venerdì 29 novembre 2013

Cara Susanna,

The Cavendish
81 Jermyn Street St James's, London, England SW1Y 6JF

Cara Susanna,
avevo promesso che ti avrei scritto una lettera dopo questa giornata londinese e mantengo la parola. Sono andato all’appuntamento con mrs. Agatha Collins, capo acquisti del Childrens’ Department, presso il suo ufficio nei magazzini Harrods. Mi ha ricevuto puntualissima, e con grande cortesia, in una vasta sala all’ultimo piano dell’edificio in Brompton Road accompagnata da tre suoi collaboratori. Dopo l’inevitabile offerta di una “cup of tea”, ci siamo messi a parlare dei nostri progetti e delle loro intenzioni. Aveva già ricevuto le scatole contenenti la collezione di abiti da te disegnata e mi ha detto che, dopo averla paragonata con le altre che loro già trattano, ritiene opportuno fare un inserimento per la prossima stagione. Mi ha invitato, quindi, a lasciare il listino prezzi con l’ulteriore condizione di un diritto di reso del 20% sulla merce invenduta promettendo di inviarci un ordine via mail. A questo punto, mi sono alzato, ho sbattuto la cartellina sul tavolo e ho detto: “No, Thanks!” e me ne sono andato……….Ferma! Immagino che stai già prendendo il cellulare per allertare un neurologo dal quale portarmi appena arrivo. Sto scherzando. Ovviamente ho ringraziato mrs. Collins con dignitoso e quasi distaccato compiacimento, come se per noi fosse cosa normale avere un cliente di quel rango e, trattenendomi dal camminare saltellando di contentezza, mi sono avviato verso l’uscita principale del negozio. Mi è stato molto utile l’ammiraglio che faceva funzione di portiere appena fuori dalle porte girevoli, al quale ho chiesto le indicazioni per raggiungere il pub più vicino dove ho festeggiato la conclusione dell’affare ordinando una pinta della loro Guinness più scura.
Erano tanti anni che non venivo a Londra. Come sai, passai qui una vacanza/studio di tre mesi alla fine degli anni sessanta ma, da allora, anche se ho visitato quasi tutte le capitali europee oltre che gli Stati Uniti ed altro, stranamente, non mi è mai più capitata l’occasione di tornare nel Regno Unito.
 All’epoca avevo sui quindici anni e vivevo presso una famiglia che un conoscente londinese di mio padre gli aveva raccomandato come alloggio e pensione. Durante il giorno andavo a scuola per imparare la lingua facendo un lungo tragitto dalla periferia, dove abitavo, fino in centro. Prima prendevo un bus che mi portava alla stazione dell’underground e, finalmente, dopo più di un’ora di viaggio arrivavo a destinazione. A scuola avevo fatto qualche amicizia e, con loro, passavo il tempo libero. I ricordi che ho della città e degli abitanti di allora sono impressi nella mia mente perché del tutto particolari. “Mi spieghi perché il professore non si cambia mai la camicia?” chiesi un giorno al mio compagno di banco. L’istitutore, infatti, portava, durante la settimana, giacche blu, nere o marroni, ma la camicia era sempre a righine bianche e rosa con il colletto ed i polsi bianchi. “Non è che non si cambia la camicia – mi rispose l’amico – qui si usano camice con colletto e polsini staccabili in modo da cambiare solo quelli che, essendo bianchi e a più diretto contatto con la pelle, si sporcano maggiormente. Il corpo della camicia, salvaguardato dalla giacca e dalla canottiera, viene cambiato solo quando è veramente necessario quindi, spesso, dopo svariati giorni.” A me abituato al cambio della biancheria quotidiano, ed anche vedendo i miei che cambiavano la camicia tassativamente una o due volte al giorno, apparve un’abitudine molto poco igienica.
Quando entravo nel “tube”, l’odore era la prima cosa che mi assaliva. Di gomma bruciata mista a polvere e spazzatura. Poi, scendendo la scala mobile di legno, nella fioca illuminazione, data da molte ma deboli lampadine gialle, la moltitudine di gente silenziosa, dove una buona parte era di impiegati con la bombetta, l’ombrello, la borsa sotto il braccio e l’aria triste. Quando tornavo alla luce era per modo di dire. Ovvero, anche durante il giorno, la mattina e la sera scendeva la nebbia, a volte fittissima, e quando si riusciva a vedere il cielo, tutto era di un colore smorto e grigiastro a causa dei sedimenti dello smog su palazzi e monumenti. Qualche volta uscivo la sera per una pizza o un cinema. Chiedevo alla mia landlady “Is it raining?” “Noouuu!!” Rispondeva lei con un sorrisino di dileggio sottintendendo la mia mediterranea vulnerabilità di fronte agli elementi atmosferici. Io, fidandomi, uscivo senza ombrello ed, in effetti non pioveva ma “drizzles”. Cioè non faceva gli scroscioni ma una fitta pioggerellina che non ti induceva a ripararti ma era sufficiente ad inzupparti per bene. Quando poi capitavo in King’s Road o nella mitica Carnaby Street, scordavo tutti gli aspetti negativi e godevo dell’atmosfera beat con i colori, la musica, i personaggi e la moda che si vedevano per la strada e che si incastonavano come un fiore dai mille colori in una zolla di fango.
In definitiva sono stato, fino ad oggi, innamorato di Londra per i miei ricordi legati al suo carattere particolare. Ai suoi contrasti, alle abitudini ed agli atteggiamenti dei suoi abitanti, al modo di vivere, di mangiare, di rapportarsi socialmente, alle architetture ed ai paesaggi del tutto differenti da quelli a quali ero abituato. Le altre grandi città, poi successivamente visitate, mi hanno dato sensazioni completamente differenti e non hanno mai potuto competere con il ricordo di quell’ammaliante atmosfera.
