezza se non sei disposto a versare tanto sudore per viverlo.

“Nonno, oggi ho fatto la mia prima lezione in piscina, con i bracciali e la cuffietta. Perché mi dici tutte queste cose?” “Sai, il mare e la vita sono la stessa cosa. Ricordati, se vuoi, di queste parole e l’orizzonte non chiuderà il tuo sguardo.”

venerdì 12 settembre 2014

Ritorno a Casa


Prese un lungo respiro ed, alzando gli occhi al cielo, intonò il finale dell’aria più conosciuta dell’opera “Gianni Schicchi” del Maestro Puccini. Non doveva essere cantata con un’estensione piena, ma anzi, dopo gli acuti ed i virtuosismi precedenti, l’ultimo andamento richiedeva una flebile ed espressiva modulazione, sufficiente però a farsi udire anche dall’ultima fila della platea. “Babbo pietà, pietà…” Rapita dall’interpretazione, tenne la nota finale anche oltre l’accompagnamento dell’orchestra. Nella grande sala da concerto, la voce rimase sospesa, quasi fisicamente galleggiando sopra le teste degli ascoltatori. Poi finalmente si spense. La cantante prima lanciò uno sguardo implorante verso l’immaginario padre, e poi chinò il capo cingendosi il petto con le braccia, nell’atteggiamento di umile supplica e rassegnata accettazione del fato che il suo personaggio richiedeva. Grazie alla musica, ed alla voce angelica della soprano, si creò improvvisamente un’atmosfera irreale e cadde un silenzio nel quale sembrava che tutti stessero immobili, addirittura trattenendo il fiato, per la paura di rompere l’incantesimo ed uscire dal sogno. Durò non più di pochi secondi, ma sembrava che, per quel periodo, il tempo si fosse fermato. Il meno sensibile, o forse il più entusiasta, degli spettatori si riscosse per primo e batté forte le mani svegliando dalla trance chi gli sedeva intorno. A lui si unirono calorosamente gli altri che, alzandosi in piedi, tributarono un’entusiastica e lunga ovazione all’artista sul palco. Anche dal golfo mistico gli orchestrali batterono sugli strumenti riconoscendo l’eccezionalità dell’esecuzione.
Tittel Nyserom, solo Tittel per il mondo intero nel quale aveva venduto più di sei milioni di dischi, lasciò il proscenio ritirandosi tra le quinte dove un solerte assistente, le coprì le spalle con l’accappatoio accompagnandola nel camerino. Era all’apice della carriera. A trentott’anni, dopo tanto studio e gavetta, poteva dire di essersi affermata come una delle soprano più dotate ed amate sulla scena musicale internazionale. Oltre alla lirica ed ai recital, si cimentava con brani tratti da commedie musicali e con classici della canzone, spesso duettando con altri suoi celebri colleghi. Una delle ragioni del grande successo era che alle indubbie doti vocali si univano una grazia ed una sensibilità innata, arricchendo le sue interpretazioni con una magnetica presenza scenica. Nella Chiesa Presbiteriana di Bergen, la cittadina di pescatori affacciata sul Mare di Norvegia dove era nata, ricordavano come si distinguesse la sua folta chioma castana nel coro delle sue compagne tutte inevitabilmente bionde platino. I grandi occhi scuri, vivaci ed espressivi, donavano un fascino particolare allo sguardo della ragazzina con la bella voce. Anche il carattere aperto e socievole, contribuiva a metterla in evidenza, facendo asserire a molti che la figlia di Björn sarebbe stata sicuramente destinata a grandi cose. Vivendo nella provincia di un Paese nel quale la natura è rispettata, amata e vissuta come parte integrante della vita, praticava molti sport all’aria aperta e, fin da piccola, si era cimentata nello sci, con l’escursionismo ed in ogni tipo di attività che avevano modellato il suo fisico donandole una avvenenza asciutta e tonica. Cosa poteva volere di più dalla vita? Bellezza, talento, successo, fama e ricchezza erano piovute su di lei come se il Creatore avesse voluto scegliere un esemplare dell’umanità a caso e gli avesse infuso una scheggia di divinità. Eppure Tittel sentiva di essere afflitta da quella malattia che tormentava molta parte della popolazione scandinava, all’apparenza tanto serena. Quando si spengevano le luci della ribalta ed il pubblico lasciava il teatro, o quando si ritrovava in camerino con ancora nelle orecchie l’eco degli applausi, l’assaliva una grande onda di riflusso. Tutto le sembrava vano e senza significato. I sorrisi e le acclamazioni di quanti la circondavano, apparivano falsi e superficiali, rivolti all’interprete, ma non alla donna. Gli abbracci, le congratulazioni, i complimenti mettevano sempre in risalto la sua bravura, esaltando la dote di una voce fuori del comune che lei aveva avuto il solo merito di educare, ma che si era ritrovata come un meraviglioso ed immeritato dono naturale. Aveva la sensazione di essere il contenitore di quella voce che aveva la responsabilità di curare e far conoscere al pubblico più vasto possibile. Ma se l’involucro esterno fosse stato un altro, ovvero quella voce fosse appartenuta ad un’altra persona, lei sarebbe svanita per tutti senza essere rimpianta da nessuno. Si sentiva sola. La solitudine: la grande bestia, feroce ed infida, che saltava sulle spalle di molti suoi connazionali e che anche lei sentiva tanto spesso in agguato negli angoli delle stanze d’hotel o mentre saliva in prima classe, sull’ennesimo aereo, verso il prossimo spettacolo. Non aveva ancora imparato a combatterla. Per rincorrere il successo, vedeva la sua famiglia sempre più di rado e gli amici dell’infanzia erano rimasti in contatto solo con i biglietti natalizi