venerdì 29 novembre 2013

Cara Susanna,

The Cavendish
81 Jermyn Street St James's, London, England SW1Y 6JF

Cara Susanna,
avevo promesso che ti avrei scritto una lettera dopo questa giornata londinese e mantengo la parola. Sono andato all’appuntamento con mrs. Agatha Collins, capo acquisti del Childrens’ Department, presso il suo ufficio nei magazzini Harrods. Mi ha ricevuto puntualissima, e con grande cortesia, in una vasta sala all’ultimo piano dell’edificio in Brompton Road accompagnata da tre suoi collaboratori. Dopo l’inevitabile offerta di una “cup of tea”, ci siamo messi a parlare dei nostri progetti e delle loro intenzioni. Aveva già ricevuto le scatole contenenti la collezione di abiti da te disegnata e mi ha detto che, dopo averla paragonata con le altre che loro già trattano, ritiene opportuno fare un inserimento per la prossima stagione. Mi ha invitato, quindi, a lasciare il listino prezzi con l’ulteriore condizione di un diritto di reso del 20% sulla merce invenduta promettendo di inviarci un ordine via mail. A questo punto, mi sono alzato, ho sbattuto la cartellina sul tavolo e ho detto: “No, Thanks!” e me ne sono andato……….Ferma! Immagino che stai già prendendo il cellulare per allertare un neurologo dal quale portarmi appena arrivo. Sto scherzando. Ovviamente ho ringraziato mrs. Collins con dignitoso e quasi distaccato compiacimento, come se per noi fosse cosa normale avere un cliente di quel rango e, trattenendomi dal camminare saltellando di contentezza, mi sono avviato verso l’uscita principale del negozio. Mi è stato molto utile l’ammiraglio che faceva funzione di portiere appena fuori dalle porte girevoli, al quale ho chiesto le indicazioni per raggiungere il pub più vicino dove ho festeggiato la conclusione dell’affare ordinando una pinta della loro Guinness più scura.
Erano tanti anni che non venivo a Londra. Come sai, passai qui una vacanza/studio di tre mesi alla fine degli anni sessanta ma, da allora, anche se ho visitato quasi tutte le capitali europee oltre che gli Stati Uniti ed altro, stranamente, non mi è mai più capitata l’occasione di tornare nel Regno Unito.
 All’epoca avevo sui quindici anni e vivevo presso una famiglia che un conoscente londinese di mio padre gli aveva raccomandato come alloggio e pensione. Durante il giorno andavo a scuola per imparare la lingua facendo un lungo tragitto dalla periferia, dove abitavo, fino in centro. Prima prendevo un bus che mi portava alla stazione dell’underground e, finalmente, dopo più di un’ora di viaggio arrivavo a destinazione. A scuola avevo fatto qualche amicizia e, con loro, passavo il tempo libero. I ricordi che ho della città e degli abitanti di allora sono impressi nella mia mente perché del tutto particolari. “Mi spieghi perché il professore non si cambia mai la camicia?” chiesi un giorno al mio compagno di banco. L’istitutore, infatti, portava, durante la settimana, giacche blu, nere o marroni, ma la camicia era sempre a righine bianche e rosa con il colletto ed i polsi bianchi. “Non è che non si cambia la camicia – mi rispose l’amico – qui si usano camice con colletto e polsini staccabili in modo da cambiare solo quelli che, essendo bianchi e a più diretto contatto con la pelle, si sporcano maggiormente. Il corpo della camicia, salvaguardato dalla giacca e dalla canottiera, viene cambiato solo quando è veramente necessario quindi, spesso, dopo svariati giorni.” A me abituato al cambio della biancheria quotidiano, ed anche vedendo i miei che cambiavano la camicia tassativamente una o due volte al giorno, apparve un’abitudine molto poco igienica.
Quando entravo nel “tube”, l’odore era la prima cosa che mi assaliva. Di gomma bruciata mista a polvere e spazzatura. Poi, scendendo la scala mobile di legno, nella fioca illuminazione, data da molte ma deboli lampadine gialle, la moltitudine di gente silenziosa, dove una buona parte era di impiegati con la bombetta, l’ombrello, la borsa sotto il braccio e l’aria triste. Quando tornavo alla luce era per modo di dire. Ovvero, anche durante il giorno, la mattina e la sera scendeva la nebbia, a volte fittissima, e quando si riusciva a vedere il cielo, tutto era di un colore smorto e grigiastro a causa dei sedimenti dello smog su palazzi e monumenti. Qualche volta uscivo la sera per una pizza o un cinema. Chiedevo alla mia landlady “Is it raining?” “Noouuu!!” Rispondeva lei con un sorrisino di dileggio sottintendendo la mia mediterranea vulnerabilità di fronte agli elementi atmosferici. Io, fidandomi, uscivo senza ombrello ed, in effetti non pioveva ma “drizzles”. Cioè non faceva gli scroscioni ma una fitta pioggerellina che non ti induceva a ripararti ma era sufficiente ad inzupparti per bene. Quando poi capitavo in King’s Road o nella mitica Carnaby Street, scordavo tutti gli aspetti negativi e godevo dell’atmosfera beat con i colori, la musica, i personaggi e la moda che si vedevano per la strada e che si incastonavano come un fiore dai mille colori in una zolla di fango.
In definitiva sono stato, fino ad oggi, innamorato di Londra per i miei ricordi legati al suo carattere particolare. Ai suoi contrasti, alle abitudini ed agli atteggiamenti dei suoi abitanti, al modo di vivere, di mangiare, di rapportarsi socialmente, alle architetture ed ai paesaggi del tutto differenti da quelli a quali ero abituato. Le altre grandi città, poi successivamente visitate, mi hanno dato sensazioni completamente differenti e non hanno mai potuto competere con il ricordo di quell’ammaliante atmosfera.
Ora non so dove mi trovo. Sono andato in metropolitana ed era…pulita e ben illuminata. Ancora un vago odore di gomma, ma una massa di gente più omologata senza bombette a sottolineare differenti ruoli. Tutti, più o meno, ben vestiti con quel low cost di massa targato Zara o H&M. Non c’è più lo smog. Hanno ripulito gli edifici e ho visto per due mattine un sole pieno. Girando per le strade, resistono i vecchi negozi storici, ma il contorno è fatto di griffe internazionali intervallate da kebab e sushi bar. Sono stato da Fortnum & Mason ed i commessi abbigliati in tight una volta davano l’idea della massima distinzione in un contorno di eleganza, attualmente fanno un po’ la parte di comparse travestite per una commedia senza più protagonisti.
Oggi un inglese potrebbe vivere indifferentemente a Londra come a New York o Parigi o Milano. La globalizzazione, l’apertura delle frontiere con la Comunità Europea e poi la revisione del WTO che dal 1994 ha fatto entrare anche la Cina e gli altri Paesi emergenti nei trattati di libero scambio commerciale, hanno fatto di tutto il mondo un unico mercato dove, come in ogni economia, vince chi offre il prodotto al costo più basso. Questo a scapito della qualità, della individualità e della riconoscibilità dei prodotti che non appartengono più ad una nazione o ad un popolo ma alle multinazionali. Noi mangiamo pomodori che vengono dalla Cina, i francesi fanno fare la Haute Couture in Malesia o Bangladesh, gli inglesi importano ingegneri e brevetti dall’India.
A qualcuno questo sembra un progresso nel senso che la libertà e la sempre maggiore facilità degli interscambi economici e culturali dovrebbero arricchire il nostro sentire comune e dare maggiori opportunità di iniziativa. Io credo che i vantaggi, al momento, siano solo per quei paesi che venendo da situazioni sociali senza protezione ed, a volte, di evidente sfruttamento, riescono ad espellere dal mercato le imprese già sul territorio vincolate da giusti impegni sociali e di civiltà e che, quindi, non riescono a competere dovendo, giustamente ripeto, vivere anche eticamente la loro attività subendone i costi relativi.
Ci sono maggiori opportunità? Certamente, ma il numero dei giovani disoccupati è cresciuto drammaticamente. Il PIL è aumentato? Ovviamente si, rispetto a trent’anni fa, anche se, allora, quando si sposava un figlio gli si regalava un appartamento e i giovani laureati, ancora relativamente pochi, trovavano lavoro in Italia senza dovere andare all’estero. Il benessere sociale è cresciuto? Non credo, se oggi i vecchi devono mantenere i giovani con quello che hanno guadagnato allora e la povertà sta aggredendo anche la fascia media. Si, ma la lira veniva svalutata. Eggià, perché adesso non subiamo imposizioni e restrizioni fiscali da Brussels, ovvero da Berlino, che valgono quanto una svalutazione?
Allora è tutta colpa del MURO? Si!!
Quando c’era ancora lui (il muro) si sapeva da che parte stavano i buoni e da quale i cattivi. Lo sceriffo aveva il cappello bianco e il bandito nero. Le frontiere proteggevano dagli immigrati clandestini e le dogane da droghe, merce contraffatta e traffico di valuta. Il Paese Italia si riconosceva, ed era riconosciuto, con un’identità molte volte d’eccellenza ed, a tratti, negativa, ma, comunque, peculiare. E lo stesso valeva per gli altri Paesi Europei compresa la Gran Bretagna.
I nuovi urbanisti a Londra hanno messo un suppostone di vetro e cemento vicino alla Tower Bridge e se un cittadino di Manhattan venisse catapultato, a sua insaputa, nella City, sostituirebbe il bourbon con il whisky, ma per il resto noterebbe poco la differenza.
Si stava meglio quando si stava meglio.   
Questa, cara Susy, è la mia impressione di viaggio. Sto prendendo contatti anche per mandare un vestitino a George Alexander Louis, hai visto mai…
Ti abbraccio forte,
tuo Stefano
P.S. Per ulteriori smancerie & effusioni, girare pagina.


