martedì 17 dicembre 2013

Quando conobbi Jean.



“Papà, me lo tieni tu, oggi pomeriggio, Edo?” “Certamente, cara.” Risposi a Gioia, mia figlia. Vivevano in casa nostra dopo essere stati sfrattati dalla loro abitazione da un topo che, chissà come, era entrato nell'appartamento e, manifestando la sua presenza con residui organici inequivocabili, aveva fatto scappare la famiglia. Attualmente era in corso un safari tra i derattizzatori e la loro preda che, stando alle ultime notizie, sembrava essere furba, dispettosa, resistente alle trappole e, momentaneamente, vincente. Io sono, come direbbe Camilleri, un “ottantino” che vive la sua vita di pensionato con quell’atteggiamento di sereno incazzamento che è abbastanza comune tra i miei coetanei. – N.d.A. Ce l’ho fatta! Ho varato un ossimoro raggiungendo la meta più ambita da tutti gli autori sia di narrativa che di poesia. Tale locuzione grammaticale è, infatti, il massimo per impressionare il lettore e, chi non riesce ad inserirla nel testo, spesso l’evidenzia nei titoli delle sue composizioni. Quale copertina attira di più l’occhio, sugli scaffali di una libreria, che quella in cui si legge: “il ghiaccio bollente” o “la tempesta silenziosa” o “un buio luminoso”? Trucchetti da pennivendoli! Descrivendomi, immaginate giacche di tweed e cravatte con piccoli disegni, la barba sempre fatta e rifinita con lozioni profumate, capelli in ordine ed un voluto, ma non sempre raggiunto, atteggiamento da gentiluomo di campagna. E’ chiaro che, dalle tre alle cinque della domenica pomeriggio, quando gioca la “maggica”, mi dovete “lassà perde”. Ma poi ritorno in me. Edoardo, mio nipote, è un bambino di otto anni sveglio ed intelligente. Dicono che mi assomiglia nella forma della testa e negli atteggiamenti seriosi che avevo anch’io alla sua età. La differenza è che, vivendo nella realtà attuale, è molto più avanti dei bambini della mia generazione. Parla l’inglese abbastanza bene ed ha un dritto a tennis che io ho raggiunto, sfondando diverse racchette di legno, non prima dei vent’anni. La cosa che mi fa molto piacere è che, stranamente, non è schiavo della televisione. Guarda i programmi per ragazzi ma, forse anche in questo ha preso da me, ad un certo punto si annoia e preferisce distrarsi con un Topolino o cercando di coinvolgermi a Monopoli.

Quel pomeriggio, forse a causa di un po’ di solitudine o perché, mi illudo, riuscivo a divertirlo, venne da me dicendomi: “Senti, i compiti li ho finiti e poi domani abbiamo una verifica a scuola e, quindi dovevo solo ripassare. Ci facciamo un tè e mi racconti dei “tuoi tempi”?” Come si suol dire, mi “invitava a nozze”! Quale soddisfazione maggiore per una persona anziana di tornare a quello che ha vissuto e, soprattutto, di raccontarlo a un bambino? Il giovane non ha gli strumenti intellettuali di valutazione rispetto a quello che sente del passato. Questo dà modo al narratore di essere fedele agli avvenimenti nelle grandi linee, ma di infiocchettare e modificare la storia a suo piacimento.
“Bon!” dissi e, socchiudendo gli occhi, mi rammaricai di non essere seduto su una sedia a dondolo con la pipa in mano e Dorelli, in sottofondo, che canta “Carissimo Pinocchio”. Il dondolio mi fa venire le vertigini, la pipa, quando ho provato a fumarla, mi si spenge in continuazione, la canzone mi sembrava sdolcinata già quando andavo alle elementari e, quindi, rinuncio volentieri a questa immagine iconografica in favore di una più comoda seduta sul divano con Edoardo vicino a me.