o in qualche improvvisata e frettolosa visita a Bergen. Talvolta si era fatta accompagnate in tournée dal padre o, più raramente, dalla madre, ma il genitore era un vecchio pescatore che amava solo la musica celtica e le ballate tradizionali e, anche se non si lamentava mai, si vedeva chiaramente quanto fosse infastidito da tutto quel circo intorno alla figlia. Un’altra esperienza negativa fu quando, pensando di fare una cosa gradita e con tutto l’affettuoso entusiasmo possibile, invitò la sua più cara compagna d’infanzia a seguirla per alcune date in Nord America. A parte la complicazione di far staccare Solveig, l’amica, dai bambini e dal marito ed i relativi quasi insormontabili problemi organizzativi, per tutto il viaggio si erano sentite ambedue a disagio tra loro. Non erano riuscite a ricreare l’antica complicità e la confidenza che le univa da ragazzine. La ricchezza di Tittel, con la conseguente frequentazione dei migliori alberghi e ristoranti, e la costante adulazione dalla quale era circondata, mettevano Solveig perennemente a disagio, sottolineando la sua aria da sempliciotta. Era quello che la cantante non avrebbe certamente voluto, ma non poteva sottrarsi alla sua vita, spesso per lei organizzata da altri, anche se aveva cercato in tutte le maniere di coinvolgere l’amica. Dopo quella volta, non ripeté l’invito, non perché non ne sarebbe stata felice, ma per lasciare intatta la loro amicizia, almeno nel ricordo dei tempi passati. 
Fino a poco tempo prima, aveva sperato di incontrare l’Uomo Per Lei. Quel mitologico essere che le favole dicono esista per ogni giovane donna abbia la voglia di cercarlo. Ma tante avventure, spesso frettolose ed insoddisfacenti, qualche breve relazione, inevitabilmente finita con una delusione, e decine di persone incontrate e subito dimenticate, l’avevano convinta a riporre nel cofanetto delle illusioni il sogno di trovare un compagno.
Così, al goccetto che prendeva prima delle esibizioni per darsi coraggio, poi aggiunse un altro shot per sollevarsi dall’umore malmostoso, e quindi, per una necessità che divenne piacere, la bottiglia si trovò ad essere una compagna inseparabile e la sua migliore amica. Anche i ripetuti dischi d’oro, vedere il suo viso il suo viso sui manifesti fuori dal Covent Garden o dall’Opera di Parigi e qualche sporadico shopping compulsivo, non riuscivano più ad emozionarla come prima. Il dolce ed aperto sorriso che ancora, a volte, le illuminava il viso, non era più in grado di nascondere l’ombra di tristezza che ormai costantemente aleggiava nella sua anima. Il sonno arrivava sempre più tardi nella notte e, se non era accompagnato da una buone dose di alcol, rischiava di essere solo un susseguirsi di incubi e frequenti bruschi risvegli, col risultato di lasciarla stanca e di cattivo umore per tutta la giornata successiva. Lo stordimento, che pochi bicchieri avevano il potere di donare, era una benedetta panacea che induceva all’oblio e traghettava verso un nuovo giorno guadando i fiumi ribollenti di insoddisfazione e rimpianto che ogni notte doveva affrontare. Al mattino, si dava della pazza e ingrata per non avere la capacità di godere appieno i privilegi che il fato le aveva riservato, e chiedeva perdono a Dio per la bestemmia della sua infelicità. A volte si malediceva la voce per averla portata lontano dalla sua vita vera e dagli affetti che sentiva di aver lasciato. Incolpava quella carriera alienante per la sua solitudine, e già si vedeva vecchia, carica d’ori e con gli occhi bistrati, in una Casa di Riposo di lusso per artisti in pensione, ciabattare per i corridoi raccontando agli specchi della sua passata gloria. Questo atteggiamento e l’umore sempre più ombroso di Tittel, non potevano passare inosservati a chi gli stava accanto, ma anche chi le voleva più bene si trovava impotente a farla uscire da quel tunnel che sembrava solo il gioco di una mente viziata. Contattò psicoanalisti e specialisti famosi nell’ambiente dello spettacolo. Il solo risultato fu quello di buttare una quantità di denaro mentre continuava ad essere sola nella battaglia contro la depressione. Non si ritirava dalla carriera perché, quando sentiva le prime note di una romanza lirica e vedeva la bacchetta del Direttore d’Orchestra puntare verso di lei per darle l’attacco, di colpo, miracolosamente, dimenticava tutti i sui malesseri ed ogni fibra del suo corpo vibrava all’unisono con le note spingendola a cantare con la sua voce d’angelo. Cantando sentiva che quello era il motivo per il quale era al mondo e, mentre godeva della fusione delle sua capacità con la meraviglia dell’arte, sentiva che non poteva abbandonare il suo destino e che senza la musica sarebbe morta. Continuò, quindi, nel suo percorso, sempre invidiata ed ammirata, con il pubblico che inseguiva le sue rappresentazioni già mettendola nell’olimpo dei grandi della lirica. Sentiva che ogni gradino salito corrispondeva ad un passo verso il suo personale e non condivisibile baratro. Una bottiglia di Veuve Clicquot, era diventata la sua prima richiesta in camerino e l’ultima ordinazione al room service degli alberghi nei quali soggiornava. La vita per lei era solo un susseguirsi di impegni che faticosamente portava avanti, e non si curava più di tutte le incombenze e problemi che erano legati ad un grande guadagno ed un patrimonio sempre crescente. Aveva delegato tutto al suo agente e ad un avvocato che le era stato presentato a New York dal grande Pavarotti.