Da casuccia, chiotta, chiotta.

Caro Stefano,
me lo dovevo aspettare da quella volta che mi mandasti una lettera nella quale la prima facciata era scritta in maniera tutta tremolante dicendo che eri disperato e in preda all’alcol e poi, girando pagina, smascheravi la burla e tutto il tuo infantilismo. Dovevo capire all’epoca, quando ero in tempo, ma ormai…vabbè!
Potrei anche essere d’accordo con la pappardella sul muro anche se poi mi spiegherai perché hai comprato su internet un pezzo di calcinaccio che secondo me appartiene al cantiere all’angolo anche se c’è scritto che viene da Berlino.
Se ce l’hai tanto coi cinesi, vai da Burberry’s, fai il signore, e comprami una bag come si deve. Poi chiama Teng e digli che non gli prendi più quella che gli avevi prenotato per Natale a cinquanta euro.
E poi, se tanto ti scoccia andare a Londra, la prossima volta ci vado io. Magari in coincidenza con i SALES.
Ti aspetto a braccia aperte, sempre tua
Susy.
P.S. Smancerie & effusioni direttamente al destinatario al momento dell’arrivo.





sabato 23 novembre 2013

Ciao, Cì!

“Ciao, Cì!” mi salutò Massimo. Io non mi chiamo né Ciriaco, né Cirillo né, tanto meno Ciccio, ma questo è il suo intercalare e, dopo tanto tempo che lo conosco, ormai ci sono abituato. Ero andato a trovare l’amico presso il suo ufficio perché, avendo un po’ di tempo libero nei miei giri per la città, avevo pensato di prendere un caffè insieme e metterlo al corrente delle ultime novità. Sono un Vice Questore Aggiunto distaccato, attualmente, presso il Ministero dell’Interno al Viminale. Il lavoro mi piace molto ed oltre ad essere di notevole responsabilità e rilevanza sociale, mi fornisce anche la libertà di poter gestire i miei impegni. Nell’ambito delle mie competenze, infatti, organizzo gli spostamenti miei e dei miei collaboratori non legandomi alla scrivania ma, anzi, spaziando verso ogni direzione susciti il mio interesse. Ultimamente al Ministro erano giunte segnalazioni dall’Interpol relative a possibili ramificazioni di un caso internazionale che si supponeva potesse avere sviluppi sul nostro territorio ed io ero stato incaricato delle indagini. “Come stai, Cì? Andiamoci a prendere il caffè al bar qui vicino” Massimo è una persona molto cordiale e lavorando in quell’ufficio da molti anni, conosce tutto della zona ed è in confidenza con i vicini e gli esercenti dei vari locali. Ci avvicinammo al bancone e lui passò l’ordinazione al barista: “Mi fai, per favore, un caffè lungo, qualità arabica, miscela d’importazione, tazza calda, schiumato con latte della Centrale a mezza scrematura, possibilmente di giornata. Grazie” Il tipo, al di là del bancone, lo guardò da sotto in su dicendo, visto che lo conosceva, “Va bene, come al solito.” In realtà pensando: “Ahò, te dovrei chiedere cinque euri per tutte ste cose, mica novanta centesimi!” “Per lei?” chiese rivolto a me. “Un macchiato caldo”: tre parole per lo stesso concetto. “Allora, Cì, mi dovevi dire qualcosa?” mi chiese Massimo sorseggiando la bevanda alla quale aveva aggiunto mezzo cucchiaino di zucchero di canna girato cinque volte in senso antiorario. “Si – risposi – Oggi mi ha chiamato il Ministro e…” “A Cì, aspetta, aspetta che ti devo raccontare che m’è successo oggi con la moto.” Io, pensando fosse una cosa grave, accettai l’interruzione e lo lasciai proseguire capendo come per lui potesse essere rilevante che la sua amata Harley avesse avuto qualche inconveniente. Bisogna sapere che Massimo è un fiero ed orgoglioso centauro. Descriverei il mio amico come una persona di circa cinquant’anni ben portati. Snello, con una eleganza sportiva che abbina foularini in tinta con giacche sfoderate e camperos, capelli scompigliati ad arte e movenze agili. Potrei anche dire che, forse, non è altissimo e questo si nota in particolare quando è in sella al suo mostro meccanico. Qualcuno ricorderà il noto comico romano Renato Rascel quando, nella macchietta che gli dette la notorietà, interpretava il corazziere. Anche lui non era, diciamo, una stanga e, facendo la parte di uno di quei militari che sono alti ameno un metro e novanta, si presentava in palcoscenico con un pastrano che spolverava per terra, uno sciabolone che gli arrivava alla fronte ed uno spropositato elmo con pennacchio. Attaccava cantando “Mamma ti ricordi quando ero piccoletto…” Nei teatri di avanspettacolo anni ‘50, l’effetto comico era assicurato. Sono sicuro che l’amico non si offenderà, ma quando Massimo inforca l’Harley Davidson, si vede una gran “cazzerola” (pentola, in romanesco – casco per translata immagine) su un insieme di cromature e rombo di motore che un po’, me ne scuso, mi fa tornare in mente Rascel. Dopo che ho perso un’amicizia, posso continuare nel racconto. La digressione serve per far intendere come quando lui mi prospettò un problema, io gli cedetti la precedenza nella conversazione. Non voglio annoiare il lettore riportando i sintomi di fasce dei pistoni lente o simili, anche perché ad un certo punto mi persi anch’io nelle sue lamentele. “Hai capito, Cì, che mi è successo? E mo’ che devo fa? Piuttosto che mi stavi raccontando?” riprese il mio (ex?) amico. “Adesso tocca a me.” Pensai. “Ti dicevo che mi ha chiamato il Capo di Gabinetto e, insieme, siamo andati dal Ministro che…” “Pronto, Alvaro?” mi interruppe Massimo prendendo il cellulare che aveva cominciato ad emettere il suo fastidioso jingle. “Scusa, Cì, ma stavo aspettando la chiamata.” “Fai, fai.” Risposi paziente. La telefonata durò poco, ma, a quel punto, mi era passato l’entusiasmo di raccontare le mie novità e, quando riattaccò cambiai discorso. “Che fai oggi?” gli chiesi per conversazione. “Non me ne parlare. Sto incasinatissimo. Devo andare da Maiorana a comprare gli astici per fare la catalana. Oh, intendiamoci: quelli blu della Sardegna mica gli altri che vengono dall’Atlantico. Lo so, costano 28 euro e cinquanta al chilo contro i 13 e sessantacinque degli altri, ma con la cipolla di Tropea, la scorzetta di arancio biologico ed un filo d’olio extravergine della Sabina occidentale, sono un’altra cosa!” “E’ naturale.” Dissi io con un marcato aumento della salivazione evocato dal piatto da lui descritto. “E poi – proseguì Massimo – devo andare alla Toyota a ritirare la macchina a cui ho fatto fare il tagliando e riportarla a casa.” Si era fatta ormai l’ora di pranzo e quindi gli proposi: “Se vuoi, ti accompagno e poi ci mangiamo una cosa insieme.” “Dai, Cì, mi fa piacere. Andiamo.” Chiuse l’ufficio, andammo a ritirare l’autovettura riparata e, quindi, ci avviamo verso la sua villa appena fuori città.
Arrivati a casa, ci corse subito incontro Gina, la gatta, che Massimo accolse con una tenerezza per me del tutto incomprensibile vista anche l’allergia che il pelo dei subdoli felini mi provoca. “Vieni dento, Cì, che ci facciamo preparare un’insalatina veloce con gherigli di noce Pecam, germogli di spinacino e radicchio trevigiano colto a mano in una notte di luna piena(?!?)” “Bon!” risposi, pensando che un sano spago “aglio e oglio” avrebbe meglio sopito i giustificati lamenti del mio apparato digerente.
“Facciamo una sorpresa a Daniela che non mi aspettava a quest’ora.” Mi disse l’amico avviandosi verso il suo studio dove si intravedeva la moglie alla scrivania concentrata a digitare su una tastiera di pc. Le arrivammo alle spalle senza che se ne avvedesse. “Ciao!” dissi io facendole fare un salto sulla sedia del quale, se l’avesse vista, Gina sarebbe stata molto invidiosa. “Come Stai? Che stai facendo? Un momento, ferma!” Esclamai rendendomi conto, improvvisamente, che la signora non solo stava al computer, ma era circondata da almeno tre monitor tutti accesi su differenti schermate. Una piccola consolle teneva in carica due telefoni cellulari ed altri due stavano sul tavolo. Vidi distintamente i siti con i quali era connessa e la mole di dati che, su un display stava scaricando.
Tornando al mio nuovo incarico, che non avevo potuto comunicare a Massimo, l’informativa che ci era pervenuta al Ministero parlava di hackers che, dalla zona di Roma Nord, si insinuavano nei data base delle multinazionali boicottando le comunicazioni limitando, in tal modo, la possibilità del libero commercio. In particolare si erano introdotti, interrompendoli, nei contatti tra la più grande Compagnia di Pesca alla Balena giapponese e le sue unità navali causando l’interruzione della caccia al cetaceo con una gravissima perdita economica. Avevo accettato l’incarico di trovare il colpevole con qualche riserva mentale dettata dalla simpatia che quell’anonimo disturbatore mi suscitava facendo sospendere, anche se solo momentaneamente, un odioso sterminio che stava mettendo a rischio la sopravvivenza del gigante dei mari.
Adesso, non volendo, avevo trovato il responsabile. “Dani, che stai facendo?” Ripetei. “Senti, caro amico, - mi rispose – tutti, nel nostro piccolo, dobbiamo contribuire alla salvezza del Pianeta ed alla salvaguardia della Natura per noi e per i nostri figli. So che sei un poliziotto. M’hai beccato. Fai quello che devi.” “A CI’I’I’I’…” Gridò Massimo “Che vuoi fare?” Dentro il mio animo si scontrava il dovere con l’amicizia, l’obbedienza con la coscienza civica, la limitata soddisfazione di aver portato a termine il mio compito con la soddisfazione ben più grande di nuocere a cinici speculatori. E, quindi, dopo un breve conflitto interiore, dissi: “Spengi tutto. M’è calata improvvisamente la vista e non ho scorto niente su quegli schermi. Non mi tornerà soltanto a patto che possa dare io le disposizioni a Brigi per il pranzo.” “Fai pure” dissero, sollevati, Massimo e Daniela.
“Brigitta!” chiamai con la mia intonazione più stentorea la collaboratrice di Massimo addetta alla cucina. “Quell’insalatina dalla a Gina, prepara tre etti di linguine sciuè sciuè come sai fare tu e, con un bicchiere di Vermentino, portiamoci i piatti nel patio a godere gli ultimi raggi del sole.


