“Papà, me lo tieni tu, oggi pomeriggio, Edo?” “Certamente,
cara.” Risposi a Gioia, mia figlia. Vivevano in casa nostra dopo essere stati
sfrattati dalla loro abitazione da un topo che, chissà come, era entrato nell'appartamento e, manifestando la sua
presenza con residui organici inequivocabili, aveva fatto scappare la famiglia.
Attualmente era in corso un safari tra i derattizzatori e la loro preda che,
stando alle ultime notizie, sembrava essere furba, dispettosa, resistente alle
trappole e, momentaneamente, vincente. Io sono, come direbbe Camilleri, un
“ottantino” che vive la sua vita di pensionato con quell’atteggiamento di
sereno incazzamento che è abbastanza comune tra i miei coetanei. – N.d.A. Ce l’ho fatta! Ho varato un ossimoro
raggiungendo la meta più ambita da tutti gli autori sia di narrativa che di
poesia. Tale locuzione grammaticale è, infatti, il massimo per impressionare il
lettore e, chi non riesce ad inserirla nel testo, spesso l’evidenzia nei titoli
delle sue composizioni. Quale copertina attira di più l’occhio, sugli scaffali
di una libreria, che quella in cui si legge: “il ghiaccio bollente” o “la
tempesta silenziosa” o “un buio luminoso”?
Trucchetti da pennivendoli! – Descrivendomi, immaginate
giacche di tweed e cravatte con piccoli disegni, la barba sempre fatta e
rifinita con lozioni profumate, capelli in ordine ed un voluto, ma non sempre
raggiunto, atteggiamento da gentiluomo di campagna. E’ chiaro che, dalle tre
alle cinque della domenica pomeriggio, quando gioca la “maggica”, mi dovete “lassà
perde”. Ma poi ritorno in me. Edoardo, mio nipote, è un bambino di otto anni
sveglio ed intelligente. Dicono che mi assomiglia nella forma della testa e
negli atteggiamenti seriosi che avevo anch’io alla sua età. La differenza è
che, vivendo nella realtà attuale, è molto più avanti dei bambini della mia
generazione. Parla l’inglese abbastanza bene ed ha un dritto a tennis che io ho
raggiunto, sfondando diverse racchette di legno, non prima dei vent’anni. La
cosa che mi fa molto piacere è che, stranamente, non è schiavo della
televisione. Guarda i programmi per ragazzi ma, forse anche in questo ha preso
da me, ad un certo punto si annoia e preferisce distrarsi con un Topolino o
cercando di coinvolgermi a Monopoli.
Quel pomeriggio, forse a causa di un po’ di solitudine o
perché, mi illudo, riuscivo a divertirlo, venne da me dicendomi: “Senti, i
compiti li ho finiti e poi domani abbiamo una verifica a scuola e, quindi
dovevo solo ripassare. Ci facciamo un tè e mi racconti dei “tuoi tempi”?” Come
si suol dire, mi “invitava a nozze”! Quale soddisfazione maggiore per una
persona anziana di tornare a quello che ha vissuto e, soprattutto, di
raccontarlo a un bambino? Il giovane non ha gli strumenti intellettuali di
valutazione rispetto a quello che sente del passato. Questo dà modo al
narratore di essere fedele agli avvenimenti nelle grandi linee, ma di
infiocchettare e modificare la storia a suo piacimento.
“Bon!” dissi e, socchiudendo gli occhi, mi rammaricai di non
essere seduto su una sedia a dondolo con la pipa in mano e Dorelli, in
sottofondo, che canta “Carissimo Pinocchio”. Il dondolio mi fa venire le
vertigini, la pipa, quando ho provato a fumarla, mi si spenge in continuazione,
la canzone mi sembrava sdolcinata già quando andavo alle elementari e, quindi,
rinuncio volentieri a questa immagine iconografica in favore di una più comoda
seduta sul divano con Edoardo vicino a me.
“Era la fine degli anni sessanta o i primissimi settanta. –
attaccai dopo un breve momento di riflessione -Come sai, facevo l’antiquario e
avevo il negozio in via dei Coronari. I miei acquisti li facevo presso i
rigattieri o comprando oggetti da privati che se ne volevano disfare. Mi ero specializzato
negli argenti inglesi antichi e ne possedevo una bella collezione. Ogni tanto
veniva da me un amico che mi diceva come avesse trovato un calamaio Giorgio III
della fine settecento su una bancarella di Portobello Road e l’avesse portato
via per poche sterline suscitando la mia bonaria invidia che terminava con “Se
ci fossi stato io…”. Naturalmente il mio
sogno più grande era andare nella Capitale Britannica e, guidato dalla mia
esperienza, oltre che dal fiuto che mi riconoscevo, rimestare in tutti i
mercatini alla ricerca di pezzi pregiati o solo curiosi e particolari.