II
All’inizio della carriera si era imposta che, al massimo ogni tre mesi, sarebbe tornata a Bergen per vedere i suoi cari e gli amici di sempre. Era sicura che non li avrebbe mai abbandonati, e non voleva che la memoria di quei luoghi, e il ricordo che aveva lasciato in paese, svanissero col tempo. Negli anni, i tre mesi divennero sei e poi dodici fino a quando un mattino, svegliandosi nella suite al “The Peninsula Hotel” di Manhattan, si rese conto che erano passati quasi due anni dall’ultimo suo ritorno a casa. Doveva ancora tenere un recital verdiano al Lincoln Center la sera successiva, poi avrebbe avuto un buco nei suoi impegni per una quindicina di giorni. Invece di ripassare il “Libiamo” della Traviata o il “Ritorna vincitor” tratto dall’Aida, congedò il pianista che l’avrebbe dovuta accompagnare, e si buttò a preparare la valigia con un entusiasmo ed un’allegria come da tempo non provava. Sognava di dare nuovamente appuntamento ai suoi amici davanti al Museo di Øygarden, anche se si rendeva conto che non erano più adolescenti, e di gustarsi una fetta di Bløtkake comprata nella pasticceria di fronte alla Mariakirken. Era strana tutta quell’eccitazione solo per tornare a casa, ma Tittel sapeva bene che non era soltanto per nostalgia che affrontava il viaggio, ma anche, e soprattutto, per tornare alle sue radici, per ritrovare se stessa e capire se quella che stava vivendo era veramente la vita che voleva vivere. Guardando negli occhi il vecchio padre, abbracciando la madre e respirando il salmastro odore del mare, avrebbe capito se avesse ancora la forza e le motivazioni per continuare, oppure se era ora di tornare a…casa. Il primo sintomo della bontà della sua decisione, fu che quando le portarono la solita bottiglia di champagne serale, senza che lei l’avesse neanche chiesta tanta era diventata l’abitudine, Tittel la rimandò indietro già abbastanza ebbra dell’aspettativa del viaggio.
Avrebbe potuto essere un sedile della Ryanair o una poltrona di business, come in realtà era, la cantante non avrebbe notato la differenza. Dopo tanto tempo, viaggiava sola. Non aveva voluto che l’accompagnasse nessuno, segretaria, promoter, ufficio stampa, nessuno che fosse legato al suo lavoro. Anzi aveva ordinato esplicitamente di non chiamarla per tutto il tempo che avesse trascorso in Norvegia. Si sarebbe fatta viva lei, e con un segreto sorriso interiore, immaginava l’infarto che avrebbe rischiato il suo impresario, per un suo eventuale annuncio di voler rimanere a Bergen. Le otto ore di volo tra il JFK e l’aeroporto Moss Rygge di Oslo non esistettero e Tittel si trovò davanti all’ufficiale della dogana norvegese con un gran sorriso, già godendo nel risentire la sua lingua. Si aspettava di essere accolta come ormai era abituata. Di essere immediatamente riconosciuta e circondata dai soliti complimenti e con il calore che normalmente le tributavano i fan. Ma c’era qualcosa che non andava. Il poliziotto teneva in mano il suo passaporto e sembrava studiarlo con attenzione e con un’aria grave ed attenta. “C’è qualche problema, ufficiale?” chiese Tittel vagamente inquieta. “Si, signora Nistrom, abbiamo una segnalazione sul suo nominativo. La prego di seguirmi negli uffici di Polizia di Frontiera.” Non era ancora preoccupata, doveva trattarsi di qualcosa legato magari ad un contratto o di qualche formalità burocratica che, nella moltitudine dei suoi spostamenti, aveva omesso di adempiere. “Si accomodi.” Le disse il capitano invitandola a sedere di fronte alla sua scrivania. Tamburellò per qualche secondo sul piano del tavolo tenendo gli occhi fissi su una cartella aperta avanti a lui. Gli capitava qualche volta di fermare una celebrità, ed in quei casi si faceva vanto di essere ancora più inflessibile del solito, a sottolineare l’importanza e l’incorruttibilità della sua persona. Mentre lui taceva, l‘interlocutore diventava sempre più nervoso, come reazione all’ancestrale paura dell’autorità, e spesso quando finalmente veniva interrogato, si dimostrava più collaborativo. Anche in Tittel stava aumentando l’ansia e sentiva quasi fisicamente come stesse soffrendo il suo sistema nervoso, già così poco stabile in quel periodo. “Non va per niente bene, signora Nystrøm. Qui risulta che, presso la Procura Generale di Oslo, è aperta una procedura nei suoi confronti per carente conformità alle leggi di accertamento fiscale.” La cantante non capiva una parola di quello che stava sentendo e la voce del poliziotto le rimbombava nel cranio, rimbalzando da un occipite all’altro, accavallando e facendo eco tra le parole. Le stava venendo un gran mal di testa e vedeva piccoli piccoli lampi di luce in fondo alle pupille. “Quindi? Lei ne è al corrente? Comprende la gravità della cosa?” “Ufficiale, la prego, non mi sento bene. Mi lasci andare a casa e il mio manager potrà chiarire tutto.” - Eh, certo, manager, leccapiedi e chissà chi altro. -  Pensava il doganiere indispettito da quelle moine. – Chi si crede di essere? Solo perché è famosa, crede di poter fare come vuole. Ma si sbaglia, di grosso! – “Signora, lei non può andare a casa fintanto che non abbiamo redatto il verbale. Stia calma e aspetti.”  