Un lupo guarda nella valle che si apre di fronte a lui e non
vede prede, non sente l’odore della carne. Avverte il senso della fame, sente
il vento che gli scompiglia il pelo sulla groppa, che gli fa socchiudere gli
occhi e rizzare le orecchie. Poi, lentamente, volge il muso ad afferrare le
molecole sospese che lo porteranno al soddisfacimento del suo bisogno. Non
sempre quello è il luogo o il momento. Ma il lupo torna sul ciglio del burrone
ed annusa, finché non avverte qualcosa. E’ una vittima, ma è la sopravvivenza.
Niente va sprecato. Non è una voglia, ma un bisogno. Il lupo segue ne segue l’odore
e, con calma, avvicina la sua preda. Un sacrificio non è mai invano né privo di
significato. Il capriolo è innocente, indifeso se non per la capacità delle sue
esili zampe di scappare, ed opporsi al predatore. E’ giusto che provi a
fuggire. L’istinto gli dice di correre, correre, correre. Ma il lupo lo sa, e
sa anche come rendere vani quegli sforzi.
Se il lupo ha fame, il capriolo deve soccombere. C’è il lungo aggiramento
da parte del cacciatore attorno alla preda, quasi volesse rispettare la vita
che sta per togliere con un’attesa colma di riconoscenza. Poi l’attacco e la
vana difesa. Un appetito saziato e una vita spezzata. Tutto nell’ordine del
creato. Cosa vuol dire? Che siamo tessere di un mosaico del quale non riusciamo
ad intravedere il disegno. Il nostro ruolo, o destino, va accettato e tutto ha
un significato ed uno scopo anche se a noi sembra crudele, ingiusto o,
addirittura, vano. A volte siamo predatori ed a volte vittime. A volte siamo
giusti ed a volte ingiusti. A volte siamo su una retta via, a volte ne deviamo.
Siamo sempre responsabili di noi stessi o semplicemente burattini i cui fili vengono
tirati dal Fato con capriccio e, forse, divertimento?
martedì 8 ottobre 2013
venerdì 4 ottobre 2013
Il Palladium di Londra
Il Palladium di Londra, in Piccadilly Circus, innalzava un
enorme cartellone dove giganteggiava uno strano sottomarino giallo con vicino il
disegno di vari personaggi ispirati a persone reali ed a fantastiche entità per
annunciare la proiezione, in quel cinema, di una fiaba moderna. Il traffico
era, come sempre, caotico ed, attorno al Cupido che adornava la fontana al
centro della piazza, sfrecciavano taxi neri e macchine private totalmente
incuranti di chi voleva attraversare al di fuori degli spazi consentiti.
Gentlemen tutti uguali muovevano un mare di bombette nere e
di ombrelli camminando su per Piccadilly Street con la tipica fretta di chi ha
un appuntamento importante o di chi lo vuol far credere. Le signore, invece,
con tailleurini bon ton ed acconciature cotonate, andavano o tornavano sui
marciapiedi di Oxford Street verso i Grandi Magazzini per comprare qualcosa o
solo per darsi appuntamento per l’ora del tè, mantenendo la sacralità di un
rito sul quale si erano fondate le basi dell’Impero.
Sull’angolo della piazza, discosta dalla folla, vicino
all’entrata della metropolitana, una ragazza aspettava con uno sguardo perso
che tutti sorvolava ma, nello stesso tempo, ansiosamente stava scrutando.
Quel mercoledì mattina, alle cinque, quando stava appena
albeggiando, aveva chiuso piano la porta della sua camera da letto lasciando un
bigliettino che, sperava, avrebbe spiegato il suo gesto.
Era scesa verso la cucina soffiandosi delicatamente il naso
e si era avvicinata alla porta sul retro della casa, aveva girato la chiave, ed
era uscita. Era libera.
Stava lasciando la casa dove i suoi genitori, certamente non
ricchi, si erano sacrificati per crescerla al meglio delle loro possibilità.
Sapeva che non avrebbero capito. Non le avevano fatto mancare mai niente
compreso quell’affetto che, a volte, non distingueva da una smanceria quasi
doverosa o di facciata.
Ma lei si era sentita sola in quella casa da troppo tempo.
Doveva evadere e sapeva che ogni spiegazione a voce sarebbe sfociata, con sua
madre, in una scenata con urla e lacrime mentre suo padre avrebbe preso le sue
motivazioni solo come i capricci di una ragazzina che un mondo in rivoluzione
stava fomentando.
Era, in parte, così. Una consapevolezza nuova dava alla sua
generazione la forza di ribellarsi e la speranza di trovare risposte nuove
induceva i giovani ad imboccare qualsiasi strada avesse un minimo di
fascinazione. E, poi, lei non voleva fare la fine di sua madre che adesso, dopo
quasi una vita, stava accanto ad un uomo che russava e si imbambolava di birre
di fronte alla televisione avendo come svago principale il Bingo del sabato
alla Parrocchia.
Forse non avrebbe avuto il coraggio di fare quel passo se
non avesse incontrato il meccanico che lavorava nell’officina vicina alla
scuola. Non era bellissimo, portava, come tutti, a quel tempo, i capelli lunghi
che fermava con una fascia sulla fronte. Per il suo lavoro, indossava sempre
una tuta jeans ormai sporca e logora che aveva personalizzato con decine di
patch, scritte e disegni che pretendevano dalla pace nel mondo al libero amore.
Aveva poco più dei suoi anni, ma già lavorava non perché gli piacesse veramente
quello che faceva, ma perché inseguiva un progetto del quale mise a parte la
ragazza.
Lui era un patito della musica che stava crescendo in quel
momento. Si riteneva un intenditore, un esperto dal palato raffinato ed i
Beatles, che tutti adoravano, sosteneva fossero tropo commerciali ed asserviti
alla sfruttamento della società capitalista. Non risparmiava i Rolling ed in
generale tutti quelli che riuscivano ad arrivare nella top ten di Billboard.
Salvava, forse gli Who ed i Kinks ma più per gli atteggiamenti trasgressivi
(finti) che avevano durante i concerti che per le loro canzoni.
Da qualche tempo aveva saputo che si stava organizzando un
concerto in America programmato per l’agosto successivo. Se qualcuno gli avesse
chiesto in cosa quell’avvenimento sarebbe stato diverso rispetto agli altri,
lui avrebbe scrollato le spalle, socchiuso gli occhi rivolgendo lo sguardo ad
occidente e, meglio di Colombo, avrebbe risposto “la scoperta di un nuovo
mondo.”
Era un sogno adolescenziale che mischiava la voglia di fuga
con il desiderio di incontrare quei figli dei fiori americani che vedeva nelle
riviste e di cui lui si sentiva fratello nell’anima.