Ora non so dove mi trovo. Sono andato in metropolitana ed era…pulita e ben illuminata. Ancora un vago odore di gomma, ma una massa di gente più omologata senza bombette a sottolineare differenti ruoli. Tutti, più o meno, ben vestiti con quel low cost di massa targato Zara o H&M. Non c’è più lo smog. Hanno ripulito gli edifici e ho visto per due mattine un sole pieno. Girando per le strade, resistono i vecchi negozi storici, ma il contorno è fatto di griffe internazionali intervallate da kebab e sushi bar. Sono stato da Fortnum & Mason ed i commessi abbigliati in tight una volta davano l’idea della massima distinzione in un contorno di eleganza, attualmente fanno un po’ la parte di comparse travestite per una commedia senza più protagonisti.
Oggi un inglese potrebbe vivere indifferentemente a Londra come a New York o Parigi o Milano. La globalizzazione, l’apertura delle frontiere con la Comunità Europea e poi la revisione del WTO che dal 1994 ha fatto entrare anche la Cina e gli altri Paesi emergenti nei trattati di libero scambio commerciale, hanno fatto di tutto il mondo un unico mercato dove, come in ogni economia, vince chi offre il prodotto al costo più basso. Questo a scapito della qualità, della individualità e della riconoscibilità dei prodotti che non appartengono più ad una nazione o ad un popolo ma alle multinazionali. Noi mangiamo pomodori che vengono dalla Cina, i francesi fanno fare la Haute Couture in Malesia o Bangladesh, gli inglesi importano ingegneri e brevetti dall’India.
A qualcuno questo sembra un progresso nel senso che la libertà e la sempre maggiore facilità degli interscambi economici e culturali dovrebbero arricchire il nostro sentire comune e dare maggiori opportunità di iniziativa. Io credo che i vantaggi, al momento, siano solo per quei paesi che venendo da situazioni sociali senza protezione ed, a volte, di evidente sfruttamento, riescono ad espellere dal mercato le imprese già sul territorio vincolate da giusti impegni sociali e di civiltà e che, quindi, non riescono a competere dovendo, giustamente ripeto, vivere anche eticamente la loro attività subendone i costi relativi.
Ci sono maggiori opportunità? Certamente, ma il numero dei giovani disoccupati è cresciuto drammaticamente. Il PIL è aumentato? Ovviamente si, rispetto a trent’anni fa, anche se, allora, quando si sposava un figlio gli si regalava un appartamento e i giovani laureati, ancora relativamente pochi, trovavano lavoro in Italia senza dovere andare all’estero. Il benessere sociale è cresciuto? Non credo, se oggi i vecchi devono mantenere i giovani con quello che hanno guadagnato allora e la povertà sta aggredendo anche la fascia media. Si, ma la lira veniva svalutata. Eggià, perché adesso non subiamo imposizioni e restrizioni fiscali da Brussels, ovvero da Berlino, che valgono quanto una svalutazione?
Allora è tutta colpa del MURO? Si!!
Quando c’era ancora lui (il muro) si sapeva da che parte stavano i buoni e da quale i cattivi. Lo sceriffo aveva il cappello bianco e il bandito nero. Le frontiere proteggevano dagli immigrati clandestini e le dogane da droghe, merce contraffatta e traffico di valuta. Il Paese Italia si riconosceva, ed era riconosciuto, con un’identità molte volte d’eccellenza ed, a tratti, negativa, ma, comunque, peculiare. E lo stesso valeva per gli altri Paesi Europei compresa la Gran Bretagna.
I nuovi urbanisti a Londra hanno messo un suppostone di vetro e cemento vicino alla Tower Bridge e se un cittadino di Manhattan venisse catapultato, a sua insaputa, nella City, sostituirebbe il bourbon con il whisky, ma per il resto noterebbe poco la differenza.
Si stava meglio quando si stava meglio.   
Questa, cara Susy, è la mia impressione di viaggio. Sto prendendo contatti anche per mandare un vestitino a George Alexander Louis, hai visto mai…
Ti abbraccio forte,
tuo Stefano
P.S. Per ulteriori smancerie & effusioni, girare pagina.


Da casuccia, chiotta, chiotta.

Caro Stefano,
me lo dovevo aspettare da quella volta che mi mandasti una lettera nella quale la prima facciata era scritta in maniera tutta tremolante dicendo che eri disperato e in preda all’alcol e poi, girando pagina, smascheravi la burla e tutto il tuo infantilismo. Dovevo capire all’epoca, quando ero in tempo, ma ormai…vabbè!
Potrei anche essere d’accordo con la pappardella sul muro anche se poi mi spiegherai perché hai comprato su internet un pezzo di calcinaccio che secondo me appartiene al cantiere all’angolo anche se c’è scritto che viene da Berlino.
Se ce l’hai tanto coi cinesi, vai da Burberry’s, fai il signore, e comprami una bag come si deve. Poi chiama Teng e digli che non gli prendi più quella che gli avevi prenotato per Natale a cinquanta euro.
E poi, se tanto ti scoccia andare a Londra, la prossima volta ci vado io. Magari in coincidenza con i SALES.
Ti aspetto a braccia aperte, sempre tua
Susy.
P.S. Smancerie & effusioni direttamente al destinatario al momento dell’arrivo.





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