Tittel percepì solo che non poteva andare a casa e, in quel momento qualcosa le si ruppe dentro. Sentì che tutto complottava contro di lei per non farla tornare a Bergen a rivedere la sua famiglia. Di più, quel diavolo che aveva di fronte, la voleva imprigionare, trattenere, forse uccidere. Perse qualsiasi forma di lucidità e sentì solo che si doveva difendere, a tutti i costi. Si alzò dalla sedia e, urlando come un’ossessa, afferrò un pesante fermacarte che stava sul tavolo e lo scagliò contro il nemico. Non riuscì a colpirlo, ma muovendosi freneticamente, mentre urlava tutta la sua rabbia e disperazione con frasi scomposte e senza senso, fece un balzo animalesco verso il tenente cercando di graffiarlo in faccia. L’ufficiale si difese istintivamente e, per allontanarla, diede un gran sbracciata che fece volare la donna dall’altra parte della stanza facendole sbattere il capo contro la parete e, poi scivolando, sul pavimento. Tittel giacque immobile, senza sensi, nello squallido ufficio della dogana.
Si risvegliò in un letto dell’Ospedale Maggiore di Oslo. Si accorse di avere la testa fasciata e che una lunga cannula di plastica era infilzata nel suo braccio. Provò a girare cautamente il viso e vide che nella stanza c’erano alti tre letti occupati da donne più o meno vigili ed una di loro sembrava costretta in una camicia di forza. – Dove sono? Che succede? Voglio andare via! Aiuto… - “Ahhh, Aiutoo!!” Al suo grido le corse accanto un’infermiera. “Buona, buona. Stai calma che va tutto bene.” “Voglio andare via! Lasciatemi andare!” “Con calma, adesso stai male. Hai una piccola commozione cerebrale. Devi rimanere qui qualche giorno, e poi vedremo.” Rimanere…non voleva rimanere. Ancora nebbia e confusione in testa. Afferrò il braccio dell’infermiera e, con una forza del tutto inaspettata, cerco di alzarsi dal letto. L’infermiera era abituata alle reazioni delle pazienti ed aveva sempre in tasca una siringa ipodermica con un potente calmante ad azione rapida. Con un abile gesto infilò l’ago nella carne di Tittel, che rimase un attimo stupita di quel leggero dolore, e successivamente si accasciò sul letto, ancora una volta priva di conoscenza.
Riaprì gli occhi, senza avere la minima cognizione del tempo passato, e con un senso di torpore che sfumava i contorni di tutte le cose intorno a lei. “Tittel, guardami! Sono io.” “Oh, Marcus, Marcus!” La donna scoppiò a piangere vedendo seduto accanto al letto il suo manager, e amico fidato, che la seguiva da tanto tempo. “Portami via, Marcus!” “Non posso, cara sei in stato di fermo giudiziario per l’aggressione al poliziotto e poi devono fare accertamenti sulle tue condizioni generali. Pare che tu sia un po’ confusa. Vedrai si risolverà tutto in breve tempo.” “Oh, meno male che sei qui. E’ vero, mi sento un po’ fuori di me, ma posso andare a casa. Diglielo tu, che posso andare a casa!” “Certo, certo. Devi solo stare calma, dimostrare che sei in possesso delle tue facoltà, e ti rilasceranno immediatamente.” “Si, si lo farò. Starò calma. Farò quello che dicono.” Mentre pronunciava queste parole, si senti riprendere dalla debolezza e le si chiusero gli occhi ripiombando nuovamente in un profondo sonno senza sogni. Il manager, seduto tenendole la mano, la guardò ancora lungamente. Poi si alzò e, con affettuosa premura, prese una pezzuola e le deterse il sudore sulla fronte. Quindi, con calma, infilò la mano in tasca e prese una fialetta, l’aprì cautamente e, dopo un breve sguardo intorno per accertarsi di non essere visto, ne versò il contenuto nel flacone della flebo appeso al trespolo vicino al letto. Si allontanò velocemente dalla camera. Dopo qualche minuto, la sostanza raggiunse la vena, il cuore accelerò i battiti e la forte aritmia fece svegliare di soprassalto Tittel, boccheggiante e terrorizzata. Sicura di stare per morire, emise un lungo lamento disperato che fu udito dal medico di guardia che passava nel corridoio. Il dottore non si degnò neanche di entrare nella stanza per vedere cosa fosse successo ed, al collega che l’accompagnava, declamò con sicurezza: “E’ la nuova paziente, sai la cantante. Anche il primario è d’accordo: soffre di una sindrome maniaco depressiva con sintomi schizofrenici e disturbo paranoide della personalità. Possibili atti di autolesionismo. E’ necessario il ricovero sotto stretta osservazione, in lunga degenza.” Più che una diagnosi, le parole suonarono come una sentenza.