La ragazza unì le sue frustrazioni con le smanie di lui. Si
illusero che qualche bacio e tante dolci parole fossero un vero innamoramento e
decisero, con l’impeto e l’incoscienza che solo la loro età poteva permettere e
giustificare, di raggiungere l’evento dall’altra parte dell’Oceano.
L’appuntamento era in quell’angolo di Piccadilly, a
quell’ora, e, si erano detti, avrebbero lasciato qualsiasi cosa per andare via
insieme.
La ragazza stava aspettando puntuale. Aveva ancora il magone
se ripensava a sua madre ed alla sua cameretta piena di poster e di ricordi
della sua infanzia. A quell’ora la mamma preparava le uova con il bacon, quelle
salcicette tanto saporite e la purea di patate per dare forza alla giornata.
Lei era lì, in attesa del suo ragazzo.
Passò un’ora e poi due ma di lui nessuna traccia. Tante
volte aveva avuto la tentazione di allontanarsi, magari per bere un caffè o
scaldarsi un po’ in un bar. Aveva sempre rinunciato semmai fosse venuto e non
l’avesse trovata. Adesso il suo sguardo
era smarrito. Cos’era successo? Un incidente? Forse lui stava in un ospedale e
lei non poteva stargli vicino. Cosa doveva fare?
Erano ormai tre ore che stava in quell’angolo vicino alla
metropolitana e qualche bobby si avvicinava guardandola con un vago sospetto di
vagabondaggio od altro di poco lecito.
Improvvisamente si sentì toccare la spalla. Si voltò ed un
ragazzetto zazzeruto le mise in mano un foglio strappato da un quaderno.
“Scusami” diceva “il principale mi ha chiamato per un lavoro urgente e mi ha
promesso il doppio della paga. Capisci non posso dirgli di no. In fondo di
concerti ce ne saranno altri. Ti chiamo io. Ciao”
Fu come se fosse investita da un’enorme onda che avesse
sballottato la sua piccola persona ed il suo fragile animo senza riguardo né
comprensione. Non sarebbe venuto. Senza capire quello che lei aveva affrontato,
il coraggio che aveva avuto, la fiducia che aveva tradito. Si vide improvvisamente
nella sua ingenuità, si odiò per la sua credulità. Odiò lui, il mondo intero
che si rivelava sempre falso, opportunista e nemico.
Cosa avrebbe fatto adesso? Tornare a casa era escluso,
almeno per il momento ed a meno di non accettare botte e rimproveri a non
finire. L’America restava là: lontana dove era sempre stata. Si avviò verso il
più vicino locale per prendere, finalmente, qualcosa di caldo e consolatorio.
Seduto sul marciapiede, appoggiato al muro vicino alla porta
del bar nel quale stava per entrare, un ragazzo incominciò a cantare per
rimediare qualche penny. “If you come to San Francisco, be sure to wear some
flower in your hair…”. Non fu la canzone e neanche il sorriso che il ragazzo le
rivolse. Qualcosa disse alla sua anima che anche nei momenti più bui, se hai la
speranza, non sarai mai solo ed il mondo potrà essere migliore. Illusioni della
giovinezza? La ragazza lo scoprirà solo vivendo.
La Kathia
La Kathia (si pronuncia come gli inglesi dicono il “the”
ovvero facendo passare aria tra la lingua e gli incisivi in corrispondenza
dell’acca) era la parrucchiera per donna e uomo del piccolo borgo alle pendici
della collina dalla quale il castello di Capalbio domina il paesaggio tra la
campagna maremmana ed il mare.
Era una giovane signora dall’aspetto gradevole, nata in quel
posto dove aveva sempre vissuto mettendo su famiglia ed un’attività che le
consentiva di integrare il reddito del marito per condurre una vita
discretamente agiata. Aveva una figlia di circa dieci anni che curava con amore
e cercava di far crescere con i valori e le tradizioni campagnole ereditate dai
suoi genitori. Non voleva farla sfigurare di fronte alle amichette e rispetto
ai modelli di ragazzina emancipata che si vedevano in televisione. Non le
risparmiava gli abitini alla moda con i rispettivi leggings, ma sempre,
comunque, accompagnati dagli orecchini d’oro a forma di stellina che, facendole
in casa il buco con l’ago ed il sughero, le aveva messo all’età di sei mesi e
poi più tolto.
Il suo lavoro le aveva dato modo di conoscere ognuno dei
suoi compaesani, visto che, prima o poi, tutti avevano bisogno di dare una
scorciatina ai capelli o farsi una permanente in occasione di qualche festa.
Era naturalmente estroversa e la sua istintiva simpatia
l’aveva resa confidente ed, a volte complice, di tante piccole o grandi tresche
che gli abitanti della comunità tramavano uno alle spalle dell’altro.
Pettegolezzi, dicerie, notizie di prima mano venivano confidate tra un colpo di
spazzola e l’altro con più naturalezza e libertà di quanta qualsiasi confessore
si sarebbe mai potuto augurare.
Le cose più “gravi” che aveva sentito erano state storie di
corna o tradimenti, specialmente da parte delle donne, visto che di queste cose
gli uomini preferiscono parlare tra loro liberi di fare commenti e raccontare particolari
non adatti alle orecchie di una signora.
Per il resto era lo scambiarsi ricette o consigli dove
acquistare con maggiore convenienza un determinato articolo oppure, con i
maschi, quanto grande era stato il cinghiale che era stato ammazzato
nell’ultima caccia o a quale cifra avevano intenzione di vendere il vecchio
fondo abbandonato alla fine del paese ad una sprovveduta coppia di turisti
romani in cerca di una angolo rustico per evadere dalla città.
Un giorno la Kathia (mi raccomando la lingua!) era alle
prese con una tintura particolarmente difficile che la signora Adele aveva
voluto per fare bella figura al matrimonio del compare di suo marito e, con un
po’ di nervosismo, non sicurissima del dosaggio del prodotto che aveva sparso,
forse in maniera troppo abbondante, sui capelli della cliente, per non avere
distrazioni aveva allontanato anche la sua saltuaria aiutante/apprendista. Costei,
ragazzetta sedicenne di buona volontà ma di non elevatissimo quoziente intellettuale,
cercava, con impegno di appropriarsi dei segreti del mestiere. Spesso, però,
per la titolare, era un doppio lavoro fare quello che doveva sulla testa sotto
le sue mani e, contemporaneamente, sorvegliare che la ragazza non facesse
troppi danni sull’ignara cavia alla portata delle sue forbici.