“Era la fine degli anni sessanta o i primissimi settanta. – attaccai dopo un breve momento di riflessione -Come sai, facevo l’antiquario e avevo il negozio in via dei Coronari. I miei acquisti li facevo presso i rigattieri o comprando oggetti da privati che se ne volevano disfare. Mi ero specializzato negli argenti inglesi antichi e ne possedevo una bella collezione. Ogni tanto veniva da me un amico che mi diceva come avesse trovato un calamaio Giorgio III della fine settecento su una bancarella di Portobello Road e l’avesse portato via per poche sterline suscitando la mia bonaria invidia che terminava con “Se ci fossi stato io…”.  Naturalmente il mio sogno più grande era andare nella Capitale Britannica e, guidato dalla mia esperienza, oltre che dal fiuto che mi riconoscevo, rimestare in tutti i mercatini alla ricerca di pezzi pregiati o solo curiosi e particolari.
Avevo, più o meno, trent’anni ed era ora che facessi il grande balzo verso la fonte dei mei interessi commerciali ed, anche, il luogo dove mi sentivo, elettivamente, di appartenere. Fumavo le Dunhill, l’impermeabile era rigorosamente Aquascutum, le scarpe Church, tostissime e quanto mai scomode, il cashmerino a dolce vita di Pringle e, da Castroni, compravo il tè di Fortnum & Mason. Mia moglie, tua nonna, giustificava poco questi atteggiamenti, ma quando, finalmente, presi la decisione di andare a Londra, capì e, suppongo con non poco sollievo, acconsentì alla partenza.
Oggi, se vuoi, compri, su internet, un biglietto low cost e con un piccolo zaino come bagaglio, in poche ore raggiungi qualsiasi destinazione. Alla tua età, tu hai già preso l’aereo tante volte e, credo, non ti faccia più alcun effetto. Ma quello era il mio primo volo ed ero molto emozionato all’idea. Compagnia aerea rigorosamente di bandiera e viaggio prenotato per una mattina di giugno calda e soleggiata. Mi feci accompagnare da moglie e cognati a Fiumicino e li indirizzai verso la terrazza dalla quale potevano vedere la pista sulla quale stava in attesa il reattore dove sarei salito. L’aero era visto, all’epoca, come un transatlantico del cielo tra lusso, avventura e spirito cameratesco. Si immaginava la fusoliera come un antro scuro e misterioso dove rimanere legati sulle poltrone in balia di un magico procedimento tecnologico che faceva volare l’acciaio sopra le nuvole contro ogni logica umana.”” Ma nonno – intervenne il nipotino – si sa che è la portanza dell’aria sulle ali, correlata all’ampiezza e all’angolo di incidenza, che sostiene gli aerei.” “Certo, piccolo saputello, ma fammi continuare. Venivamo accolti da odalische in divisa verde e rossa sorridenti e gentili che ti accompagnavano e rispondevano ai tuoi desideri fintanto che erano compresi nel prezzo del biglietto. “Le odalische non stanno solo nei paesi arabi?” chiese il pargolo “Figura retorica, caro giovane e puntiglioso consanguineo, vado avanti.” Riposi. “Arrivai all’aereo, a piedi dall’edificio aeroportuale, e salii la scaletta con animo coraggiosamente fatalista. Prima di passare il portellone d’entrata, mi voltai verso la terrazza dove stava la famiglia e feci, con la mano, un gesto di saluto alla maniera della regina Elisabetta dal balcone di Buckingham Palace.
Lasciavo il piccolo mondo del centro di Roma nel quale la realtà era ancora simile a quella di un paesotto dove ci si conosceva tutti, ed il ritmo di vita scandito da cappuccini e totocalcio, per gettarmi in una metropoli cosmopolita. Conoscevo un po’ la lingua, seppure in maniera alquanto scolastica, e quando atterrai ad Heathrow, non dico che mi sentivo a mio agio, ma ero pronto a conoscere quella realtà che da tanto tempo sognavo.