III
Era andato per mare lungo cinquant’anni e più della sua vita. Conosceva il buio profondo delle acque al largo delle coste, quando sembrava di navigare sopra la notte piena di incubi ed angosce. Aveva visto giorni e mesi non finire mai, ed il chiarore non cedere alle tenebre mentre, ai bordi del polo, le balene passavano soffiando maestose. Aveva caricato reti stracolme di skrei catturati nelle acque intorno alle Lofoten, ed era stato in attesa del branco magico che avrebbe fatto affondare il peschereccio sotto il peso del pesce. Non si era spaventato affrontando le tempeste più furiose, con il fatalismo indispensabile a chi faceva il suo mestiere, ed era stato in bonaccia passando il tempo cercando di inventare la storia più inverosimile che avrebbe raccontato ai compagni prima di cedere all’ultimo bicchiere di Linie, l’acquavite norvegese. Aveva visto qualcuno sparire tra i flutti, qualcuno era morto tra le sue braccia ed, una volta, aveva aiutato a partorire la moglie di un amico che era rimasta isolata dall’alta marea sulla sua isola. Non era mai stato un chiacchierone e, con il passare del tempo, sentiva di aver quasi esaurito le parole a sua disposizione e di dover risparmiare le restanti per esprimere concetti che ne valessero la pena o che fossero indirizzati a persone che li meritassero. Björn credeva di essersi creato un callo sul cuore che lo rendesse quasi insensibile, ma pensare alla sua povera, amatissima, figlia costretta in un ospedale psichiatrico senza poter fare niente per aiutarla, gli causava una pena sorda e costante molto più dolorosa di tante ferite che gli avevano segnato il fisico durante la sua attività. Adesso capiva come la sensibilità di Tittel l’avesse resa una grande artista ma, nello stesso tempo, fatta vulnerabile agli strali della vita. Avrebbe voluto aiutarla. Si era consigliato e dato da fare, per quanto poteva, ma tutti i consulti esterni alla struttura ospedaliera non avevano fatto altro che confermare la diagnosi dei medici curanti. La cantante alternava periodi nei quali sembrava stare bene e si comportava del tutto normalmente, con momenti di crisi violenta che, stranamente, sembravano coincidere con le visite che riceveva. Pertanto, era stato drasticamente ridotto il numero delle persone alle quali era consentito incontrarla, limitandole ai genitori, al suo manager e vecchio amico, ed al pastore della sua Chiesa che la conosceva fin da piccola.