Avevo, più o meno, trent’anni ed era ora che facessi il
grande balzo verso la fonte dei mei interessi commerciali ed, anche, il luogo
dove mi sentivo, elettivamente, di appartenere. Fumavo le Dunhill,
l’impermeabile era rigorosamente Aquascutum, le scarpe Church, tostissime e
quanto mai scomode, il cashmerino a dolce vita di Pringle e, da Castroni,
compravo il tè di Fortnum & Mason. Mia moglie, tua nonna, giustificava poco
questi atteggiamenti, ma quando, finalmente, presi la decisione di andare a
Londra, capì e, suppongo con non poco sollievo, acconsentì alla partenza.
Oggi, se vuoi, compri, su internet, un biglietto low cost e
con un piccolo zaino come bagaglio, in poche ore raggiungi qualsiasi
destinazione. Alla tua età, tu hai già preso l’aereo tante volte e, credo, non
ti faccia più alcun effetto. Ma quello era il mio primo volo ed ero molto
emozionato all’idea. Compagnia aerea rigorosamente di bandiera e viaggio
prenotato per una mattina di giugno calda e soleggiata. Mi feci accompagnare da
moglie e cognati a Fiumicino e li indirizzai verso la terrazza dalla quale
potevano vedere la pista sulla quale stava in attesa il reattore dove sarei
salito. L’aero era visto, all’epoca, come un transatlantico del cielo tra
lusso, avventura e spirito cameratesco. Si immaginava la fusoliera come un
antro scuro e misterioso dove rimanere legati sulle poltrone in balia di un magico
procedimento tecnologico che faceva volare l’acciaio sopra le nuvole contro
ogni logica umana.”” Ma nonno – intervenne il nipotino – si sa che è la
portanza dell’aria sulle ali, correlata all’ampiezza e all’angolo di incidenza,
che sostiene gli aerei.” “Certo, piccolo saputello, ma fammi continuare. Venivamo
accolti da odalische in divisa verde e rossa sorridenti e gentili che ti
accompagnavano e rispondevano ai tuoi desideri fintanto che erano compresi nel
prezzo del biglietto. “Le odalische non stanno solo nei paesi arabi?” chiese il
pargolo “Figura retorica, caro giovane e puntiglioso consanguineo, vado
avanti.” Riposi. “Arrivai all’aereo, a piedi dall’edificio aeroportuale, e salii
la scaletta con animo coraggiosamente fatalista. Prima di passare il portellone
d’entrata, mi voltai verso la terrazza dove stava la famiglia e feci, con la
mano, un gesto di saluto alla maniera della regina Elisabetta dal balcone di
Buckingham Palace.
Lasciavo il piccolo mondo del centro di Roma nel quale la
realtà era ancora simile a quella di un paesotto dove ci si conosceva tutti, ed
il ritmo di vita scandito da cappuccini e totocalcio, per gettarmi in una
metropoli cosmopolita. Conoscevo un po’ la lingua, seppure in maniera alquanto
scolastica, e quando atterrai ad Heathrow, non dico che mi sentivo a mio agio,
ma ero pronto a conoscere quella realtà che da tanto tempo sognavo.
La prima volta che passeggiai per King’s Road rimasi
scioccato. Io mi facevo vanto di istruire il mio sarto in via Belsiana di come
montare le spalle delle giacche per avere un aspetto simile a quelle vendute in
Saville Row, e là c’era una giungla di strani abitanti con i vestiti più
improbabili ed un’accozzaglia di colori da far invidia a Liana Orfei ed il suo
circo. Per riprendermi, andai in un pub all’angolo con Sloane Square. Mi
sedetti al bancone e, poco dopo, mi si avvicinò una ragazza bellissima. Alta,
un filino troppo magra ma con due occhi di un blu profondo, magnetici e grandi.