La prima volta che passeggiai per King’s Road rimasi scioccato. Io mi facevo vanto di istruire il mio sarto in via Belsiana di come montare le spalle delle giacche per avere un aspetto simile a quelle vendute in Saville Row, e là c’era una giungla di strani abitanti con i vestiti più improbabili ed un’accozzaglia di colori da far invidia a Liana Orfei ed il suo circo. Per riprendermi, andai in un pub all’angolo con Sloane Square. Mi sedetti al bancone e, poco dopo, mi si avvicinò una ragazza bellissima. Alta, un filino troppo magra ma con due occhi di un blu profondo, magnetici e grandi. “Ciao, - mi disse – sono Jean, Jean Shrimpton, faccio la modella. Posso bere qualcosa con te?” “Nonno! – interruppe il frugoletto – ti pare che una top model dell’epoca ti abbordava così sfacciatamente? Ho visto qualche tua foto di allora. Bell’uomo, ma mica Brad Pitt!” “Piccolo e già così miscredente! Lasciati servire.” Ripresi, quindi il racconto. “You’r welcome!” dissi a Jean. Bevemmo una birra e, forte del mio fascino mediterraneo, agganciai la ragazza. Più avanti nella serata lei mi propose: “Do you want…vuoi accompagnarmi ad un party da amici?” Avevo un po’ l’occhio a mezz’asta per l’ora tarda ed i beveraggi, ma per non fare torto alla nomea dei latin lovers, accettai con ben simulato entusiasmo.Giungemmo in un grande loft a Chelsea pieno di gente stralunata alle prese con bicchieri e sigarette che facevano a gara per quale fornisse il maggiore stordimento. Si sentiva musica ad alto volume galleggiando in una nebbia odorosa e tanto fitta che poteva competere con il migliore smog di Piccadilly. Fedele alla mia morigeratezza, mi sedetti su un divano all’angolo di una stanza sorseggiando l’equivalente di un Crodino. “Nonnooo. Tutte le sere ti fai un bel bicchierone di whisky con ghiaccio e ora mi dici che, in quell’ambiente, non toccasti niente di alcolico?” “Caro discendente di secondo grado, sappi che, al Circolo del Tennis, io ero soprannominato “un dito” perché quando mi offrivano qualcosa di forte, rispondevo sempre in quella maniera. Vero è che non specificavo se il dito, che indicava la quantità di bevanda etilica nel bicchiere, dovesse essere considerato in orizzontale o in verticale, ma “self control e continenza” era il mio motto. Sorvoliamo comunque su questi particolari e torniamo al nocciolo.” Le frequenti interruzioni mi stavano distraendo dalla storia e, leggermente, innervosendo. “La notte era ormai inoltrata ed io provavo qualche difficoltà a non scivolare nelle braccia di Morfeo.” “Ehhh?? C’erano pure gli omosessuali alla festa?” disse il già più che scafato prepubere che, tra scuola e internet, ben conosceva le cose della vita. “Ah, ah, ah! Che hai capito? Volevo dire che resistevo al sonno. Ma, andiamo avanti.” “Stavo lì per conto mio dopo che Jean si era alzata per salutare qualcuno o rifornirsi di qualcosa, quando la diversità della situazione mi indusse a riflettere su quello che avevo lasciato partendo. Qui c’era la trasgressione, l’avventura e la novità, ma vedevo tante facce vuote e ansiose di trovare una motivazione per la loro esistenza. A Roma mi aspettava la routine, un pizzico di noia, ma anche tanti valori e sentimenti che sono la cosa più importante per la quale vivere. Decisi di non farmi tentare da falsi paradisi, vacui ed artificiali, e rivalutai la mia vita piena del vero calore degli affetti sinceri. Un ultimo pensiero per Jean che rimase nel mio ricordo come una eterea ectoplasmatica sirena che non vinse con il suo fascinoso richiamo sulla mia ferrea odisseica volontà. Ovvero, se ne andò lasciandomi solo. Mi allontanarmi verso il mio albergo a preparare la valigia per tornare, all’indomani, a casa.” “Nonno, ma che mi dici. Stavi vivendo il tuo sogno e, di colpo, hai mollato tutto? Che avventura è?” “Senti acerbo e cinico iconoclasta, le storie sono di chi le racconta! Cogli la morale che ti insegna come chi lascia la via vecchia per la nuova eccetera, eccetera. E fidati di chi ha i capelli, pochi, ma incanutiti dall’esperienza della vita!” “Ummfff!!” fece il soldo di cacio deluso dal mancato coup de théâtre, se questa è l’espressione. “E adesso vai, esile virgulto, la narrazione è finita. Accendi quella dannata e benedetta televisione e consuma le tue diottrie scandagliando i pixel. Qualcuno più volgare di me si sentirebbe di aver distribuito perle ai porci, come suolsi dire, ma io affermo solo che un giorno capirai.” Edoardo si alzò e raccolse il mio invito lasciandomi con i miei ricordi e con una prepotente voglia per uno “shot” che mi apprestai sollecitamente a soddisfare.

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