Quel giorno a casa Nystrøm aleggiava un odore intenso ed invitante che usciva dalla cucina. La signora Hannah stava preparando lo smalahove, come pietanza principale, ed un buon dolce multekremen, per suo marito Björn ed Ernst che veniva a pranzo da loro. Erano contenti di ricevere il giovane che sentivano un po’ come un figlio essendo cresciuto accanto alla loro villetta fino a che non era partito per gli Stati Uniti per completare gli studi. Ernst era andato a scuola con Tittel ed erano cresciuti insieme, facendo nascere nella madre della ragazza la vana speranza di vederli un giorno sposati tra di loro e sistemati a vivere vicino a lei. La vita poi li aveva allontanati, ma dopo essersi specializzato in diritto tributario internazionale, l’ormai affermato professionista era tornato in Norvegia e, quando passava per Bergen, non mancava mai di fare visita a quelli che considerava i suoi secondi genitori. “Vieni, accomodati. Facciamoci una pipata, mentre la signora Nystrøm finisce di preparare.” Björn indicò con la mano una poltrona accanto alla sua, prendendo il sacchetto di tabacco e la pipa con il fornelletto di schiuma bianca che, era ormai tradizione, riservava solo al giovane amico in occasione delle sue visite. “Dammi notizie di Tittel, come sta?” chiese subito Ernst al vecchio padre. “Non bene. Non riesce ad uscire dal tunnel ed i professori non sanno aiutarla.” “Che tragedia! Ma come può essere successo? Sembrava felice con il suo lavoro ed aveva raggiunto tutto quello che avesse mai potuto desiderare.” “Evidentemente, non era così. Covava un’infelicità di fondo che, nel tempo, è emersa violentemente facendole perdere la salute mentale.” L’avvocato aveva le lacrime agli occhi ripensando all’amica e rivedendo il suo sguardo allegro ed a volte impertinente. C’era stato anche un piccolo flirt tra loro, anzi per lui, e forse anche per lei, era stato il primo bacio. Di quelli che non si scordano mai e, quando tornano alla mente provocano un malinconico rimpianto che comprende tutto, dalla gioventù trascorsa alle occasioni mancate. Ernst sentiva che era stata una sua mancanza lasciarsi scappare Tittel dalle mani, come una farfalla che dispieghi le ali, mostrandone a tutti i meravigliosi colori, ed in un soffio voli via. “Come mi dispiace. E la sua carriera, i suoi interessi, adesso chi li cura?” “Per fortuna c’è Marcus, il manager. E’ l’unico che le è rimasto vicino, si è fatto fare una procura generale per ogni suo affare e cura tutto lui. Sta affrontando anche la vicenda che è stata alla base della crisi di Tittel. Ha fatto molte azioni, non ti so spiegare meglio, nei confronti del Ministero delle Finanze, per contestare le presunte irregolarità fiscali. Insomma, sta tutto nelle sue mani.”” Bene, bene. E’ importante avere vicino qualcuno di cui fidarsi.” In quel momento, la signora Nystrøm li chiamò a tavola e cercarono, per quanto possibile, di godersi insieme quei momenti di serenità.
Quella sera Ernst, mentre fumava l’ultima sigaretta prima di andare a letto, pensò, per l’ennesima volta a Tittel ed al suo beffardo destino. Come tanti grandi, aveva raggiunto la vetta per poi precipitare repentinamente nell’abisso, in un tragico fatale momento. E tutto, come causa scatenante, per la stupida contestazione alla dogana da parte di una guardia che non aveva capito la delicatezza dell’anima con la quale il Signore gli aveva dato la fortuna di entrare in contatto. A proposito: la vicenda fiscale. Lui faceva parte dello studio tributario più importante della Norvegia e, per lavoro, aveva contatti, amicizie, relazioni o semplici agganci in tutti gli uffici del Ministero delle Finanze. Sapeva bene come muoversi nei meandri della burocrazia anche solo per trovare informazioni o arrivare al funzionario giusto. Se c’era un caso nel quale Ernst avrebbe potuto mettere a frutto la sua professionalità, con tutto il corollario di aderenze, era proprio la vicenda di Tittel. Con il massimo impegno avrebbe tentato di influire sulla pratica in carico all’amica e agevolarne la soluzione nella maniera più rapida e soddisfacente possibile.
La mattina appresso, arrivò di buon’ora nello Studio Trygve, in Kongens Gate a Oslo, dove grazie alle sue capacità, seppur molto giovane, era diventato vicepresidente con il diritto di occupare un ufficio d’angolo con vista sulla Kontrasktjǽret. Si attaccò al computer ed al telefono e mosse tutte le pedine necessarie per farsi un quadro esauriente della situazione. Rimase al suo posto tutta la giornata ed, alle dieci della sera, fece una chiamata a Bergen. “Björn, scusami se ti disturbo a quest’ora, ma devo parlarti urgentemente. “Cos’è successo, Ernst? Mi stai allarmando. Riguarda Tittel?” “Si, stai tranquillo, non la sua salute, ma ho scoperto alcune cose che vorrei discutere con te quanto prima. Però vorrei pregarti di fare un piccolo viaggio e venire nel mio ufficio perché ci sono documenti che non posso far uscire.” Il vecchio sapeva quando era il momento di troncare le chiacchere e muoversi. “Domattina alle otto e trenta sono da te.” “Ti aspetto, a domani.”