La signora che in quel momento stava con un asciugamano in
testa in attesa che gli agenti chimici facessero il miracolo di darle, almeno
un’illusione di avvenenza, avendo sfogliato l’ultima pagina di un “Chi” datato
almeno tre mesi prima, non sapendo come passare il tempo, attaccò bottone con
la parrucchiera.
“Oh Kathia” (credo non ci sia più bisogno di raccomandare al
lettore la fonetica) disse l’Adele. “che tu lo sai quello che è successo a’
casale ne’ pressi?” – Nota dell’autore: volevo fare, come Camilleri, e
riportare i dialoghi in toscano per rendere più veritiero il racconto. Non
essendo di quelle parti, ma romano, ed avendo spesso notato come sia fastidioso
sentire un non-romano cercare di parlare il romanesco con accenti, termini ed
inflessioni sbagliate, mi asterrò, da qui innanzi, di cercare di appropriarmi
di un idioma che non è il mio e tradurrò quello che i personaggi si diranno
nell’italiano che so parlare. Sta alla fantasia del lettore fare l’operazione
inversa. Ovvero, se vuole, immaginare i dialoghi, scritti nella lingua
nazionale, tradotti nel dialetto locale per avere un quadro più saporito della
vicenda. – “dal Bugnone” proseguì la signora “hanno trovato, ieri sera, la
moglie stesa a terra in cucina. Morta stecchita. Lui non c’era, stava a Fiesole
per una Fiera e la poveretta, evidentemente, non aveva potuto chiedere aiuto a
nessuno. Ma tu guarda se una donna di appena quarant’anni può finire così. Sarà
stato sicuramente un infarto visto che non sembra abbia battuto la testa o
subito altro incidente.” “Poverina” commentò la Kathia con comprensione
ma senza un gran coinvolgimento emotivo. Aveva conosciuto la vittima. Veniva
qualche volta da lei, ma a volte andava a Orbetello forse sperando di trovare
qualcuno di più bravo. Non gliene voleva per questo, o, forse, solo un po’,
piccata nell’orgoglio della sua professionalità. Era una bella donna con un
seno che, sembrava, suggerire una quarta abbondate, salvo push up nascosti.
Vita sottile e fianchi generosi. Un occhio maschile si sarebbe soffermato sul
“derrier” modello brasiliano e sulle gambe spesso generosamente esibite. La sua
avvenenza aveva dato adito a supposizioni di una qualche leggerezza di
comportamento che, la Kathia riteneva, fossero solo una cattiveria paesana ma
che, si pensava, giunsero all’orecchio del Buglione visto che i rapporti tra i
due, negli ultimi tempi, non erano più idilliaci come all’inizio del loro matrimonio.
“Almeno non avrà sofferto” commentò banalmente la Kathia
giusto per dire qual cosa in merito ad un avvenimento che la toccava
pochissimo. “Eh non so’” disse la cliente “Il viso, dicono, era contratto come
avesse sentito un gran dolore del quale non avesse saputo liberarsi.
“L’interesse di Kathia, a quella stranezza, si risvegliò. Una parrucchiera
acquisisce, nell’arco della sua carriera, attraverso i colloqui con i suoi clienti,
una vasta esperienza in tutti i settori dello scibile. Sapeva un po’ anche di
medicina e, tutti quelli che le avevano parlato degli infarti subiti da parenti
o amici, avevano descritto una morte veloce che lasciava il viso del cadavere con
un’espressione rilassata e non contratta.
“Mi dispiace anche per il Buglione” continuò l’Adele “è un
brav’uomo e questa cosa l’avrà lasciato, senz’altro disperato” Ummmhhh….il
Buglione la Kathia lo conosceva bene. Era stato compagno di scuola e di giochi
di suo marito. Da piccoli facevano le marachelle insieme, ma mentre il suo
compagno agiva per gioco, nel comportamento dell’altro c’era sempre una vena di
cattiveria più o meno celata. Quando poi erano cresciuti avevano continuato a
frequentarsi fino a quando la Kathia aveva detto al suo, all’epoca, fidanzato,
di non volere che lui uscisse con un personaggio che lei sentiva avrebbe potuto
avere influssi negativi.
Il marito la voleva sposare e voleva, soprattutto, acconsentendo
ad ogni sua richiesta, aprirsi la strada verso la prosaica meta che da tanto
tempo anelava e che la testardaggine della fidanzata ancora non gli aveva
concesso. Quindi non frequentò più il Buglione anche se, in un piccolo centro,
ci si incontra tutti, e si continuano avere rapporti di conoscenza più o meno
amichevole.
La Kathia, essendo l’unica parrucchiera donna/uomo della
zona, ogni tanto tagliava i capelli anche all’attuale vedovo. Ora che ci
pensava, negli ultimi mesi, l’aveva visto con una frequenza maggiore del
solito. Si era fatto aggiustare i riccioli ma, soprattutto, si lamentava ogni
volta che, a suo dire, si stava incanutendo precocemente.
La parrucchiera non notava questo fenomeno così evidente, ma
dietro le pressanti richieste del cliente, gli vendeva un prodotto molto efficace
per nascondere il suo problema. L’aveva, più volte, messo sull’avviso che
avrebbe dovuto usare il colorante nelle dosi ed agli intervalli indicati sulla
confezione. Le istruzioni dicevano che, siccome tra i componenti della
preparazione era presente della stricnina, bisognava tenerlo lontano dai
bambini, non somministrare alle donne incinta e farne uso con periodicità non
inferiore ai trenta giorni.
Siccome lei gli dava, più o meno, un flacone al mese, non
aveva mai pensato a nessun tipo di conseguenza.
In quel momento ricordò anche che, qualche tempo prima,
durante una passeggiata per il Corso di Orbetello con la famiglia, aveva
incontrato la sua concorrente che gestiva il salone in quella località e,
parlando del più e del meno, scherzandoci su, avevano bonariamente preso in
giro il Buglione che comprava il prodotto colorante da entrambi gli esercizi
forse, dicevano, per un eccesso di vanità strano ad immaginare in un uomo di
quel carattere.
Kathia sbrigò il suo lavoro con l’Adele, chiuse bottega e,
con la sua Panda 4X4 corse alla stazione dei Carabinieri di Capalbio.