martedì 12 novembre 2013

Le Palle di Esteban

Aveva sei palle e ci teneva a metterle bene in vista. Il Barone Esteban Zingales degli Stracci non perdeva, infatti, l’occasione di esporre la corona dello stemma araldico, con le sfere in numero proporzionale al grado nobiliare, su tutte le sue proprietà. Il Casato possedeva un palazzo a Roma in prossimità di Villa Medici, di proprietà vaticana, e faceva parte della ristretta cerchia degli addetti al Soglio Pontificio. Discendeva da una antica Famiglia di fedeltà borbonica con rami, più o meno cadetti, sparsi tra le Due Sicilie e la Spagna. C’erano particolari legami con la Catalogna dove risiedeva una cugina, figlia di don Pedro Gomez y Pasubio e dell’infanta della Regina, con la quale, le rispettive famiglie, avevano fatto un progetto di matrimonio per rinsaldare i legami di sangue ed unire i patrimoni. All’epoca, ad Esteban avevano inviato una miniatura che ritraeva la nobile donzella ma, evidentemente nel tragitto si era un po’ rovinata o il pittore non era particolarmente abile, poiché la beltà, da tutti decantata, non veniva adeguatamente rappresentata. Sul volto sembrava esserci uno sbaffo di pittura, come fosse un irsuto neo, ma ciò non risultava dai rapporti dei pronubi messaggeri. Quello che aveva destato un certo distaccato interesse nel nobile romano, era un altro piccolo dipinto a figura intera nel quale sembrava che la cugina indossasse un paio di calzari in quel momento molto in voga nelle corti più raffinate evidenziando, in tal modo, gusto estetico ed attitudine alla mondanità che il barone riteneva essere ottime qualità in una donna da marito.
L’affare non si concluse, anche se sembrava fatto, in quanto voci tendenziose, poi rivelatesi false, fecero sorgere qualche dubbio sulla morigeratezza della fanciulla. Piuttosto che correre il rischio di sconvolgere la chiusa mentalità del Circolo degli Scacchi, il barone si defilò, elegantemente, dal periglioso vincolo.
Il tempo, pur galantuomo con l’aspetto esteriore del Zingales, non faceva sconti a nessuno ed il nobile si avviava alla quarantina con viva preoccupazione della Baronessa madre che non voleva lasciare il casato privo di eredi di sua diretta genia. Il fascino dei capelli appena brizzolati lasciati, volutamente, un po’ lunghi e tenuti in acconciatura con il più profumato grasso di balena proveniente da Parigi, il fisico agile con ben distribuite lipidini a sottolineare l’agio della vita condotta in alternanza tra tenzoni alla pallacorda e ricche libagioni, e la sua naturale convivialità rendevano il nobile romano uno dei più contesi scapoli ancora disponibili.
Questa voce era giunta alla duchessa Zimoninen Hohlen von Kuchen che dal castello di St. Vigil in Enneberg, nel cuore dell’Impero Asburgico, aveva mandato propri fidi verso tutto il Sud Tirol per indagare sui migliori pretendenti alla mano della sorella minore, la duchessina Zuzanne, Zuzi per gli amici.  Non avendo trovato degni partiti al nord, aveva esteso, con un leggero moto di insofferenza, la ricerca verso le terre del sud dove, sorvolando sugli usi ed i costumi tanto diversi rispetto a quelli ai quali era consona, si potevano combinare buoni contratti matrimoniali. Dopo aver scartato un cadetto Visconti di Modrone, un conte della Gherardesca ed un nobile patrizio dei principi di Salaparuta, vagliò la candidatura del Zingales degli Stracci. Veniva dalla corte del Santo Padre, era stato allevato da una tata della Marca Trevigiana, era di buone sostanze e, dicevano, di prestanza fuori dal comune pertanto, pensò la duchessa, si poteva prendere in prudente considerazione.
La Hohlen von Kuchen chiamo la sua fida dama di compagnia dicendole: “Mein lieber Franziska, considerando la tua provenienza dal Regno Pontificio ti ritengo adatta a prendere i necessari accordi con i tuoi conterranei ed avviare un rapporto epistolare che introduca l’ipotesi di un connubio tra la Zuzi e quel barone romano. Chiediamo uno scambio di miniature accompagnato da bolle di referenza per valutare i partiti, e poi, nel caso, combineremo un incontro.” La buona Franziska che, da una vita, era avvezza alle disposizioni, oltre che ai capricci, della titolata amica, si attivò con lena e, tramite il corriere asburgico, si fece portavoce presso la nobile famiglia romana. “Schnell!” la spronò la duchessa.
Dopo un adeguato lasso di tempo, e viste le corrette premesse dell’eventuale unione, il barone Esteban mandò alla duchessina un suo ritratto equestre in sella a Vespa, la sua giumenta preferita. Indossava un pastrano di soffice vello che, il rampante destriero, faceva svolazzare mostrando le ricche vestimenta borchiate con la “Z” del casato.  Riccioli scompigliati e sguardo pieno di fascinazione. Per la giovane e, quasi del tutto, innocente Zuzi fu un “coup de foudre” come avrebbe detto Dacia, sua cugina dell’Alta Savoia, molto più smaliziata di lei.
Incominciò a sognare Esteban ed a fare pressioni sulla buona Franziska affinché perorasse il suo desiderio presso l’arcigna sorella alla quale era demandato l’esito della vicenda.
Anche lo Zingales, visto il ritratto proveniente dalle terre del Grande Freddo, rimase favorevolmente impressionato. Notava la lunga bionda capigliatura ed i chiari occhi dolci. Gli facevano tenerezza la fossetta sul mento ed il timido sorriso. Nell’altro dipinto, a figura intera, sperava che il ben pronunciato “derrier” che si intuiva sotto l’ampia gonna, non fosse solo un’imbottitura estetica, ma il velato segnale di un nascosto giardino delle delizie.
Quindi non pose ostacoli quando gli pervenne, dal castello di St. Vigil, l’invito per una visita di conoscenza.
Chiamò il paggio di camera dando disposizioni per la partenza. Fece preparare la carrozza imbottita ed i bauli con il guardaroba più pesante e, dopo avere avvisato la Santa Sede che lo sostituissero come portantino della Sedia Gestatoria per non creare imbarazzanti zoppie al papa nelle prossime processioni, con la benedizione del Cappellano di palazzo, partì.
Aveva un solo cruccio. La successiva domenica, seconda dell’Avvento, si sarebbe tenuto, al Circo Massimo, il Palio dei Rioni della Città Eterna. La competizione del gioco della palla, sul genere di quella disputata a Firenze, era molto attesa dal popolo e dai sostenitori delle varie contrade. In particolare, quel giorno, ci sarebbe stata la sfida tra la compagine della Lupa, con i colori giallo e rosso, e quella dell’Aquila vestita di bianco e celeste. La prima, favorita, agli ordini di un nuovo Capitano del Popolo di origini francesi e la seconda con un Capitano di Ventura slavo che, visti i risultati, era prossimo alla cacciata con infamia. Siccome, per queste competizioni valeva lo stesso detto relativo ai conclavi, cioè che chi ne entrava come papa ne usciva come cardinale, a significare che il favorito, spesso, risultava perdente, il risultato era sempre molto incerto. Il barone, fervente sostenitore della Lupa, aveva scommesso una discreta somma sull’esito della partita ed il fatto di non potervi assistere, lo disturbava non poco.
Ma “noblesse oblige” ed all’alba, ovvero per lui alle dieci e trenta del mattino, di un giorno di metà Novembre, accompagnato dal paggio e due lacchè addetti alla vettura, lascio palazzo avviandosi per la strada consolare Cassia verso nord.