Björn non pensava che Ernst, che ancora ricordava con i pantaloni corti, avesse fatto tanta strada nella sua vita professionale. Rimase stupito nell’entrare in quel moderno edificio tutto vetri e acciaio nel cuore della capitale. E poi continuò nella sua meraviglia quando, scortato da una segretaria che avrebbe potuto fare la modella, mise piede nel grande studio del figlioccio. “Vieni, accomodati. Scusami per questa convocazione tanto pressante, ma devo metterti al corrente di quello che ho scoperto.” Dimmi.” “Come sai, il mio lavoro mi dà accesso a quasi tutti i database del paese sia governativi che privati, anche se a volte in maniera non del tutto lecita. Ho voluto verificare quanto mi avevi detto in merito ai guai di Tittel e se avessi potuto fare qualcosa per lei. Ho cercato la pratica ma, contrariamente alle tue informazioni, ho rilevato che non è stato fatto niente per difendere tua figlia. Anzi, invece di fare le necessarie opposizioni e presentare i documenti, sono stati richiesti solo rinvii per motivi di salute che, ovviamente, non risolvono niente. Sembrerebbe che “il fidato” Marcus, grazie alla sua procura, abbia prodotto carte addirittura negative per l’iter della pratica.” Il vecchio era attento e pendeva dalle labbra del giovane avvocato. “Non solo – continuò Ernst – mi sono ricordato che mi avevi accennato che le condizioni di salute di Tittel subiscono un aggravamento dopo le visite che riceve. Allora, per averne la certezza, ho fatto una cosa che non avrei potuto, ed è per questo che ti ho fatto venire e non ho portato i fogli da te.” “Vai avanti.” “Con l’aiuto di un nostro collaboratore, genio informatico, ho avuto accesso al computer centrale dell’ospedale dove è ricoverata Tittel. Sono riuscito a trovare la sua cartella clinica e, cosa vietatissima, ne ho raccolto i dati. In particolare sono andato a vedere quando alla paziente sono stati somministrati medicinali e cure per tenerla sotto sedazione in seguito ad una crisi conclamata. Devi sapere che il reparto registra anche tutte le visite ricevute ed i nomi dei visitatori con data e ora relativa. Ebbene, confrontando i giorni in cui Marcus è andato in ospedale con quelli in cui c’è stato l’intervento terapeutico, risulta che Tittel ha avuto le ricadute sempre nello stesso giorno in cui il suo manager è andato a trovarla. Per togliermi ogni ulteriore dubbio, ho visto, dalle dichiarazioni, qual è la banca alla quale sono appoggiati i conti di Tittel e, siccome conosco bene il direttore, l’ho subito chiamato per fargli qualche domanda. Per fartela breve, il funzionario mi ha detto come fosse addolorato nel constatare che la sua cliente, tramite il manager che gli aveva presentato la procura ad agire per suo conto, stesse gradualmente, ma sistematicamente, trasferendo i suoi risparmi dalla banca ad un Istituto svizzero, su un conto numerato.  E allora, mi sono fatto una convinzione. Tittel sta subendo un infido raggiro da parte di Marcus che, quando va da lei, le somministra, in qualche maniera, medicinali o droghe che inducono la crisi. Questo fa intervenire i medici che, non notando miglioramenti, continuano a tenerla in ospedale. Marcus, ha quindi il tempo di fare i suoi loschi affari derubando Tittel di ogni suo avere, fino a quando non sarà prosciugata e, a quel punto…temo il peggio.” Björn non interruppe l’amico per la durata di tutto il lungo discorso. La sua faccia era impassibile e grave come al solito, ma all’altezza dello stomaco sentiva salirgli una sensazione d’ansia, o addirittura di panico, come non ne aveva mai provate in tutta la vita. La prima idea che gli venne fu quella di precipitarsi in clinica e strappare la figlia da quella situazione e sottrarla alle grinfie di quel maledetto diavolo. Ma capiva che, per il bene di Tittel, si doveva agire con il cervello. “Hai fatto un lavoro egregio, mio caro Ernst. Sicuramente ti sarai fatto un’idea dei passi che dobbiamo compiere per mettere fine a questa tragedia.” “Certamente. Prima cosa dobbiamo incastrare Marcus, dimostrando la sua colpevolezza, per far annullare la procura e farlo arrestare. Quindi, una volta rimossa la causa, anche le condizioni di Tittel miglioreranno e la riporteremo, finalmente, a casa.” “Oggi mi hai dimostrato come tutto l’affetto, oltre alla stima, che sempre abbiamo provato nei tuoi confronti, fosse ben riposto. Figliolo caro, agisci! Velocemente e con prudenza. Ridammi mia figlia e te ne sarò debitore per sempre.” L’avvocato mise in un cassetto della sua memoria le parole del vecchio ripromettendosi di tornare a risentirle quando avrebbe potuto permettersi il lusso di intenerirsi. Per il momento doveva essere lucido ed aggressivo, e muoversi.