“Maresciallo, non è stato infarto.” “Si spieghi meglio, signora”” La moglie del
Bugnone. Il marito non poteva più sopportare che la donna fosse al centro degli
sguardi e dei commenti di tutto il paese e, non potendo averla solo per lui,
l’ha ammazzata!” “Non ci sono segni di violenza sul cadavere” le rispose il
sottufficiale con scetticismo. “Fate fare l’autopsia” disse sicura la Kathia, che
era un’avida ed appassionata lettrice di gialli, “e troverete le tracce di un
avvelenamento da stricnina” “E come, se posso permettermi di chiedere, è giunta
a questa conclusione?” obiettò il carabiniere ancora scettico e, forse, restio
ad avviare un’indagine per una caso che ritenevano già chiuso. “Il Buglione si
procurava da me e dal parrucchiere di Orbetello il prodotto colorante
contenente stricnina e siccome è abbastanza noto che questa sostanza si può
isolare con un procedimento di idrolittisi che richiede cognizioni ed un’attrezzatura
che potrebbe procurarsi qualsiasi studente delle medie, nel tempo, si è fatto
una scorta del veleno estratto dalla tintura. Poi, a piccole dosi, forse mescolata
e nascosta nelle pietanze, ha somministrato la stricnina alla moglie
provocandone, alla lunga, la morte”
Il maresciallo non poté ignorare il suggerimento della
parrucchiera. Fatte le dovute verifiche e riscontri, appurata la corrispondenza
dell’accusa, dopo pochi giorni, arrestò il Buglione con l’accusa di omicidio premeditato
con l’aggravante della crudeltà e del futile motivo.
Kathia litigò con il marito. “Perché non ti sei fatta i
fatti tuoi?” le disse “Ma come, ho fatto scoprire un assassino e tu così mi
dici?” “Ma va là…era un poveraccio in balia di quella donnaccia. Non dico che
ha fatto bene, ma…” La parrucchiera uscì dalla stanza senza replicare e
sbattendo la porta. Gli uomini: tutti uguali. Quando quella poveretta passava
per strada la guardavano bramosi, poi al momento di giudicarla la condanna era
senza appello.
La Kathia fu tentata, fortemente, di modificare l’insegna
del suo negozio e di scrivere “Parrucchiere per sole donne”.
Il Viaggio
L’aereo delle American Airlines atterrò all’aeroporto di
Anchorage in perfetto orario. La tratta non era molto frequentata e la Compagnia
l’aveva instituita soprattutto per tenere fede allo slogan “Dovunque in
America”. Dalla scaletta scese qualche uomo d’affari, che si riconosceva dal
lap top sotto al braccio, un paio d’eschimesi che sembravano, comunque, fuori
posto ed un giovane con lo zaino in spalla. Era quasi sera, ma, a quelle
latitudini, il sole sembra non voler cedere mai il suo posto ed una luce ancora
vivida, radente l’orizzonte, accecava gli sguardi dei viaggiatori. Si avviarono
tutti verso il nastro che avrebbe riconsegnato i bagagli meno il ragazzo che, non
avendo valigie, si diresse direttamente verso l’uscita. Fuori dall’aeroporto,
ma verso dove? Aveva intrapreso quel viaggio, alla fine dei suoi studi, per
diversi motivi. Non avrebbe saputo dire quale fosse il predominante. C’era la
voglia d’avventura, il desiderio di allontanarsi dalla quotidianità, una
ricerca di introspezione, l’amore per la natura e tanti altri che, presi
singolarmente, non avrebbero avuto la forza di spingerlo a quel passo, ma tutti
insieme lo stavano trascinando verso una meta che solo loro conoscevano. Il
giovane ristette fuori dalla porta scorrevole dell’edificio mentre un brivido
di freddo gli fece immediatamente capire dove si trovava e dove aveva l’intenzione
di andare. Non era del tutto folle. Il periodo era l’inizio dell’estate e,
quindi, teoricamente il più “caldo” per addentrarsi nel territorio vicino al
polo. Ma tutto è relativo e per lui che veniva dalla California, l’impatto era
quasi violento. “Bene” pensò “incominciamo a metterci alla prova”. Tirò fuori
dallo zaino un giaccone e, raccolte le idee su come orientarsi, si avviò verso
la stazione dei pullman. L’idea era quella di prendere una corriera che, aveva
saputo, conduceva fino al villaggio inuit di Gilong (versione fonetica di un
nome eschimese assolutamente impronunciabile) e poi, da lì, incamminarsi verso
il Polo Nord. Non era importante raggiungere il traguardo. Come aveva sentito
dire da qualcuno, l’importante non è la destinazione ma il viaggio. E lui,
durante il cammino, aveva l’intenzione di trovare o, almeno tentare di
avvicinarsi, a quelle verità che da sempre sono le domande che l’Uomo si pone. Nessuno,
mai, ha trovato le risposte. O, meglio, le risposte sono tante quante sono gli
esseri umani. Qualcuno le sa esternare meglio, altri le tengono dentro di se,
ma sono tutte ugualmente valide ed ugualmente false. Forse la giovinezza
l’illudeva proprio di questo: di riuscire a capire. Non ci sono riusciti i
filosofi greci…Ma torniamo al nostro protagonista. Comprò il biglietto e si
sedette sul primo bus che indicava la sua destinazione. Il suo vicino gli
chiese da dove venisse. Non era andato fino a là per fare amicizie o
conversazione e non voleva risultare socievole né tantomeno simpatico. Rispose
“Cazzi miei” e mise fine ad ulteriori amichevoli approcci. Dopo dodici ore di strada,
con varie soste fisiologiche, arrivarono finalmente…dove? Era una baracca con
un cartello che diceva presuntuosamente “Gilong – Stazione finale della
Corriera- Benvenuti nel Grande Nord”
Il ragazzo scese ed, ora, al piumino aggiunse i guanti ed il
cappello di lana. Avevano passato la notte sul bus e le prime ore del mattino accolsero
i viaggiatori con l’illusione di una piacevolezza che presto si sarebbe dimostrata
falsa. Il sole splendeva e l’aria era tersa, quasi tagliente. Respirare in
California ti portava l’odore salmastro del mare o, nelle città, la puzza
comune a tutte le metropoli. Qui c’era un profumo nuovo. Sempre di ossigeno si
trattava, ma puro, sembrava appena fatto, come fosse un aerosol da inspirare
per liberare le vie respiratorie. Una medicina o un miracolo. Si mise gli
occhiali da sole e non dette ascolto al suo corpo che reclamava per la mancanza
di sonno che il viaggio aveva provocato. Stava benissimo. Era dove voleva
essere e stava andando dove voleva andare. Ma da che parte? E’ facile
immaginare e programmare nell’immaginazione, ma poi, al momento di vivere, come
si fa? Si pentì di essere stato tanto scostante con il suo compagno di viaggio
che, forse, avrebbe potuto fornirgli qualche indicazione. Si avvicinò all’unico
addetto alla stazione che, orgogliosamente, esibiva un cappellino con visiera e
stemma ad indicare il suo ruolo dirigenziale. “Mi scusi, saprebbe dirmi chi mi
può indicare come raggiungere il Polo Nord?” L’impiegato, era un piccolo inuit
che sarebbe stato meglio vestito con una pelle di foca piuttosto che con quella
banale divisa capostazione, lo guardò stupito. Poi nei suoi occhi incominciò ad
apparire una traccia di divertimento. Dopo l’ilarità si tramise agli angoli
della bocca finché non scoppiò in una, giustificatissima, risata al cospetto di
una domanda totalmente idiota. “Dove vuoi andare tu?” “Al Polo Nord” rispose il
ragazzo come avesse detto al Mc Donalds più vicino. “Stai scappando?” Il
ragazzo ci pensò su un momento. In realtà, in un certo senso, forse sì. Però
non nel significato che intendeva l’omino. “No, certo. Voglio solo arrivare al
Polo Nord.” “Vuoi un consiglio?” chiese il solerte impiegato “prendi la
corriera di ritorno e non sfidare chi è più grande di te” Un’illuminazione. Era
esattamente questo che stava facendo e cercando. Voleva sfidare chi l’avrebbe
sicuramente battuto per vedere se avrebbe avuto il coraggio di affrontarlo e
quanto avrebbe resistito ai suoi colpi. “Dimmi solo se c’è qualcuno che mi
possa indicare la strada.” Uno sguardo di compatimento ed un’esitazione per poi
non doversi rimproverare niente ed il capostazione, quasi malvolentieri, gli
disse “Al villaggio c’è una guida. Orma ha ottant’anni e non si muove più. Però
conosce il pack come tu conosci le strade di Manhattan (ma se era
californiano?). Vai da lui e, se lo convincerai delle tue motivazioni, forse,
ti darà la sua bussola con la quale raggiungerai quel posto dove non c’è niente
ma per il quale in tanti hanno sacrificato la vita.”
