Il Palladium di Londra, in Piccadilly Circus, innalzava un
enorme cartellone dove giganteggiava uno strano sottomarino giallo con vicino il
disegno di vari personaggi ispirati a persone reali ed a fantastiche entità per
annunciare la proiezione, in quel cinema, di una fiaba moderna. Il traffico
era, come sempre, caotico ed, attorno al Cupido che adornava la fontana al
centro della piazza, sfrecciavano taxi neri e macchine private totalmente
incuranti di chi voleva attraversare al di fuori degli spazi consentiti.
Gentlemen tutti uguali muovevano un mare di bombette nere e
di ombrelli camminando su per Piccadilly Street con la tipica fretta di chi ha
un appuntamento importante o di chi lo vuol far credere. Le signore, invece,
con tailleurini bon ton ed acconciature cotonate, andavano o tornavano sui
marciapiedi di Oxford Street verso i Grandi Magazzini per comprare qualcosa o
solo per darsi appuntamento per l’ora del tè, mantenendo la sacralità di un
rito sul quale si erano fondate le basi dell’Impero.
Sull’angolo della piazza, discosta dalla folla, vicino
all’entrata della metropolitana, una ragazza aspettava con uno sguardo perso
che tutti sorvolava ma, nello stesso tempo, ansiosamente stava scrutando.
Quel mercoledì mattina, alle cinque, quando stava appena
albeggiando, aveva chiuso piano la porta della sua camera da letto lasciando un
bigliettino che, sperava, avrebbe spiegato il suo gesto.
Era scesa verso la cucina soffiandosi delicatamente il naso
e si era avvicinata alla porta sul retro della casa, aveva girato la chiave, ed
era uscita. Era libera.
Stava lasciando la casa dove i suoi genitori, certamente non
ricchi, si erano sacrificati per crescerla al meglio delle loro possibilità.
Sapeva che non avrebbero capito. Non le avevano fatto mancare mai niente
compreso quell’affetto che, a volte, non distingueva da una smanceria quasi
doverosa o di facciata.
Ma lei si era sentita sola in quella casa da troppo tempo.
Doveva evadere e sapeva che ogni spiegazione a voce sarebbe sfociata, con sua
madre, in una scenata con urla e lacrime mentre suo padre avrebbe preso le sue
motivazioni solo come i capricci di una ragazzina che un mondo in rivoluzione
stava fomentando.
Era, in parte, così. Una consapevolezza nuova dava alla sua
generazione la forza di ribellarsi e la speranza di trovare risposte nuove
induceva i giovani ad imboccare qualsiasi strada avesse un minimo di
fascinazione. E, poi, lei non voleva fare la fine di sua madre che adesso, dopo
quasi una vita, stava accanto ad un uomo che russava e si imbambolava di birre
di fronte alla televisione avendo come svago principale il Bingo del sabato
alla Parrocchia.
Forse non avrebbe avuto il coraggio di fare quel passo se
non avesse incontrato il meccanico che lavorava nell’officina vicina alla
scuola. Non era bellissimo, portava, come tutti, a quel tempo, i capelli lunghi
che fermava con una fascia sulla fronte. Per il suo lavoro, indossava sempre
una tuta jeans ormai sporca e logora che aveva personalizzato con decine di
patch, scritte e disegni che pretendevano dalla pace nel mondo al libero amore.
Aveva poco più dei suoi anni, ma già lavorava non perché gli piacesse veramente
quello che faceva, ma perché inseguiva un progetto del quale mise a parte la
ragazza.
Lui era un patito della musica che stava crescendo in quel
momento. Si riteneva un intenditore, un esperto dal palato raffinato ed i
Beatles, che tutti adoravano, sosteneva fossero tropo commerciali ed asserviti
alla sfruttamento della società capitalista. Non risparmiava i Rolling ed in
generale tutti quelli che riuscivano ad arrivare nella top ten di Billboard.