Prevedeva che il viaggio sarebbe durato dieci o quindici giorni, in relazione alle soste ed alla clemenza, od all’asprezza, delle condizioni metereologiche imprevedibili per quel lungo tragitto.  Non si poteva però esimere, passando nei pressi della Tomba di Nerone, dal fermarsi per una visita di cortesia da troppo tempo rimandata, presso dei cari amici di famiglia. Si fermò quindi, sul finire del primo giorno di viaggio, nella suburbana residenza di don Paolo, Duca dell’Aquila e della Spada. Costui, Cavaliere del Sacro Romano Impero, da tempo si era ritirato dalla mondanità dell’Urbe e viveva con la Principessa di Montereale sua moglie, di molto più giovane, e della figliolanza, in una villa in campagna dove coltivava, oltre ad i prodotti dell’orto, i suoi interessi nello studio della filosofia e nella contemplazione ombelicale. La gestione del maniero era demandata, interamente, all’efficiente consorte che, oltre agli acciacchi del marito, si faceva carico anche di ogni altra incombenza, compresa la compagnia della Principessa Madre ormai più che novantenne.
“Carissimo duca!” salutò il barone. “Duca, duca, du…ca-pelli!” rispose il padrone di casa con la solita scherzosa battuta alla quale, pur ben conoscendola, erano tutti obbligati a mostrarsi divertiti. “Come sta’? Come scorre la vita?” domandò Esteban. Grave errore. Mai fare questa domanda ad una persona anziana salvo destinare le successive due ore alla minuziosa descrizione degli acciacchi patiti dall’interlocutore, dei clisteri, e dei ripetuti salassi con le sanguisughe ad alleviare la spinta del flusso sanguigno. Passò anche quel tempo e, quando l’anfitrione chiese all’ospite il motivo della sua venuta, il barone rispose: “Vado ad incontrare la futura baronessa.” Il duca, attingendo dalla saggezza degli antichi pensatori, gli consigliò: “Sei sicuro, mio caro, di quello che fai? Ti ricordo che, come disse Socrate e confermò Santippe, è sempre meglio…” “Ho capito – lo fermò subito l’altro intuendo dove stava andando a parare – ma son determinato alla bisogna e, dopo aver omaggiato vostra signoria e la principessa, con il vostro permesso, proseguirò il viaggio” Il nobile degli Stracci, con l’usuale perspicacia, comprese come l’intelletto dell’interlocutore fosse ormai poco ancorato alle realtà circostanti e, quindi, per evitare imbarazzanti situazioni si accomiatò con cortese sollecitudine.
Il tiro a quattro fu rilanciato sulla consolare scorrendo sull’acciottolato che vide nei secoli, passare barbari e patrizi lungo la dorsale dell’italico stivale.
Dopo il tempo che ci volle, a Dio piacendo, arrivò a Bozen. Da là, la sua meta, distava, all’incirca una giornata di viaggio e, quindi, il barone mandò avanti uno dei lacchè per avvisare del suo imminente arrivo.
La carrozza percorse i tornanti della Val Pusteria passando per Kardaun, Blumau, Vols am Schlern, St. Kostantin, Seis, Kastelruth, Sankt Ulrich, Wolkenstein in Groden, Kurfar, Stern, Sankt Martin in Thurn per poi giungere a St. Vigil. Insomma, come ebbe a sintetizzare bene il nobile, “Un vero e proprio giro di Peppe” causato dalla confusione sulla scelta del tragitto più veloce che frullava nella testa del primo lacchè di vettura che, non si sa bene il motivo, in famiglia, era chiamato Tom-Tom.
Nel castello fervevano i preparativi per l’accoglienza dell’illustre e desiderato ospite. La duchessa Zimoninen aveva fatto lucidare l’argenteria e sprimacciare i divani. Aveva dato disposizione di accendere il fuoco in tutti i camini del castello per riscaldare le stanze e spazzare dalla neve il cortile d’onore. La servitù si era impegnata a rimettere in ordine l’appartamento imperiale per ospitare il barone romano dove, si tramandava senza prove certe, aveva dormito il Barbarossa passando da quelle parti. Aveva anche chiamato la De Carlis, sua sarta personale, e si era fatta confezionare un vestito di broccato rifinito con pelli d’ermellino da indossare con la parure di zaffiri tirata fuori, per l’occasione, dallo scrigno dei gioielli.
Anche la giovane Zuzi viveva momenti di nervosa impazienza. Non si curava tanto dell’abbigliamento da mostrare, quanto di rendere lucidi, spazzolandoli, i lunghi capelli biondi e di trovare la cipria della tonalità giusta che colorisse lievemente il suo naturale pallore senza rinunciare ad un’aria vagamente emaciata e virginale che voleva trasmettere come impressione.
Soprattutto, cercava di tenere a freno i battiti del cuore che, come una carica degli Ussari, partiva al galoppo ogni volta che sentiva uno rumore di zoccoli nel cortile o una voce mandare un richiamo che poteva essere l’avviso dell’arrivo del suo sospirato corteggiatore.
E’ notorio che dentro ogni nobiluomo romano, alligna un popolano che non si manifesta apertamente nei rapporti quotidiani, ma che commenta e chiosa gli avvenimenti con l’ironico cinismo proprio del volgo capitolino.
Così arrivando alla porta del castello, dopo i lungo viaggio, intirizzito, senza aver saputo il risultato della disfida tra la Lupa e l’Aquila, don Esteban trovò ad accoglierlo la gentildonna e disse: “E’ un onore per me visitare questa avita magione ed incontrare una sì nobile e splendente castellana”. In realtà pensava: “Ahó, anvedi ‘ndo stanno messi questi. Con sto freddo da lupi me se stanno a gelà pure quelle della corona”. “Benvenuto, barone degli Stracci, sia questa modesta dimora asilo e rifugio per il viaggiatore che accogliamo con rispetto e benevolenza.” Il pensiero vero della duchessa era: “Blick auf das rote Nase sieht aus wie eine Kartoffel. Hoffentlich gut! – trad. – Guarda che naso rosso, sembra una patata. Speriamo bene!”
Il Zingales fu accompagnato nelle stanze a lui destinate per rinfrescarsi in vista del banchetto serale di presentazione alla Zuzanne. “Belle anche se un po’ cupe queste stanze.” – fu l’impressione, forbita, del nobiluomo – “Tanto ce rimango meno che pozzo. Acchiappo la regazza e la porto a vive a palazzo. Mica se po’ sta qui in mezzo deli pinquini!” – l’altra parte di pensiero.
Si agghindò e scese nel salone d’onore dove una lunga tavolata, imbandita con ogni possibile leccornia, mostrava, tra piume di fagiani, argenti, candele accese e brocche di cristallo, l’opulenza e la generosità dell’ospite.
L’attenzione di Esteban si distrasse subito da quell’immagine magnificente quando, per la prima volta incrociò gli occhi con quelli della spendente giovane Zuzi. Non fu facile per lui ignorare, in quel momento, i richiami insistenti del suo stomaco che, parte volgare, solleticato dagli effluvi dei manicaretti imbanditi, si sentiva trascurato da troppo tempo. Ma quello che non aveva mai creduto possibile, in un attimo accadde. Come descritto nelle più sdolcinate romanze dei trovatori provenzali, il suo cuore fece un balzo e improvvisamente capì che il suo destino era compiuto incontrando quello che non aveva mai creduto esistesse: la sua anima gemella. “Ecco, te ce sei infognato. E mo’ so…” si riassunse tra se e se. 
A Zuzanne Hohlen von Kuchen fu chiaro che il Fato aveva creato la “Coppia” e chi era lei per opporsi alle frecce di Cupido?
La saggia Zimoninen aiutata da Franziska, nei giorni seguenti organizzò tutta una serie di colloqui tendenti ad esaminare il pretendente, ma avessero avuto un esito favorevole o avessero, altrimenti, mostrato l’indegnità del candidato, non avrebbero avuto più alcun senso dopo che i giovani si erano scelti e, di nascosto, nei cortili innevati, scambiati promesse d’amore.
Sulla porta del castello di St. Vigil in Enneberg, la duchessa Zimoninen Hohlen von Kuchen, con accanto dama Franziska in un mare di lacrime, abbracciò la sorella in partenza per Roma con l’ormai ufficiale fidanzato e così li benedisse: “Achten Sie darauf, sie gut zu behandeln sonst nach Rom und Chaos kommen!” “Grazie” rispose, commosso, il nobile romano senza aver capito una parola e non rendendosi conto della minaccia che, insita in quelle parole, avrebbe per sempre gravato sul suo capo. Infatti un passante teutonico avrebbe così tradotto:” Stai attento di trattarla bene altrimenti vengo a Roma e ti sfracello!”