“Grazie” e andò all’indirizzo indicatogli. Una casa bassa,
due piani appena, al centro del villaggio. Decorosa anche se, evidentemente,
povera. Con il dovuto rispetto si affacciò all’uscio e chiese della guida. Una
donna, forse la figlia o una delle mogli, l’accompagnò in una camera
all’interno. L’ambiente era buio, ma non aveva bisogno di luce in quanto il
vecchio era palesemente cieco e sedeva su una malandata poltrona che sembrava
avesse preso le sue forme e fosse diventata un tutt’uno con lui. “Maestro”
chissà perché gli venne di rivolgersi con quest’appellativo al vetusto
personaggio “indicatemi la strada per il Polo Nord”. “Quanti anni hai
figliolo?” “Ho gli anni che mi fanno desiderare questo viaggio” “Perché vuoi
fare il Viaggio figliolo?” “Perché il Viaggio mi chiama” “Che sei disposto a
lasciare e che vuoi ricevere?” “Tutto o niente, dipende da quello che troverò”
Il vecchio stette in silenzio per un po’. Poi aprì gli occhi mostrando le
orbite bianche lattiginose ed emise il suo verdetto: “Non sei giovane, non sei
vecchio, non sai chi sei e forse non lo saprai mai. Il Polo non ti sarà amico,
ma un avversario leale. Lo combatterai con le tue forze. Lui vincerà, ma tu
avrai misurato chi sei e quanto vali e questo, credo, è quello che cerchi. Qualcuno
più saggio di me una volta disse “conosci te stesso”. Quindi, figliolo, il
cimento è solo tuo. La donna che ti ha accolto, ti darà le giuste indicazioni e
se mai lo Spirito Che Tutto Governa ti toccherà, tornerai da me e mi darai,
ancora una volta, una giustificazione alla mia vita.”
Così fece. La donna, sulla soglia, sul far della sera, gli indicò
una stella. Quella era la direzione. Quante
volte aveva guardato il cielo e scrutato gli astri. Mai avrebbe immaginato che quella
stella, più brillante delle altre, era quella che avrebbe guidato il suo
cammino. Adesso era un suo seguace e non l’avrebbe persa per niente al mondo.
Al villaggio fece le adeguate provviste, si equipaggiò al meglio possibile,
diede un’occhiata ad un barometro che, a mezzogiorno, segnava zero gradi e la mattina
del 3 agosto prese la via, vogliamo essere aulici, del suo destino.
Secondo i suoi calcoli, sarebbe dovuto arrivare alla meta in
quindici/venti giorni a seconda del tempo meteorologico e della sua resistenza
fisica. Il primo giorno fece venti chilometri. Poi si accampò. Montò la tenda
che aveva comprato, scaldò sul fornelletto una razione di cibo e stanco, ma
soddisfatto, si infilò nel sacco a pelo incurante del vento ed ignorando,
volutamente, il senso di solitudine ed abbandono che la situazione induceva.
Stessa cosa il secondo giorno e poi il terzo. Sembrava che niente ostacolasse
il suo cammino verso la meta. Era quasi troppo facile. Dov’era la sfida? Va
bene il freddo, ma era attrezzato. Va bene la fatica, ma era preparato. Il Polo
si avvicinava e lui, invece di essere, in qualche modo, contento ed appagato,
sentiva che mancava qualcosa.
Dopo undici giorni di pack si svegliò, la mattina, ancora
pronto a fare il suo percorso. Si avviò, trascinando sulla slitta, che aveva
portato appositamente, tutti i suoi averi verso il traguardo. Il suo animo era
combattuto. Contento e immerso in quell’esperienza, ma non bastavano la fatica,
il sacrificio, il coraggio, la solitudine e tutti i disagi patiti per
giustificare il viaggio.
Verso sera, ormai stanco, stava per fermarsi e montare la
tenda per la notte quando, in lontananza, forse a 200 metri, vide una casupola.
Niente più che una baracchetta con il tetto in lamiera e le pareti fatte con
assi di legno. Dalla porta, schiusa, veniva una luce che, nel crepuscolo, si
rifletteva sul ghiaccio con un effetto irreale.
La curiosità di capire chi potesse vivere, anche
provvisoriamente, in quel posto, fu troppa ed anche la voglia, dopo tanti
giorni, di incontrare un altro uomo lo spinsero a raggiungere la catapecchia.
Si avvicinò guardingo. “Ehilà! C’è nessuno?” non ebbe risposta.
Si avvicinò all’uscio e, con cautela, lo dischiuse. La baracca era vuota. C’era
un lume a petrolio che stava esaurendo il suo combustibile ad illuminare
l’unica stanza. L’impressione era come se fosse stata abbandonata da poco.
Meglio, come se qualcuno, per uno strano presentimento, avesse sentito l’avvicinarsi
di un’altra anima in pena ed avesse voluto lasciare il suo rifugio dove aveva
ritrovato quella pace che augurava al nuovo venuto.