IV
Il manager arrivò al nosocomio per la consueta visita settimanale. Ormai per lui era diventata un’abitudine. Variando il giorno della visita, ma non facendo passare mai più di dieci giorni, controllava le condizioni della sua cliente e, nello stesso tempo, si mostrava come un amico premuroso e solerte, attento alle necessità della giovane ricoverata per la quale sbrigava tutte le onerose incombenze legate alla gestione del suo patrimonio. I medici ed il personale della clinica avevano fatto l’abitudine alle sue viste ed erano quasi entrati in confidenza con quella persona all’apparenza così sollecita e caritatevole. Gli permettevano di passare senza difficoltà e lo lasciavano tranquillamente solo con Tittel alla quale pensavano facesse bene parlare con qualcuno di caro. E’ vero che dopo, magari nelle ore successive o durante la notte, Tittel si agitava a volte fino ad avere delle convulsioni, ma i luminari ritenevano che questo fosse l’effetto di una scossa emotiva che, se da una parte aggravava momentaneamente le sue condizioni, dall’altra non permetteva al suo cervello di scollegarsi del tutto dalla realtà circostante e dalla vita che aveva vissuto in precedenza. Marcus anche quel giorno, con un falso sorriso sulle labbra, aprì la porta della camera dove sul quarto letto vicino alla finestra, Tittel era riversa pallida ed esangue. Aveva perso molto peso ed i suoi meravigliosi capelli ramati erano ridotti ad una matassa di ciocche, spente ed arruffate, intorno al viso sofferente. “Dolcezza, sono qui. Sei contenta di vedermi?” Quando era lontano da eventuali testimoni, l’uomo lasciava cadere la maschera, consapevole che la giovane, anche se avesse avvertito la sua malvagità, non era in grado di reagire in alcuna maniera. “Sono tornato a trovarti. Ora il tuo amico ti fa un po’ di compagnia e ti racconta di come sta curando i tuoi interessi.” Marcus sapeva che poteva dire qualsiasi cosa, tanto Tittel non avrebbe raccolto o, se anche avesse riferito a qualcuno le sue parole, sarebbe stata solo un’ulteriore dimostrazione della labilità del suo equilibrio psichico. “Il tuo fidato e affezionato collaboratore, che hai sempre trattato come un cagnolino a disposizione dei tuoi comandi e dei tuoi capricci, sta giocando con i soldini. Sai, come soldatini, i tuoi dollarucci, insieme al contenuto delle cassettine bancarie, si stanno mettendo in fila e marciano ordinatamente. Pensa, lasciano i tuoi conti e si dirigono verso un piccolo paese lontano, patria dell’Emmental, dove si nasconderanno agli occhi di tutti e risponderanno solo ai comandi del nuovo padroncino, ovvero io.” Non poté trattenere una sardonica risata di autocompiacimento. “Io ti racconterò questa storiellina fino a quando, malauguratamente, non ci sarà più bisogno che tu resti in questa valle di lacrime, e per farti contenta, ti aiuterò a fare un bel sonno profondo e senza risveglio.” Tittel guardava l’amico e non capiva il senso del discorso. Sentiva solo il mellifluo suono delle parole che raccontavano una bella fiaba, e la cullavano dolcemente, facendo apparire uno stanco e tremulo sorriso all’angolo delle sue labbra. Era passato abbastanza tempo per giustificare la sua visita, Marcus poteva finalmente fare quello per cui era venuto. Come di consueto, lanciò una rapida occhiata intorno e infilò la mano in tasca per prendere la fialetta di medicinale, o meglio di veleno. Non se l’aspettava. Improvvisamente si sentì le braccia immobilizzate e vide sbucargli intorno degli uomini in divisa che, strattonandolo senza tanti riguardi, lo gettarono in terra non consentendogli di muovere un muscolo. Quello che sembrava l’ufficiale in capo, verificò il contenuto delle tasche di Marcus e sequestrò non solo una, ma diverse fiale contenenti un farmaco fortemente atropico vietato in commercio. Fu ammanettato e tradotto in galera.
Dall’articolo di spalla sulla prima pagina del quotidiano VG: - Le campane della Chiesa hanno suonato in segreto per Tittel, martedì 13 agosto, quando ha stretto il nodo con uno fra i più importanti avvocati norvegesi, Ernst Rondnaas. La coppia si è sposata martedì con una semplice cerimonia nella chiesa di Hov, alla presenza di pochi invitati e dei parenti più stetti. Gli sposi attualmente risiedono a Frogner, Oslo, ma passano anche molto tempo nella loro fattoria a Hov, Sǿndreland. –
“Certo che lui non si può proprio definire un Adone!” Come in tutti i ricevimenti nuziali che si rispettino, il divertimento più grande per gli invitati era quello di criticare. “Guarda come gli tira il gilet del tight e bisogna dire che, per essere un giovane uomo, è già abbastanza in piazza, sulla fronte.” A questa acida osservazione della zia Nilde, una vecchietta, che era stata la tata di Tittel, rispose con fermezza: “in compenso, lei è uno splendore. E poi, guarda come si fissano negli occhi. Credo che nessuno dei due veda l’aspetto fisico dell’altro, ma se c’è una coppia dove ha vinto l’amore, beh credo proprio che l’abbiamo davanti.”
Tittel e Ernst non si lasciarono la mano per tutta la durata del ricevimento, e se dopo qualcuno avesse chiesto loro cosa fosse successo quel pomeriggio, non avrebbero saputo riferire niente tranne che avevano fluttuato su una nuvola. Il serio avvocato aveva finalmente realizzato il sogno che l’aveva per tanti anni accompagnato ed intenerito mentre, quando stavano lontani, gli capitava di sentire una vecchia canzone che aveva ballato con Tittel o di vedere una stella cadente alla quale affidava sempre un unico e costante desiderio. La cantante aveva trovato, dove era nata, quello che aveva inconsciamente cercato girando tutto il mondo. Il suo cuore era colmo e l’anima leggera. Sentiva di dovere, in qualche modo, esprime il ringraziamento per quella benedizione e, nello stesso tempo, condividere con chi amava la felicità di quel momento. Lo fece nella maniera che meglio sapeva. Senza alcun accompagnamento, e sorprendendo gli invitati, seguì la sua ispirazione e lentamente si alzò da tavola, richiamando su di sé tutti gli sguardi. Fissò negli occhi Ernst e poi il padre e la madre, socchiuse le palpebre, e cantò.