lunedì 11 novembre 2013

Il Delitto del Frigidaire

“Adelina, come stai? Disturbo?” Telefonò Kathia alla sua vicina di casa. “Figurati - rispose l’altra - sto aiutando quella capra del mio figliolo con la matematica, ma sudo più io di lui! Dimmi tutto.” “Mi stavo chiedendo se ti andrebbe di venire, stasera, a cena da noi con Paolo.” Perché no? Devo solo organizzare con la nonna per badare al piccolo e poi, ben volentieri!” Bene, allora vi aspettiamo alle otto e mezza. A dopo!” “Ciao, porto da bere!” Chiuse l’amica. 
Il giorno di riposo infrasettimanale per i parrucchieri della provincia di Grosseto, la Kathia se lo godeva tutto. Mentre la domenica era dedicata alla famiglia, nel giorno feriale il marito era al lavoro e la figlia faceva il tempo lungo a scuola uscendo non prima delle diciotto. “Solitudo, sola beatitudo!” veniva da pensare alla parrucchiera dopo che tutto il resto della settimana era a contatto con il pubblico delle sue clienti. La mattina era dedicata ai lavori domestici arretrati, mentre, il pomeriggio, dopo un breve sonnellino ritemprante, con un sorriso di beatitudine sul volto, si poneva il solito dilemma. Andare per negozi, dall’estetista per la pulizia del viso o fare una corsetta sul tapis-roulant della palestra? Nove volte su dieci l’attività fisica veniva subito scartata con un pizzico di senso di colpa dovuto anche al fatto che continuava a pagare l’abbonamento per dimostrare a se stessa la buona volontà, ma poi si prendeva in giro con mille scuse per non andarci. Quindi, come alternativa, rimaneva rinchiudersi in un salone per la cura del suo aspetto o farsi un paio di “vasche” (andata e ritorno da un capo all’altro della strada) lungo il corso di Orbetello. Era una bella giornata e passeggiare guardando le vetrine, forse premiandosi con un piccolo acquisto, sembrava, alla Kathia, una cosa buona e giusta.
In quel giovedì di inizio Ottobre, la parrucchiera prese la sua Panda 4X4 color senape e si diresse verso la cittadina a pochi chilometri di distanza. Dieci minuti di Aurelia, poi la deviazione verso la laguna ed, in poco tempo, arrivò in via Veneto circumnavigando il giardinetto centrale alla ricerca di un parcheggio.
La mancanza del turismo estivo e la giornata, per gli altri, lavorativa, offrivano ampi spazi vuoti in cui lasciare la vettura. Fece il dovuto ticket di pagamento, barando solo un po’ sull’orario di sosta, e si incamminò decisa verso l’imbocco di Corso Italia. Camminando con calma, si lasciava affascinare principalmente dai negozi di abbigliamento, ma anche dalla bottega dei saponi e dalla libreria dove spesso rinunciava all’acquisto per l’imbarazzo nella scelta tra i mille volumi esposti. Ogni volta che andava, trovava sempre qualcosa di desiderabile sulla quale fare un pensierino.
Con un po’ di “coquetterie” era solita fermarsi davanti all’esposizione di “Intimissimi”. A parte il fatto che i manichini girevoli, modellati per mostrare corpi che in natura sono rari da reperire, rappresentano solo una presa in giro per una donna normale ed un sogno per il di lei compagno, i completini esposti erano molto evocativi.
Si immaginava, la sera dopo aver messo a dormire la bambina e spento il televisore, di indossare quella guepierre nera, coordinata con le mutandine a string e le calze velate, e presentarsi così a suo marito. Lei, con il completino osé avvolta in una nuvola di Chanel n° 5 ed il consorte steso sul letto, con il pigiama in maglina marca Cagi sui toni del beige e verdino, al massimo deodorato con l’AXE Africa, mentre le dà un’occhiata distratta indeciso su quale sia la tentazione più forte: la moglie o la Gazzetta dello Sport che stava leggendo. Se avesse comprato quella “mise” sarebbero stati soldi buttati.
Passò, quindi, avanti e non dovendo più fare la pin up (nella sua fantasia), si fermo al bar vicino per un bombolone alla crema ed una tazza di tè.
Un’occhiata all’orologio e si accorse che erano già le cinque. Tra un’oretta la figlia sarebbe tornata a casa ed era quasi finita, anche per lei, la libera uscita. Contenta per la passeggiata, tornò verso la macchina con l’euforia che l’aria frizzantina del primo autunno non mancava mai di procurarle. Non si sentiva affatto stanca, anzi avrebbe voluto, in qualche modo, ancora occupare il tempo che le restava ed, allora le venne in mente di preparare, per la sera, un piattino “dei suoi”. La Kathia era un’ottima cuoca senza smancerie di scuola, ma con la sana manualità che le avevano insegnato la nonna e la madre guardandole in cucina a spadellare. Visto che stava in paese, poteva fare un salto da Covitto per comprare un po’ di pesce e preparare una sorpresa per la famiglia. Beh, tanto valeva allargare l’invito a qualche conoscente ed organizzare una simpatica serata in allegria. Le sembrò un’ottima idea. Prese il cellulare e digitò il numero della Adelina.
Ora si poneva il problema del menù. Non poteva fare torto alla sua fama e, quindi, doveva scegliere qualcosa che le venisse bene e che fosse particolarmente gustoso. Ripassò mentalmente i suoi cavalli di battaglia e, dopo un breve ballottaggio tra qualche alternativa, decise per un ricco antipasto ed un primo sostanzioso. Niente secondo. Avrebbe comprato, tornando, un dolce dalla Pasticceria Ferrini e poi tozzetti e vin santo a volontà.
Per antipasto pensava ad un piatto con un misto di affettati di cinghiale e dei crostoni di salciccia e stracchino. Per il prosciutto ed il salame non c’era problema, mentre i crostoni li avrebbe dovuti preparare all’arrivo degli ospiti. Per farli si taglia una baguette a piccole fette o del pane senza sale. Si prepara un impasto di stracchino (si può sostituire con una fetta di mozzarella) ed il ripieno di salciccia di maiale. Si spalma il composto, che non deve essere troppo molle, sul pane e si inforna per 6-7 minuti servendo i crostoni ben caldi.
Il primo doveva essere il piatto forte e, quindi, un po’ più complicato. Aveva pensato alla “Zuppa dell’Argentario” un piatto che si perde nella storia, fra Porto Ercole e Porto santo Stefano, tra gli scogli e le reti da pesca. Si fa così. Innanzitutto, per quattro persone, procurarsi: 200g. di polpo, 200g. di seppie,  1 scorfano, 1 san pietro, 6 cicale di mare (pannocchie di mare o spernocchie, come le si vuole chiamare),    1 gronco senza coda, 1 fragolino, ed una manciata di patelle e granitole o, in alternativa, vongole.
Mettere in un tegame di coccio una cipolla tritata insieme al prezzemolo ed all’olio d’oliva. Quando la cipolla sarà imbiondita, unire il polpo a pezzi e le seppie e lasciare cuocere fino a quando il polpo non sarà rosolato ed avrà preso il suo colore caratteristico. A questo punto versate un bicchiere di buon vino bianco, meglio se Ansonica dell’Argentario, una punta di peperoncino ed il pomodoro concentrato. Quando il vino sarà assorbito, aggiungere acqua calda o, preferibilmente, brodo e continuare la cottura unendo anche il gronco a pezzi e, dopo (per evitare che i pesci più teneri si sfaldino), lo scorfano, il fragolino, il san pietro, le cicale di mare, le lampatelle e le granitole (lumache di mare). Abbrustolire leggermente il pane strusciandovi sopra l’aglio per poi impiattare singolarmente. Quando il sugo sarà sufficientemente addensato, versate sul pane sia il pesce che il sugo.
Da leccarsi le dita. La Kathia fece tutta la spesa e corse, nei limiti della Panda 4X4, a casa a preparare.
Non credo ci sia da dilungarsi sull’andamento della cena. Gli amici era simpatici, il cibo all’altezza della fama della cuoca, le tre bottiglie di “Poggio Argentato” portate da Paolo e Adelina, fresche e presto vuote.
Quando la padrona di casa lasciò solo i tozzetti ed il vin santo a tavola, Paolo, polemico come sempre, se ne uscì:” I sardi dovrebbero fare un monumento equestre a Karim Aga Khan da sistemare in mezzo alla piazzetta di Porto Cervo e chiamare tutti i primogeniti con il nome del principe islamico. Gavino “Karim” Piras o Graziano “Karim” Cuccureddu. Così come noi dovremmo mettere, al posto del leone sullo stemma di Capalbio, un garofano ed un sigaro in ricordo di quel socialista, ex presidente della RAI ed esponente della cosiddetta intellighenzia di sinistra che, negli anni ottanta, prese casa qui creando un enclave di intellettuali ed uomini politici che hanno fatto conoscere e valorizzato tutta la zona. Oggi gli abitanti dell’isola rinnegano il turismo di massa accusandolo di tutta la degenerazione consumistica e del conseguente degrado ambientale. Dimenticano, però, che, se non fosse stato per gli imprenditori stranieri o del nord Italia, i sardi sarebbero ancora identificati con l’Anonima Sequestri ed il pecorino, come negli anni ’60. E gli abitanti dell’entroterra alla spalle della Costa d’Argento, senza quei personaggi, oggi tanto discussi, guarderebbero ancora le auto sfrecciare sull’Aurelia, senza fermarsi, in direzione di Cala Galera e posti limitrofi dove la Roma bene ormeggiava le barche. Non avremmo sentito, cari amici,- continuò il convitato - neanche l’odore del benessere che ci è capitato fra capo e collo.” “Che vuoi dire?” chiese Kathia. “Voglio dire che tutti sono pronti a salire sul carro del vincitore od a esaltarlo, nascondendo i mugugni, fino a quando il personaggio è sulla cresta dell’onda o l’aria che tira va in quella direzione. Poi, quando le crisi economiche o politiche, cambiano le carte in tavola, l’Aga Khan viene ricordato unicamente come uno speculatore ed i personaggi dell’entourage che ha fatto la fortuna dell’”Ultima Spiaggia”, e non solo, diventano sfruttatori delle nostre risorse e del paesaggio circostante, come se tutto il territorio non avesse ricavato, dalla loro presenza, un enorme beneficio in notorietà e, quindi, in turismo e denaro.””Già – si intromise Vittorio, il marito della Kathia – è come la storia del presidente della Lazio dello scudetto.” Ovviamente lui interveniva portando gli esempi tratti dai suoi testi di riferimento, ovvero “la rosa”, Tuttosport ed il Corriere…dello Sport. “Finché poteva permettersi di comprare i giocatori migliori e la squadra vinceva le Coppe, i tifosi lo esaltavano e godevano. Poi, quando si scoprì che i soldi se li era procurati in maniera illecita, tutto quello che aveva fatto per la società di calcio non contò più niente ed, anzi, era giudicato solo negativamente.” Adelina, essendo maestra elementare, con una botta di cultura, chiosò:” Sic transit gloria mundi!”