Non si sa perché il ragazzo percepì subito questa sensazione
e dimenticò immediatamente il suo proposito di raggiungere il Polo. La sua meta
era lì. In quella baracca qualcun altro aveva trovato se stesso e quello era il
proposito del suo viaggio.
Prese le sue cose, si sistemò alla meglio e poi uscì
rivolgendo lo sguardo alla volta celeste. Nella purezza della notte le stelle
scintillavano, la via lattea sembrava un’autostrada verso l’infinito e la
piccolezza dell’essere umano non aveva senso in confronto all’immensità del
creato.
Rica Hotel, Gamla Stan
La nave si avvicinava lenta al molo di attracco. Uno sbuffo
sonoro annunciò il suo arrivo a chi, ancora distratto, non avesse visto quella
montagna di acciaio e vetro accostarsi a terra. Le manovre furono veloci e
precise come se fosse stato naturale imbrigliare migliaia di tonnellate ad una
banchina ed a gavitelli che sembravano del tutto inadeguati. Si aprì una porta
nello scafo che, a confronto di quella massa sembrava minuscola, ed una passerella
fu agganciata a degli appositi sostegni per dar modo ai passeggeri di scendere
a terra. Il porto era quello di Stoccolma. Si era ormai, alla fine di settembre
e quelle erano le ultime crociere che garantivano una navigazione abbastanza
tranquilla al riparo dalle asprezze del tempo previsto per i periodi successivi.
La temperatura risentiva delle prime avvisaglie dell’autunno ed, anche se il
sole splendeva per la maggior parte della giornata, erano pochi gli audaci che,
sui ponti, si mettevano in costume. La sera erano obbligatori golfetto ed, a
volte, giubbino antivento.
Un uomo che sembrava, nell’abbigliamento, fin troppo
previdente, si mise in coda sulla scaletta per raggiungere la terraferma
condividendo, all’apparenza, lo scopo degli altri di una visita alla città.
Indossava un trench Burberry’s doppiopetto un po’ demodé ed
una sciarpa con lo stesso cheque a riparare il collo ed a coprire una metà del
viso.
Fece la sua corretta fila con gli altri ma, al momento di
salire sulla navetta che avrebbe portato al centro della città, si defilò ed
imboccò, con decisione una stradina al lato della piazzuola di ormeggio.
L’atteggiamento non era quello di un turista. Sembrava che
l’uomo sapesse esattamente dove fosse e dove si stesse recando, senza
esitazioni o necessità di chiedere informazioni per orientarsi.
Percorsa velocemente la via, sbucò su una piazzetta dove, ad
un parcheggio, stazionavano alcuni taxi in attesa. L’umo aprì la portiera del
primo della fila e disse all’autista: “Rica Hotel, Gamla Stan”. Come per tutti
i tassisti del mondo, andare in centro, vicino al Palazzo Reale, con quel
traffico e a quell’ora fu quasi un sacrificio per l’autista. Con aria di
condiscendenza, che voleva sottintendere il diritto ad un’adeguata mancia, mise
in moto la macchina e si incanalò in quello che a lui sembrava un traffico
infernale. Per la legge del contrappasso, Dante l’avrebbe condannato a guidare
per l’eternità nel centro di Roma o di New York ed, in quel modo, si sarebbe
reso conto di quanto fosse ingrato verso il compito assegnatogli dalla Divina
Potestà.
Dopo un tragitto cadenzato da smoccolamenti in uno slang
svedese e, quindi, totalmente assurdi, il taxi scaricò il suo passeggero
davanti al portone dell’albergo.
Questo era un edificio ristrutturato recentemente con tutti
i moderni comfort di accoglienza, specialmente per meeting di affari e
soggiorni brevi, a poca distanza dalla stazione centrale e dal terminal del bus
per l’aeroporto internazionale.
L’uomo pagò la corsa lasciando un’adeguata mancia che
avrebbe sopito i borbottii del conducente e scese avviandosi verso la reception
dell’albergo.
“Sono mr. Justin Justice” disse all’addetto al ricevimento
“ho fissato una stanza per una notte” L’impiegato controllò sul computer e,
riscontrata la mail di prenotazione, rispose:” Benvenuto mr. Justice. La sua
camera è pronta. La faccio accompagnare.” “Un momento” disse l’uomo” la mia
richiesta era per una camera con esposizione ad ovest poiché, per le ragioni
del Feng Shui e del campo magnetico terrestre, posso dormire solo orientato
verso quella polarità. “Ma certamente, egregio signore, abbiamo tenuto conto
delle sue richieste. Le abbiamo assegnato la nostra migliore stanza con tale posizionamento
e che, per di più, affaccia su Palazzo reale.”” Nessuna valigia?” “Domani mi
aspettano a Uppsala dove mi fermerò più tempo e, quindi, ho fatto recapitare là
tutti i miei bagagli” “Bene signore, benvenuto!”
Il portiere suonò un campanello posato sul bancone della reception
ed accorse un fattorino che, presa la chiave della stanza, fece strada a mr.
Justice verso i suoi appartamenti.
La stanza non era molto spaziosa. Arredata con quello che,
negli anni ’60, era stato lo stile più all’avanguardia. Un modernismo al limite
della spartanità che più che lo sforzo di un designer, ricordava i reparti dell’IKEA.
Aveva, però, un’ampia finestra che dava sul cortile del Palazzo Reale il cui
muro di cinta bordava il marciapiede opposto della strada sul retro dell’hotel.
Era quello che il nostro uomo cercava. Il suo capo gli aveva
comunicato che, quel pomeriggio, fidando ancora nelle miti temperature, i
principi ereditari avrebbero festeggiato il secondo compleanno del figlio con
un ricevimento all’aperto, ma entro i limiti della Reggia.
La sua missione era destabilizzare l’ordine costituito
provocando un “incidente” che, scatenando reazioni favorevoli e contrarie, avrebbe
messo in discussione l’utilità e le funzioni di un’istituzione, la monarchia,
che il governo del suo Paese vedeva ormai desueta e contraria ai propri
interessi.
La cosa più eclatante, che avrebbe fatto parlare i media di
tutto il mondo, sarebbe stata l’uccisione del piccolo futuro erede al trono. Un
innocente avrebbe pagato con il suo sangue le colpe dei suoi avi al fine di
aprire nuovi scenari per l’emancipazione delle masse sfruttate dall’Imperial/capitalismo
ancora dominante a livello politico ed economico.