“Ciao, - mi disse – sono Jean, Jean Shrimpton, faccio la modella. Posso bere
qualcosa con te?” “Nonno! – interruppe il frugoletto – ti pare che una top
model dell’epoca ti abbordava così sfacciatamente? Ho visto qualche tua foto di
allora. Bell’uomo, ma mica Brad Pitt!” “Piccolo e già così miscredente!
Lasciati servire.” Ripresi, quindi il racconto. “You’r welcome!” dissi a Jean.
Bevemmo una birra e, forte del mio fascino mediterraneo, agganciai la ragazza.
Più avanti nella serata lei mi propose: “Do you want…vuoi accompagnarmi ad un
party da amici?” Avevo un po’ l’occhio a mezz’asta per l’ora tarda ed i
beveraggi, ma per non fare torto alla nomea dei latin lovers, accettai con ben
simulato entusiasmo.Giungemmo in un grande loft a Chelsea pieno di gente
stralunata alle prese con bicchieri e sigarette che facevano a gara per quale
fornisse il maggiore stordimento. Si sentiva musica ad alto volume galleggiando
in una nebbia odorosa e tanto fitta che poteva competere con il migliore smog
di Piccadilly. Fedele alla mia morigeratezza, mi sedetti su un divano
all’angolo di una stanza sorseggiando l’equivalente di un Crodino. “Nonnooo.
Tutte le sere ti fai un bel bicchierone di whisky con ghiaccio e ora mi dici
che, in quell’ambiente, non toccasti niente di alcolico?” “Caro discendente di
secondo grado, sappi che, al Circolo del Tennis, io ero soprannominato “un
dito” perché quando mi offrivano qualcosa di forte, rispondevo sempre in quella
maniera. Vero è che non specificavo se il dito, che indicava la quantità di
bevanda etilica nel bicchiere, dovesse essere considerato in orizzontale o in verticale,
ma “self control e continenza” era il mio motto. Sorvoliamo comunque su questi
particolari e torniamo al nocciolo.” Le frequenti interruzioni mi stavano
distraendo dalla storia e, leggermente, innervosendo. “La notte era ormai
inoltrata ed io provavo qualche difficoltà a non scivolare nelle braccia di
Morfeo.” “Ehhh?? C’erano pure gli omosessuali alla festa?” disse il già più che
scafato prepubere che, tra scuola e internet, ben conosceva le cose della vita.
“Ah, ah, ah! Che hai capito? Volevo dire che resistevo al sonno. Ma, andiamo
avanti.” “Stavo lì per conto mio dopo che Jean si era alzata per salutare
qualcuno o rifornirsi di qualcosa, quando la diversità della situazione mi
indusse a riflettere su quello che avevo lasciato partendo. Qui c’era la
trasgressione, l’avventura e la novità, ma vedevo tante facce vuote e ansiose
di trovare una motivazione per la loro esistenza. A Roma mi aspettava la
routine, un pizzico di noia, ma anche tanti valori e sentimenti che sono la
cosa più importante per la quale vivere. Decisi di non farmi tentare da falsi
paradisi, vacui ed artificiali, e rivalutai la mia vita piena del vero calore
degli affetti sinceri. Un ultimo pensiero per Jean che rimase nel mio ricordo
come una eterea ectoplasmatica sirena che non vinse con il suo fascinoso
richiamo sulla mia ferrea odisseica volontà. Ovvero, se ne andò lasciandomi
solo. Mi allontanarmi verso il mio albergo a preparare la valigia per tornare,
all’indomani, a casa.” “Nonno, ma che mi dici. Stavi vivendo il tuo sogno e, di
colpo, hai mollato tutto? Che avventura è?” “Senti acerbo e cinico iconoclasta,
le storie sono di chi le racconta! Cogli la morale che ti insegna come chi
lascia la via vecchia per la nuova eccetera, eccetera. E fidati di chi ha i
capelli, pochi, ma incanutiti dall’esperienza della vita!” “Ummfff!!” fece il
soldo di cacio deluso dal mancato coup de théâtre, se questa è l’espressione.
“E adesso vai, esile virgulto, la narrazione è finita. Accendi quella dannata e
benedetta televisione e consuma le tue diottrie scandagliando i pixel. Qualcuno
più volgare di me si sentirebbe di aver distribuito perle ai porci, come suolsi
dire, ma io affermo solo che un giorno capirai.” Edoardo si alzò e raccolse il
mio invito lasciandomi con i miei ricordi e con una prepotente voglia per uno “shot”
che mi apprestai sollecitamente a soddisfare.
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