Seguendo la saggia regola di andare dalla gradazione inferiore a quella più alta, il vin santo fu sostituito dalla grappa locale insaporita al miele, per le signore, e bianca per gli uomini. Con l’andar dei bicchierini, la discussione sui massimi sistemi scivolò nel pettegolezzo locale e la superiore saggezza delle argomentazioni cedette il passo al chiacchiericcio di paese.
N.d.A.: Si toglie moltissimo all’atmosfera creata nel convivio ed alla sapidità della conversazione non riportando i colloqui nel dialetto, con le inflessioni, le cadenze e le espressioni in realtà pronunciate ma, così come un milanese non sa invocare i morti alla maniera di un abitante della Capitale ed un romano non capisce tutte le parole di “Mia Bela Madunnina”, ugualmente, per chi scrive, è impossibile, a scapito del racconto, rendere tutte le coloriture di questi dialoghi. Si chiede venia e collaborazione immaginativa al lettore.
“Hi, hi, hi” ridacchiò Adelina già un po’ alticcia, “passando di palo in frasca, che ne pensate del delitto del Frigidaire?” “Vuoi dire del cadavere rinvenuto nel bagno dello stabilimento balneare?” chiese Paolo. “Certo. Sai bene che hanno scoperto, morto nel bagno, il proprietario dell’Industria Ittica di Ansedonia con un sacchetto di cellophane in testa a soffocargli il respiro.” Rispose la moglie. “Ma è un’azienda assolutamente fiorente e lui, lo conoscevo, una persona equilibrata. Che ragione avrà mai avuto per suicidarsi?” e poi in quel posto ed in quel modo?” Chiese Kathia. “Mah, sai com’è la gente.” Contribuì alla discussione Vittorio. “Dicono gli inquirenti – riprese Adelina – che non è chiara la motivazione dell’accaduto anche perché, contrariamente a quanto succede di solito, non è stato trovato un biglietto di spiegazione vicino al cadavere. Però la porta del bagno era chiusa dall’interno, tant’è che l’hanno dovuta sfondare e, quindi, non c’era altra possibilità del suicidio.”
“Mumble, mumble” e gran dolore all’articolazione del ginocchio della Kathia che, come un cane da tartufo ben addestrato, avvertì subito la padrona che c’era qualcosa da scoprire ovvero che, metaforicamente parlando, c’era dell’arrosto bruciato sotto la nuvola di fumo di quella notizia.
Le venne, quindi, un’idea che le avrebbe permesso di mettere il naso nella storia senza dichiararlo apertamente. “Sentite un po’ – disse agli amici – perché, approfittando delle ultime belle giornate, non organizziamo un pic-nic sulla spiaggia per domenica prossima? Possiamo portare qualcosa da mangiare e lasciare i nostri figli a giocare mentre noi prendiamo il sole. Anzi, direi di andare proprio al Frigidaire che tiene aperto il bar ancora qualche fine settimana in modo da poterci prendere un caffè caldo o un gelato.”  ”Ottima idea” aderì subito Adelina, “io preparo il frittatone con le patate.” “Ed io porto il pallone” disse Vittorio approfittando di ogni occasione per praticare il suo hobby.
Così, il successivo giorno di festa, si ritrovarono sull’arenile addirittura in costume, visto che la temperatura era sui 25 gradi ed il sole scottava come a luglio.
Kathia non perse l’occasione per fare un sopralluogo sulla scena del delitto (il ginocchio affermava che il ritrovamento del cadavere dovesse classificarsi i tal modo.) “Ragazzi vado a fare pipì.” Disse agli amici lasciando la spiaggia ed avviandosi verso la costruzione in legno, su palafitte, che ospitava il bar ed i servizi igienici.
Andò direttamente verso i bagni che si trovavano dietro l’angolo dell’edificio. C’erano due porte contigue: maschi e femmine. Il morto era stato trovato nella toilette per gli uomini che, attualmente, era occupata. Anche in quella delle donne c’era qualcuno e, quindi, lei si mise in paziente attesa del suo turno. Intanto si guardava intorno e, la prima cosa della quale si accorse, fu che la porta del locale riservato ai maschi era stata cambiata da poco. Si notava perché mostrava un colore diverso, più brillante, rispetto all’altra. Sembrava anche…più leggera, non così massiccia come la compagna. I due bagni erano in un corridoio abbastanza buio rispetto al chiarore esterno. La luce accesa dall’utente della famigerata toilette filtrava non solo da sotto la porta, e questo era normale, ma anche tra lo stipite ed il battente dell’anta, che erano distanziati lasciando uno spazio di qualche millimetro tra loro. Ciò non impediva la chiusura e non permetteva di vedere niente dell’interno, ma la separazione si distingueva chiaramente. “Guarda come fanno i lavori oggi” pensò Kathia “non sanno neanche prendere le misure esatte.” In quel momento si liberò la toilette di sua spettanza e, con un sorrisetto imbarazzato, diede il cambio alla signora uscente. Mentre stava facendo quello per cui era andata là, lo sguardo le cadde sul sistema di chiusura della porta. Come nella maggioranza dei bagni pubblici, la chiave era stata tolta per evitare possibili malfunzionamenti del meccanismo e, per chiudere, bisognava usare un piccolo catenaccio. Questo era una sbarretta di ferro sull’anta che, a caduta, andava a posizionarsi dentro una staffetta sullo stipite. Semplice ed adatto allo scopo. Molto probabilmente lo stesso sistema era montato nella toilette accanto. La posizione assunta in quel momento dalla sua padrona dette modo al dolore dell’articolazione di farsi sentire con maggiore intensità, ma non le voleva suggerire solamente di alzarsi il prima possibile, bensì anche di stare attenta. Il ritrovamento del morto veniva classificato come un caso di suicidio perché la porta del bagno era stata trovata serrata dall’interno, ma era veramente impossibile chiuderla dall’esterno? All’apparenza sembrava di sì. Non c’era chiave ed il catenaccio era montato solo dalla parte dei sanitari.
La Kathia tornò pensierosa dai suoi amici e si stese sulla sabbia, con le palpebre abbassate, non rispondendo alle loro sollecitazioni e facendo finta di dormire mentre, in realtà, pensava e ripensava.
Poi, d’improvviso, e facendo fare un salto di spavento al marito seduto vicino, si alzò in piedi dicendo: “Vittorio, dammi subito il cellulare!” “Che l’è?” fece il consorte allarmato. “Non ti preoccupare, chiamo il maresciallo dei Carabinieri” “CHE L’E’?” gridò lui, adesso, spaventato veramente.
“Maresciallo, come va?” Ormai con il sottufficiale erano entrati in confidenza ed, il previdente militare, le aveva dato il suo numero di cellulare insieme alla propria amicizia. “Sono la Kathia. Dove stai?” “Sto facendo una passeggiata in Feniglia con mia moglie” “Benissimo, siamo vicini! Vieni al Frigidaire che ti offro un caffè.” “Volentieri. Ci vediamo a breve.”
Il maresciallo arrivò presto e Kathia insistette per mantenere la promessa portandolo al bar dello stabilimento. “Vedi – disse la donna al carabiniere – c’era qualcosa che non mi quadrava nel suicidio che avete trovato qui. Ed, allora – continuò abbozzando una falsamente imbarazzata risatina – mi sono voluta mettere nei tuoi panni e fare un sopralluogo.” “Beh? Sentiamo la scoperta.” La prese velatamente in giro l’altro. “Ecco quello che credo è che NON sia impossibile aprire la porta del bagno dall’esterno. Anzi, sia molto facile.” ”E come?” Chiese l’investigatore rientrando immediatamente nel suo ruolo. “Vieni, ti faccio vedere.” Lo condusse di fronte alle porte dei bagni. “Guarda l’anta della toilette dove è stato trovato il presunto suicida. Lascia uno spazio con lo stipite. Ho pensate che se volessi manovrare il catenaccio interno da fuori, mi basterebbe muovere una calamita che, esercitando la propria attrazione sul ferro della levetta, attraverso la fessura, mi permetterebbe di sollevare ed abbassare il braccino pur rimanendo esternamente.
Il maresciallo sbarrò gli occhi. Con quel semplice espediente tutta la teoria del suicidio andava a farsi benedire ed il caso si riapriva. “Non solo. – proseguì imperterrita la parrucchiera/detective – Non può essere un caso che la porta sia stata fatta in modo da lasciare quello spazio. Infatti, se fosse stato uno sbaglio, il proprietario del bar che l’aveva commissionata l’avrebbe notato e fatta rifare. Quindi lui, il titolare dell’esercizio, aveva dato quelle misure apposta per mettere in atto il trucchetto. Guarda un po’ – continuò sfoderando un gran sorriso – in un botta sola ti ho spiegato come è avvenuto il delitto e trovato il colpevole. Merito una medaglia?” “Alt. Ferma. Verificheremo, vedremo, controlleremo gli alibi e poi parleremo di ricompense.” “Va bene, mi farai sapere. Adesso raggiungiamo gli altri.” E, con queste parole, tornarono sulla spiaggia a formare le squadre per la sfida a pallavolo.
Dopo pochi giorni una macchina della Benemerita si fermò davanti al negozio della parrucchiera e ne scese il maresciallo in perfetta uniforme. Si affacciò dentro al salone e disse alla titolare: “Vieni, questa volta te lo offro io il caffè e ti racconto come è andata a finire.” “Corro! Antonella, prenditi tu cura della signora: io torno subito.”
Seduti al bar, il carabiniere attaccò:” Avevi ragione QUASI su tutti i fronti. L’imprenditore era un giocatore d’azzardo accanito e tutte le sere, nel locale chiuso al pubblico, il barista organizzava una bisca clandestina. Come per tutti i dannati da quel vizio, le perdite del poveretto erano sempre più ingenti. Una sera, forse sospettando un imbroglio, era scoppiata una lite ed il malvivente aveva soffocato, con un cuscino, la vittima. Poi aveva organizzato la messinscena approfittando di quella porta che, veramente, era stata fatta male. Come vedi non c’era la premeditazione, ma hai indovinato tutto il resto. Pertanto – finì scherzando il militare – mi sono consultato con il Comando di Regione ed abbiamo concordato che non hai diritto alla medaglia, ma a spese del sottoscritto, come ringraziamento, e con molto piacere, invito te e Vittorio nel migliore ristorante di Capalbio almeno tuo marito, per una sera, mangerà bene!”
Chi fosse passato in quel momento, avrebbe visto un uomo indivisa sottrarsi agilmente allo schiaffone che, un po’ per scherzo ed un po’ a ragion veduta, la parrucchiera cercava di appioppargli.