Justice, ovviamente non era questo il suo nome, si sistemò
nella stanza. Non avendo bagagli, non aprì neanche l’armadio, ma si limitò a
sbottonare l’impermeabile. Sulla fodera, con l’inconfondibile disegno a scacchi
nero/beige/rosso erano state applicate tasche e passanti che, ordinatamente, contenevano
un assortimento di ferraglia.
Con calma e metodo, l’uomo estrasse tutto dal trench e lo
posò sul letto. Poi, automaticamente, ripetendo un’azione fatta centinaia di
volte, con precisione e destrezza, cominciò ad incastrare i vari pezzi.
Magicamente, come in un puzzle mortale, configurò un’arma da guerra con la
quale il killer, mille volte, si era esercitato su bersagli più o meno vivi.
Venne il mezzodì e, mentre gli altri croceristi stavano
visitando il Vasamuseet con la nave vichinga fedelmente ricostruita, lui si
mise in attesa che, nel primo pomeriggio, iniziasse il ricevimento.
Alle quattro, dal suo punto d’osservazione, vide i principi uscire
dalla porta-finestra di un salone del palazzo e fare un breve giro di ispezione
per controllare se tutto fosse correttamente preparato per l’imminente party.
Alle quattro e trenta arrivarono i primi invitati. Dall’affaccio
della sua camera, con un binocolo, Justice distingueva benissimo i convenevoli
e le falsità di circostanza che i nobili anfitrioni ed i loro ospiti si
scambiavano e la repulsione per tanta ipocrisia era quasi una giustificazione
per quanto si apprestava a fare.
Passò mezz’ora e poi un’ora ed il cortile si riempi di tanti
ruffiani, molti arrampicatori sociali e pochi amici che avevano risposto
all’invito dei principi per festeggiare il loro pargolo.
L’uomo si preparò. Senza alcuna emozione, imbracciò il
fucile di precisione che aveva ricostruito. Regolò il mirino telescopico e fece
collimare i parametri di mira. Vedeva chiaramente la principessa, con i suoi
vaporosi lunghi capelli, andare da un gruppetto all’altro di ospiti per
salutarli e farli partecipi della festa. Anche il principe, con maggiore
riservatezza, sembrava adoperarsi per la riuscita del ricevimento. Una
testolina bionda ondeggiava scuotendo i riccioli sforzandosi di stare al passo
della madre alla quale aveva stretto la mano e dalla quale non avrebbe mai
voluto separarsi.
Justice era stato in Bosnia, nel Kosovo, in Palestina, non
erano certo i bambini che lo impressionavano se doveva portare a termine una
missione.
Imbracciò il fucile e, tramite il mirino telescopico, senza
fretta, prese a seguire i movimenti del piccolo.
Venne il momento. L’obiettivo era perfettamente inquadrato.
La scena, intorno, non era cambiata nella sua pelosa allegria.
L’uomo imbracciò l’arma. Posò il calcio sulla spalla e la
guancia sulla canna in corrispondenza dell’ottica di mira. Poi fece un profondo
respiro e trattenne il fiato mentre inquadrava il bimbo nel mirino. L’indice
sul grilletto era pronto quando…sbadabammmm: un tuono da fine del mondo squassò
la pace del convivio.
Il bimbo si rifugiò immediatamente dietro le gonne della
madre spaventato dall’evento atmosferico, ma non sapendo di quale pericolo
avrebbe dovuto avere veramente paura.
Un fuggi fuggi generale e tutti rientrarono nelle sale del palazzo
per ripararsi dalla pioggia imminente e continuare nelle loro futilità.
Si potrebbe supporre che l’uomo fosse stizzito per
l’occasione mancata che significava il fallimento della sua missione. In realtà
toppe volte aveva subito la mano del destino, sia a favore che contro quello
che lui stava cercando, per dispiacersi troppo.
Una missione non era mai finita fino a quando l’obiettivo
non era raggiunto. Se c’era la volontà e l’opportunità politica o militare di
farlo, i tentativi potevano essere molteplici.
Con un cinico e rassegnato sorriso, fece le operazioni
inverse. Smontò l’arma e la nascose nel trench. Scese, pagò la camera inventando
una scusa per l’improvvisa partenza, e chiese che gli chiamassero un taxi.
Prese l’autovettura e si fece condurre alla scaletta che era in attesa per il reimbarco
degli ospiti della crociera. Si mischiò con loro e risalì sulla nave per
compilare il rapporto da inviare al capo sezione dell’unità speciale di cui
faceva parte.
Gli si avvicinò un passeggero che gli chiese” Piaciuta Stoccolma?”
Il killer alzò lo sguardo e fissò le sue pupille che, nella loro fissità e
mancanza di espressione ricordavano quelle di un squalo, negli occhi
dell’interlocutore. Lo sprovveduto crocerista sentì come un brivido freddo
percorrergli la schiena e si spaventò un poco per essere stato puntato da quei
due buchi neri senza fondo che lo guardavano. Si ritrasse istintivamente e,
pentendosi della sua cordialità, passò oltre quell’uomo ripromettendosi di
evitarlo per tutto il resto del viaggio.
UN VENTO FREDDO
Un vento freddo spazzava le vie di New York. Il berretto di
lana ben calato sulla fronte ed il bavero alzato del giaccone per cercare di ripararsi
in qualche modo ed il ragazzo, a passo svelto, si avviò su per la Columbus
Avenue nell’upper west side di Manhattan.
Voleva arrivare nei pressi del Dakota Building ed
appostarsi, per qualche tempo, nella speranza di vedere il suo idolo. Possedeva
tutti i suoi dischi prima come componente, anzi, come “anima” dei Beatles poi
come solista. La poesia delle sue canzoni aveva sempre toccato il suo animo
fino a giungere al culmine con “Imagine” che descriveva un’utopia al cui
raggiungimento avrebbe sacrificato tutta la sua vita.
Arrivò in vista dell’imponente edificio che già nelle
dimensioni e nell'architettura di un gotico ottocentesco, incuteva una
soggezione che teneva distante chi non si poteva permettere, per motivi
economici, di varcare il grande portone di quercia.
Si fermò all’angolo della strada insieme con un altro
sparuto gruppetto di fan al corrente, come lui, che John abitava là con la sua
compagna. Era verso l’ora di cena e c’erano buone possibilità di vedere il loro
idolo tornare a casa per godersi la propria intimità. L’attesa non fu neanche
tanto lunga. Dall’angolo verso Central Park una limousine nera imboccò la
strada fermandosi davanti al portone. Uno chauffeur in livrea si affrettò a
scendere ed ad aprire la portiera posteriore. Ne scese velocemente ma senza urgenza
una figura snella e dinoccolata tutta vestita di nero, con un cappello che
poteva essere da prete o da cow boy ed i tipici occhialini dalle lenti tonde.