Salvava, forse gli Who ed i Kinks ma più per gli atteggiamenti trasgressivi
(finti) che avevano durante i concerti che per le loro canzoni.
Da qualche tempo aveva saputo che si stava organizzando un
concerto in America programmato per l’agosto successivo. Se qualcuno gli avesse
chiesto in cosa quell’avvenimento sarebbe stato diverso rispetto agli altri,
lui avrebbe scrollato le spalle, socchiuso gli occhi rivolgendo lo sguardo ad
occidente e, meglio di Colombo, avrebbe risposto “la scoperta di un nuovo
mondo.”
Era un sogno adolescenziale che mischiava la voglia di fuga
con il desiderio di incontrare quei figli dei fiori americani che vedeva nelle
riviste e di cui lui si sentiva fratello nell’anima.
La ragazza unì le sue frustrazioni con le smanie di lui. Si
illusero che qualche bacio e tante dolci parole fossero un vero innamoramento e
decisero, con l’impeto e l’incoscienza che solo la loro età poteva permettere e
giustificare, di raggiungere l’evento dall’altra parte dell’Oceano.
L’appuntamento era in quell’angolo di Piccadilly, a
quell’ora, e, si erano detti, avrebbero lasciato qualsiasi cosa per andare via
insieme.
La ragazza stava aspettando puntuale. Aveva ancora il magone
se ripensava a sua madre ed alla sua cameretta piena di poster e di ricordi
della sua infanzia. A quell’ora la mamma preparava le uova con il bacon, quelle
salcicette tanto saporite e la purea di patate per dare forza alla giornata.
Lei era lì, in attesa del suo ragazzo.
Passò un’ora e poi due ma di lui nessuna traccia. Tante
volte aveva avuto la tentazione di allontanarsi, magari per bere un caffè o
scaldarsi un po’ in un bar. Aveva sempre rinunciato semmai fosse venuto e non
l’avesse trovata. Adesso il suo sguardo
era smarrito. Cos’era successo? Un incidente? Forse lui stava in un ospedale e
lei non poteva stargli vicino. Cosa doveva fare?
Erano ormai tre ore che stava in quell’angolo vicino alla
metropolitana e qualche bobby si avvicinava guardandola con un vago sospetto di
vagabondaggio od altro di poco lecito.
Improvvisamente si sentì toccare la spalla. Si voltò ed un
ragazzetto zazzeruto le mise in mano un foglio strappato da un quaderno.
“Scusami” diceva “il principale mi ha chiamato per un lavoro urgente e mi ha
promesso il doppio della paga. Capisci non posso dirgli di no. In fondo di
concerti ce ne saranno altri. Ti chiamo io. Ciao”
Fu come se fosse investita da un’enorme onda che avesse
sballottato la sua piccola persona ed il suo fragile animo senza riguardo né
comprensione. Non sarebbe venuto. Senza capire quello che lei aveva affrontato,
il coraggio che aveva avuto, la fiducia che aveva tradito. Si vide improvvisamente
nella sua ingenuità, si odiò per la sua credulità. Odiò lui, il mondo intero
che si rivelava sempre falso, opportunista e nemico.
Cosa avrebbe fatto adesso? Tornare a casa era escluso,
almeno per il momento ed a meno di non accettare botte e rimproveri a non
finire. L’America restava là: lontana dove era sempre stata. Si avviò verso il
più vicino locale per prendere, finalmente, qualcosa di caldo e consolatorio.
Seduto sul marciapiede, appoggiato al muro vicino alla porta
del bar nel quale stava per entrare, un ragazzo incominciò a cantare per
rimediare qualche penny. “If you come to San Francisco, be sure to wear some
flower in your hair…”. Non fu la canzone e neanche il sorriso che il ragazzo le
rivolse. Qualcosa disse alla sua anima che anche nei momenti più bui, se hai la
speranza, non sarai mai solo ed il mondo potrà essere migliore. Illusioni della
giovinezza? La ragazza lo scoprirà solo vivendo.
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