lunedì 4 novembre 2013

Kathia e Irina

Finalmente una pausa. Era venerdì e per la Kathia (pronuncia della “TH” all’inglese – ovvero alla maremmana -  con soffio tra lingua ed incisivi) dalle nove fino a mezzogiorno c’era stato un via vai di signore ininterrotto. Tra permanenti e messe in piega non si era fermata un attimo. Adesso che, in fine mattinata, le sue clienti erano andate a prendere i figli a scuola o a casa per preparare il pranzo lei, meritatamente, poteva godersi un momento di pace. Uscì da bottega e si sedette sulla panchina affianco alla porta d’ingresso del negozio accendendo la prima, sospiratissima, sigaretta della giornata. Avvicinò la fiamma dell’accendino al tabacco, inspirò e socchiuse le palpebre sfocando le pupille in uno sguardo rivolto all’infinito. In realtà, come la famosa siepe del Leopardi che “il guardo esclude”, c’era un muro, di fronte alla palazzina dove stava la sua bottega, che le impediva di spaziare la vista. L’atteggiamento, però, era lo stesso. Una profonda tirata e la mente cominciò a vagare. In questi frangenti le sinapsi del cervello si scatenano indipendentemente. La medesima situazione la visse Newton quando, sotto un albero del suo giardino, si assentò dalla coscienza razionale e, non rendendosi conto degli ingranaggi in movimento nella sua scatola cranica, vide una mela cadere per terra. In quel momento la preparazione di anni e la genialità dello scienziato si fusero con l’intuizione e, da un evento trascurabile, lo studioso, fino ad allora sconosciuto, ebbe l’illuminazione che portò alla formulazione della Legge di Gravitazione Universale, alla sua fortuna personale nonché alla fama imperitura. Fosse stato nel suo studio ad ammazzarsi sui libri, non gli sarebbe venuto in mente niente ma, in quella situazione di sospensione di coscienza, ebbe il cosiddetto “lampo di genio”. Si tramanda, inoltre, che i discepoli di Siddharta scorsero il Maestro, con l’occhio vago, lievitare da terra e, se avessero potuto contemporaneamente leggere nella sua mente, avrebbero visto… il nulla. Questo per dire che le migliori idee e le cose più straordinarie spesso si concepiscono in maniera inconsapevole o, addirittura, trascendentale senza l’aiuto della razionalità. Anche i pensieri della parrucchiera rimbalzavano dal prezzo delle zucchine che aveva visto esposte sul banco del fruttivendolo, all’ultima delibera dell’assessore alla viabilità del Comune che aveva cambiato un senso di marcia in maniera che a lei non conveniva, agli occhioni languidi del ragazzo di bottega marocchino che il fornaio aveva assunto recentemente. La Kathia era consapevole di questa macedonia senza senso, ma le piaceva farsi trascinare dal subcosciente verso casuali mete di pensiero quasi fosse un viaggio psichedelico od un’esperienza mistica.
 Come la pallina di un flipper, si trovò a pensare all’Avaro ed alla sua recente scoperta. L’Impresa Edile del compaesano stava scavando e rivoltando il terreno adiacente alla Pedemontana per costruire i marciapiedi e riasfaltare la strada, quando la ruspa aveva riportato alla luce i resti di uno scheletro. Allertate le forze dell’ordine, i Carabinieri avevano esperito le indagini del caso. All’esame autoptico era risultato trattarsi di: “reperti ossei di origine umana riferentesi a soggetto di sesso femminile di probabile razza caucasica di età compresa tra i venti e trenta anni. L’inumazione si ritiene avvenuta non prima di 10 (dieci) e non successivamente ai 15 (quindici) anni dalla data del ritrovamento ovvero, e quindi, del presente verbale. Nel successivo rapporto si poteva leggere: “Il Nucleo ROS di Roma 1, essendosi preso carico del materiale repertato, estrapolato il codice DNA e confrontato lo stesso con quelli in possesso dell’Arma relativi ai casi di scomparsa denunciati negli anni di cui al riferimento, esclude coincidenze e, quindi, soggettificazioni. Nel contempo, indagini sul territorio e riscontri con le denunce in corrispondente epoca, non hanno portato ad esito identificativo alcuno. Si rinviano le conclusioni alla Procura della Repubblica per ulteriori eventuali direttive di approfondimento”. La Kathia, che aveva letto sul “Tirreno” i documenti riportati in cronaca, pensò che, in poche parole, si erano trovate le ossa di una poveretta il cui probabile dramma non interessava nessuno e che sarebbero diventate polvere d’archivio come la “pulvis reverteris” alla quale siamo tutti condannati.
Non si sa perché, di fronte ai mille problemi ed alle quotidiane ingiustizie della vita, questo pensiero scatenò nella parrucchiera una rabbia ingiustificata dall’anonimato della vittima e dalla lontananza dell’evento. Fu come se, nella fine di quella poveretta, sepolta da qualcuno che non voleva farla ritrovare, si rispecchiasse il destino di tutte le donne sfruttate, sopraffatte e poi dimenticate.  La sigaretta che stava fumando era quasi al filtro e lei, nel suo bozzolo di esistenza, ebbe un moto di ribellione verso un mondo che troppo facilmente dimentica chi rimane ai margini della società. Le sarebbe piaciuto raccogliere quelle quattro ossa e, come per il Milite Ignoto, preservarle ed esporle al pubblico omaggio per la sorte della Donna troppe volte oppressa, sfruttata e vilipesa in una realtà dove la forza e la prevaricazione valgono più del rispetto e della dignità.
Come molte delle nostre buone intenzioni, questo nobile moto dell’animo durò fino a quando, con la suola della scarpa, la Kathia non spense il mozzicone in terra. Poi, con un sospiro, si alzò dalla panchina e tornò nel negozio per controllare se l’Antonella, la sua aiutante di bottega, avesse spazzato per bene in terra e sistemato i vari attrezzi del mestiere.
Ma, nascosto tra le famose sinapsi, il pensiero rimase. Quella sera, prima di addormentarsi, nel suo letto, al riparo dalle brutture del mondo, La Kathia ricompose, mentalmente, le ossa ritrovate. Le rivestì di un corpo e le fece vivere con un’anima. Arrivò ad immaginare gli occhi della donna. Tramite il suo sguardo, in qualche modo, rivisse i suoi ultimi momenti quando la poveretta capì che tutto era compiuto. L’effetto flipper la rimandò ai globi oculari dell’abbacchio esposto dal macellaio del paese che, in qualche modo, le avevano sempre suggerito la disperazione nella consapevolezza del proprio destino che, a parte il sapore di selvatico, le aveva sempre impedito di gustare le costolette in “scottadito”.
Il giorno dopo, sabato, la parrucchiera ricominciò, alle otto e mezza, ad arrotolare bigodini ed annodare estentions per il prossimo “dì di festa”. L’Antonella si accorse presto che c’era qualcosa che turbava la padrona normalmente cordiale e ciarliera come era per lei spontaneo comportarsi. Un personaggio di Disney, nel fumetto, si sarebbe espresso con un efficace “Mumble, mumble!!” ad intendere un rimuginamento di pensieri e sensazioni. “Oh Kathia, e che l’è che la ti turba?” Chiese la solerte apprendista preoccupata nel vedere che la titolare, sovrappensiero, stava per applicare una tintura “biondo cenere” al posto di una “castano chiaro”. “Nulla, nulla, fa’ il tuo!” rispose, per una rara volta, sgarbata la parrucchiera. Ma non era vero. Un’ansia, un’insoddisfazione, una smania non la lasciavano tranquilla. Verso mezzodì, quando il lavoro rallentò, tornò a fumare sulla panchina fuori dal negozio. Profonda inspirazione, occhio perso, mente in libertà e…cosa torna a galla dal subcosciente? Una conversazione. Come già detto, dal parrucchiere ci si confida di più che dal confessore se non altro perché non si deve essere giudicati e, pagando la prestazione professionale, si ha la sensazione di comprare la connivenza del confidente.
La Kathia, come si sa, e come è d’uso in un piccolo paese, era parrucchiera per signora ma accorciava anche i capelli degli uomini. Questo faceva di lei una profonda conoscitrice dell’animo umano, delle differenze di comportamento fra i sessi e di come gli uni si rapportano con gli altri. Lei, per convenienza commerciale, sentiva ed acconsentiva a tutte le confidenze dando l’impressione, a volte veritiera ed a volte ingannevole, di complicità. Non badava a tutte le “ciarle” ma, in qualche modo, tutte si depositavano nel suo bagaglio.  
L’ansia sopradescritta, come la mela di Newton che cade nel fango, sollevò schizzi e rimembranze. Tempo prima, all’incirca all’epoca del seppellimento del cadavere ritrovato, lei era agli inizi della sua professione ed, allora più che mai, cercava con la simpatia e la socievolezza, di attirare e mantenere la clientela. Ora ricordava che il signor Nanni, figlio di Tommaso, in occasione della sistematina settimanale della capigliatura, si era spesso sfogato con lei manifestando, ripetutamente, il malcontento e l’astio che provava nei confronti del padre poiché, alla tenera età di settant’anni, aveva preso in casa una ragazza moldava per accudire lui e sbrigare le faccende domestiche. 