John si avvide della piccola folla che lo stava aspettando e fece un distratto
saluto verso di loro con un gesto della mano, ma senza guardarli come non
degnandoli di nessuna importanza se non quella di essere adepti di una divinità
alla quale tale tributo era, in qualche modo dovuto. Dopo di lui, con movenze
compassate ed un atteggiamento sicuro di sé, lo seguì quella che per tutti i
“veri” fan era la sua anima nera. Partì una bordata di fischi all’indirizzo di
Yoko Ono che, probabilmente, neanche li sentì in parte dispersi dal vento e,
per il resto inadeguati ad intaccare la sua presuntuosa vanità.
Mark David Chapman sentì, in quel momento, che c’era
qualcosa che non andava. Quello era il ragazzo di Liverpool che aveva composto
“working class heroe”, che partecipava alle marce per la pace e per la fine
della guerra nel Viet-Nam, che si mostrava tanto anticonformista da farsi
fotografare e riprendere dai media di tutto il mondo in un bed-in di
contestazione al sistema? Aveva ammirato John perché aveva lasciato il gruppo
che voleva dire soldi a palate, notorietà, successo e fama planetaria per
seguire l’amore di una donna obiettivamente brutta anche se, forse,
intelligente o pseudo intellettuale. Nelle prime canzoni sembrava rimpiangere Strawberry
Fields, i giardini di Liverpool nei quali, scavalcato il muretto di recinzione
andava a giocare da piccolo, e la gente semplice di quella città di lavoratori
portuali. Poi, in molte delle interviste che aveva visto o letto, aveva fatto
di tutto per spiazzare gli interlocutori con uno spirito cinico e tagliente al
limite della provocazione sino alla famosa frase nella quale affermava la
superiore popolarità dei Beatles rispetto a quella di Gesù Cristo.
Insomma, nella testa di Chapman, John era il portabandiera
di una classe operaia che, finalmente, contestava il potere della ruling class
oppressiva e sfruttatrice.
Era una sua idea velleitaria ed, in qualche maniera,
romantica dove un paladino senza macchia né paura prendeva le parti degli umili
contro…lo sceriffo di Nottingham.
Forse, in parte, l’ispirazione di John sia per le canzoni
che per le sue esternazioni, teneva conto di quelle motivazioni, ma era
evidente a tutti, meno che a Mark, che era principalmente una star di prima
grandezza in un mondo che accettava, e dal quale veniva accettato, per la sua
capacità di attrarre consensi, ovvero, introiti.
Vedere Lennon che con fare altezzoso scendeva da un’auto che
lui non avrebbe potuto permettersi di noleggiare neanche per un’ora con lo
stipendio di una settimana, fece infuriare il ragazzo.
Sapeva, ovviamente, che l’ex Beatle era una persona ricca,
ma immaginava che il suo eroe disprezzasse il denaro. Non pretendeva che
vivesse al Dakota addirittura controvoglia, ma almeno dimostrando comprensione
per chi, come lui, lo andava a salutare per poi tornare negli slums della
periferia.
Quel gesto distratto con la mano, il passo veloce a il
rifugiarsi nel nido dorato, la mancanza di uno sguardo che lasciasse intendere
che lui stava, in realtà, lavorando da dentro il sistema per scardinare le basi
di quella schifosa società, ebbene, il tutto non era accettabile.
Aveva dato a lui ed ai suoi compagnucci molta parte dei suoi
risparmi per collezionare tutti i dischi, le riviste, le foto e quant’altro lo
facesse sentire vicino al suo idolo. Erano almeno dieci anni che sognava non un
incontro, ma almeno un contatto visivo con quella specie di semi-dio. Ma ora
aveva tutto chiaro. Si era illuso. Era stato ingannato insieme a tanti della
sua generazione. Tutte le esternazioni le composizioni, le parole della carriera
di Lennon avevano avuto un solo scopo. Comprarsi un grande appartamento nel
Dakota Building al quale arrivare scendendo dalla macchina più lunga e costosa
possibile e poi rifugiarsi in un caldo ambiente dove, si immaginava, un
maggiordomo avrebbe servito a lui ed alla giapponese caviale, e champagne in
coppe d’argento e cristallo alla faccia dei poveri imbecilli che l’avevano
aspettato in strada.
Mark tornò a casa e quella notte non riuscì a dormire tanta
era la rabbia. I giorni successivi invece di razionalizzare le sue emozioni e
di mettere tutto nella giusta prospettiva, la sua mente si accese di una febbre
sempre più divampante. Si dette malato al lavoro e, come tante volte aveva
fatto in precedenza, si stese sul letto della sua camera mettendo sul
giradischi un long playing di John. Quello che fino ad allora l’aveva fatto
sognare, adesso gli provocava una irritazione incontenibile che sfogava
scalciando i cuscini e dando pugni sul muro. Si attaccò ad una bottiglia di
Jack Daniels leccandosi le ferite sulle nocche delle mani che quelle sfuriate
gli avevano provocato. Non era giusto che una persona tanto amata da milioni di
altre avesse preso in giro tutti in quella maniera. Forse gli altri erano
ancora accecati dalle belle melodie, ma lui aveva capito e, adesso, sapeva cosa
fare.
La sera dell’8 dicembre del 1980, Mark David Chapman si
avvicinò a John mentre l’artista stava rincasando con Yoko aprendo il portone
della sua abitazione e lo chiamò “Ehi mr. Lennon!” L’ex Beatle, forse pensando
si trattasse di un fan che voleva un autografo, si voltò. Mark tirò fuori una
pistola ed esplose cinque colpi in successione che ferirono mortalmente il
cantante. Yoko dapprima rimase impietrita e poi urlò tutta la sua disperazione.
Si buttò in ginocchio e prese tra le braccia la testa del suo compagno di vita.
Dal viso esangue scivolarono gli occhiali dalle lenti tonde che Yoko, automaticamente,
raccolse, inconsciamente sperando che avessero potuto ancora servire. Questi
occhiali, tramite i quali guardava l’amore nei suoi occhi, sporchi del suo
sangue, Yoko li conserva ancora come una reliquia.
L’assassino fu preso, a Central Park fu organizzata una
veglia di preghiera e di ricordo. Il mondo, con varie sfumature fu scioccato,
disperato, incredulo, sconvolto o solamente avvilito nel prendere atto che un
protagonista di un’epoca aveva lasciato questo mondo.
Yoko Ono fece risistemare la parte di parco di fronte al
Dakota creando un giardino che si chiama “Imagine”. Chi mette piede sulla
pietra con incisa quella parola, per un momento, fa anche lui parte di un’anima
universale e del sogno evocato dalla poesia di quella canzone.
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