Il Nanni le raccontò che non avrebbe avuto nulla da lamentarsi se non si fosse accorto, in maniera palese, che le attenzioni della ragazza giovane, piacente e, probabilmente, accondiscendente, stavano facendo uscire il genitore fuori di testa. Quando prima il Nanni esprimeva un desiderio o manifestava una opinione, Tommaso lo ascoltava ed, il più delle volte, lo esaudiva. Ora sosteneva che l’anziano genitore fosse condizionato, od addirittura dominato, dalla ragazza. Era una situazione insostenibile. Per le smanie di un vecchio, il Nanni manifestava la paura che l’eredità del patrimonio e tutti i suoi progetti per il futuro fossero a rischio. Sotto la schiuma dello shampoo disse: “Metterò fine a questa infamità!!”
La parrucchiera, all’epoca, non dette peso a quelle parole. Le visite del signor Nanni si diradarono e quando lei, una volta, gli chiese come stava il padre, lui rispose “Bene, bene. Adesso molto meglio dopo che quella ragazza è tornata al suo Paese. Ora è accudito da una badante di Magliano che viene tutti i giorni e torna a casa sua la sera. Stiamo tutti più tranquilli.” “Sono contenta per te. Mogli, buoi e badanti…” scherzò la Kathia che vide accolta con una risata la sua battuta. Il Nanni continuò a frequentare il suo salone. Dopo pochi mesi sistemò il padre in un ospizio facendosi rilasciare una procura che gli dava la gestione di tutti gli averi di famiglia. Un giorno si presentò davanti alla Chiesa, all’uscita dalla Messa domenicale, alla guida di una Maserati nuova fiammante. Salutò tutti annunciando che si sarebbe trasferito in Canada dove aveva fatto degli investimenti e, da allora, nessuno ne seppe più niente.
Per qualche tempo il Parroco, per dovere di carità, andò a trovare il vecchio Tommaso al ricovero. Ma quando l’anziano non lo riconobbe più e le sole parole che ancora pronunciava erano un quasi incomprensibile “Irina, Iriniucciaa...” anche il sacerdote diradò le sue visite.
Il collegamento tra Irina ed il ritrovamento di Alvaro? Nessuno, se non che il periodo della partenza, o scomparsa, della ragazza e la sepoltura di quel corpo erano coincidenti. Ma il ginocchio della Kathia doleva forte. Ad alcuni questo succede quando sta per cambiare tempo. Si avvicina un temporale e l’inizio di artrite all’articolazione li avverte.  Per la parrucchiera questa somatizzazione era il sintomo che, intorno a lei, qualcosa non quadrava. Qualche avvenimento, o qualche persona, non rientrava negli schemi della normalità e la sua sensibilità la svegliava dolorosamente.
Il fatto che questo segnale, fino ad allora infallibile, si fosse manifestato quando, nel pensiero, aveva collegato lo scheletro ritrovato con il signor Nanni, era sufficiente alla Kathia per farle nascere qualche sospetto ed indurla ad avviare una specie di indagine.
Certo non poteva andare dalla Benemerita e dire che, siccome le doleva il ginocchio, dovevano fare una rogatoria internazionale per controllare l’esistenza in vita della moldava e, verso il Canada, per interrogare il Nanni, ammesso che lo trovassero. Ma non poteva neanche imbottirsi di Aulin come analgesico mettendo a rischio il fegato. Doveva, quindi, cercare delle risposte che, acquietando il suo dolore, avrebbero anche, forse, reso giustizia a quei poveri resti.
Andò a parlare con don Carlino, il Parroco ormai molto anziano che, come molti uomini di Chiesa, non era stato usurato dalle preoccupazioni della vita quotidiana assillanti per la maggioranza dell’umanità. Aveva, il buon curato, mantenuto, insieme all’abbondante giro-vita nascosto dalla tonaca, una serena lucidità intellettuale velata dalla compassionevole superiorità di chi è consapevole che, al contrario di noi poveri peccatori, per lui c’è un posto riservato, lassù, presso il Principale.
“Sia lodato Gesù Cristo” esordì il prelato incontrando la parrucchiera. “Sempre e comunque.” Rispose la Kathia non avvezza alle frequentazioni clericali. Dopo i soliti convenevoli, qualche bonario pettegolezzo paesano e la promessa di portargli un prosciutto di quel cinghiale che il marito aveva cacciato nelle settimane precedenti, la donna venne a quello che le interessava. “Si ricorda, don Carlino, della badante del povero signor Tommaso?” “Certamente cara, - rispose il prete – era l’Assuntina che ormai non si muove più da Magliano e non mi può più portare quelle ottime conserve di pomodoro che faceva.” “No, no. Prima. Quella ragazza dell’est che visse con lui e poi tornò al suo paese.”” Ummhh…, quella bionda con gli occhi azzurri di circa venticinque anni, con una voglia sul collo, dietro l’orecchio, e con le unghie laccate di rosso? Ummhh…no non la ricordo bene.” “Ma se l’ha descritta come in fotografia. Allora ce l’ha presente?” “Si, no, umhh, beh, insomma non si può non ricordare quel bel pezzo di figliola… in lode del Creato.” “Allora- lo incalzò la Kathia- sa che fine ha fatto? Se è tornata dai parenti? Ha più avuto sue notizie?” “Oh no, cara. Sparì da un giorno all’altro. Il Nanni mi disse che l’aveva cacciata perché rubava in casa e poi più niente.”  
“Va bene, grazie don Carlino” disse la donna, come commiato, allontanandosi. “Aspetta cara!” la richiamò il sacerdote. “Adesso che ci rifletto, mi sovviene che qualche giorno prima della partenza della ragazza, andai a trovare il vecchio a casa sua. Suonai al portoncino e, dopo avere un po’ aspettato, mi venne ad aprire il Nanni. Fui colpito perché, per la prima volta, vedevo quello sfaccendato con uno straccio sporco in mano. Tant’è che gli chiesi se si stesse impegnando nelle pulizie in vista della Santa Pasqua. Mi rispose, affannato e sudato, con sgarbo qualcosa come a dire che mi dovessi impicciare dei fatti miei. Ci rimasi male e gli chiesi di annunciarmi al padre. La cosa ancora più strana è che mi rispose di andarmene, che il genitore non era in casa e di ripassare un altro giorno. Chiuse sbattendo la porta. Lo ricordo perché quasi mi sentii offeso. Nessuno mi tratta così. E poi il padre non poteva muoversi e non usciva mai di casa. Mi sembrò una scusa per allontanarmi. Con cristiana rassegnazione tornai in canonica pregando il Signore di perdonare il Nanni per il peccato d’ira e per aver mancato di rispetto ad un Suo servitore.”
La Kathia tornò al negozio mentre il ginocchio le illustrava tutte le costellazioni della volta celeste con fitte ripetute e dolorose.
Durante il tragitto di circa duecento metri tra la Chiesa ed il suo posto di lavoro, che richiedeva quattro minuti di cammino, la parrucchiera aveva processato e condannato in primo grado, appello e cassazione il Nanni per l’omicidio di Irina.
Il problema era di trovare una prova che suffragasse la sentenza. Tornare nella casa del delitto era inutile a distanza di tanti anni. Cercare testimoni tra i vicini l’avrebbe fatta apparire solo un’impicciona senza ottenere alcun probabile risultato. Che fare? Una sigaretta sulla panchina!
Avvertì l’Antonella che era tornata e che sarebbe stata ancora cinque minuti fuori a fumare e si sedette in attesa di un’idea. “Ciao Kathia!” la salutò l’Avaro che passando di là andava a prendersi un caffè al bar. “Oh bellino! Vieni un po’ qui, raccontami del tuo ritrovamento.” Attirò con il suo sorriso l’amico che si sedette accanto a lei volentieri. “C’è poco da dire” fece il capo del cantiere che aveva eseguito i lavori stradali. “La ruspa ha tirato su un sacco di iuta dal quale spuntavano delle ossa. Ho fermato tutto. Prima credevo fossero di un animale, ma poi ho visto degli stracci che sembravano vestiti ed, allora, ho chiamato i Carabinieri.” “Oggi – proseguì l’Alvaro – ho trovato nella terra smossa, questa scatoletta di latta con un foglietto dentro. Sono solo scarabocchi e la volevo buttare, ma sul coperchio c’è la figura di un paesaggio con la neve e la voglio portare alla mia bambina che le può piacere.” “Fa’ vedere.” La Kathia prese il pezzo di carta e si accorse che quelli non erano strani segni, ma parole in cirillico come sull’Icona in casa di sua zia. Erano sbiadite e scritte disordinatamente e facilmente potevano sembrare solo sgorbi senza senso. Avvicinò il foglio per vedere meglio e la sua mente analitica individuò questa frase: “Nanni Я хочу убить.” Un po’ più in basso storta e tremolante quest’altra riga: “я боюсь. Уже пытался убить меня. Останавливается Нанни.” “Tu sei proprio grullo! Non vedi che sono scritte in russo?” disse la Kathia. “Va’ a portarlo dal Maresciallo perché lo facciano tradurre.” L’Alvaro rimase un momento stupito e poi si rese conto che la Kathia aveva ragione. Quelle ossa, tramite il foglietto, potevano ancora raccontare la loro storia. “Bella e intelligente” disse l’Alvaro schioccando un bacio di saluto sulla guancia della parrucchiera. “Vado e ti fò sapere”
Per incanto il ginocchio smise di farle male.
Dopo qualche giorno, il maresciallo dei Carabinieri si affacciò al negozio della Kathia e, chiamatala da una parte, la ringraziò per il suo intervento. La informò che quelle due frasi volevano dire: “Nanni mi vuole ammazzare” e “ho paura. Ha già provato a uccidermi. Fermate Nanni.” Quindi lo scheletro apparteneva alla ragazza moldava che, molto probabilmente, era stata uccisa dal figlio del suo padrone. Avrebbero, tramite l’ambasciata cercato di rintracciare la famiglia della vittima e consegnato a loro i poveri resti. Un mandato di cattura internazionale era stato diramato nei confronti del presunto assassino e non disperavano di poter fare giustizia. Tutto questo non sarebbe stato possibile senza l’intuizione della parrucchiera.
“Antonella, passami la piastra!” “Come le raccontavo signora…”