martedì 25 aprile 2023

LUCINA E IL PROFESSORE

 

Erano tanti anni che portava avanti la sua professione, spesso con passione, a volte con sacrificio, ma sempre con la massima dedizione. La missione alla quale aveva dedicato la vita consisteva nel curare il disagio mentale dei pazienti riportando, per quanto possibile, la normalità in vite sconvolte da malesseri spesso senza nome ma non per questo meno invalidanti. “Normalità”: una parola spaventosa che, pur senza significato, condanna all’infelicità chi sente di non appartenervi, a volte senza ragione. Nel corso della carriera aveva visto accomodarsi sul lettino dello studio una grande varietà di persone accomunate da un grido d’aiuto, represso o palese, che si rivolgevano a lui come l’ultimo scoglio al quale aggrapparsi prima di lasciarsi andare alla deriva. E questa responsabilità lo psicologo la sentiva tutta sulle sue vecchie spalle che ormai faticavano a portarne il fardello. Come l’artigiano che ripara gli orologi, anche il dottore smontava gli ingranaggi della mente, li ripuliva oliandoli con le sue parole e li ricomponeva per fare in modo che l’ora indicata corrispondesse a quella ci si aspettava di vedere sul quadrante. Poi, rimesso tutto in ordine, si assicurava che ogni piccola parte svolgesse il proprio compito per dare un senso al ticchettio che scandisce lo scorrere del tempo fino all’esaurimento della carica. Però il suo lavoro era più difficile, aveva a che fare col cervello, un organo che si manifesta tramite il pensiero, frutto intangibile e potentissimo di piccole sinapsi. Ovvero la materia che produce l’immateriale: una terribile meraviglia. 

Tanto amava il suo lavoro che aveva preso l’abitudine di tenere delle schede personali, oltre alle cartelle cliniche, dove a fine giornata descriveva i casi più interessanti con le caratteristiche di ognuno e l’impressione ricevuta. Questi ritratti esulavano dalla specificità medica sconfinando spesso nell’immaginazione e completando, in qualche modo, il quadro di vite raccontate in parte o intraviste oltre le parole. Lo psicologo elaborava a proprio piacimento le suggestioni che sentiva provenire dai propri assistiti facendo agire i suoi pazienti dentro scenari che andavano oltre l’oggetto della cura per farli rivivere come forse avrebbero dovuto o nella maniera in cui un destino differente li avrebbe salvati. Immaginava nuovi amori, famiglie diverse, ossessioni o fobie creando una sorta di percorso che aveva come meta una vita migliore. Mentre scriveva, sentiva di fare qualcosa di utile, ma non poteva negare anche un certo divertimento nel comporre dei piccoli racconti in uno zibaldone tra realtà e fantasia.  

Il Professor Gregori anche quella sera era seduto alla scrivania del suo studio buttando giù la descrizione dell’ultima paziente che lo aveva particolarmente colpito. Innanzi tutto il nome: Lucina. Chissà cosa avevano in mente i genitori della ragazza quando la battezzarono. Forse era il benvenuto ad un esserino che avrebbe portato una speranza nuova nella loro vita o magari un sinonimo indicante il chiarore di una stella lontana. Chissà? Si accarezzò la barba ormai completamente bianca mentre radunava i pensieri, poi cominciò a digitare sul computer. “Oggi si è presentata a studio una ragazza di circa trent’anni, gradevole nell’aspetto e ben vestita. Mi ha ricordato un po’ quella cantante francese dei miei tempi, con la frangetta e i lunghi capelli lisci e biondi. Magra, ma non esageratamente come sembra andare di moda adesso. E’ entrata…” Inaspettati due colpi sull’uscio. Lo psicologo sobbalzò stupito. L’orario delle visite era terminato e non aspettava nessuno.

-Avanti. – disse, un po’ scocciato.   

-E’ permesso, professore? – Una giovane donna si affacciò all’uscio. Il portamento timido quasi tremebondo e una grade borsa rossa al braccio. – So che non è l’ora giusta, ma le posso rubare qualche minuto? – Un professionista affermato, come in realtà era il professor Gregori, avrebbe dovuto respingere l’intrusa pregandola, in maniera ferma e perentoria, di farsi dare un appuntamento dalla segretaria, ma la curiosità, stimolata anche dalla sfrontatezza dell’intrusa, ebbe il sopravvento.

-Non potrei, ma si accomodi. Brevemente, abbia la compiacenza.

-Certo, non si preoccupi, anzi mi scusi. – La donna si sedette sul lettino. – Mi chiamo Lucina, professore. Ho bisogno del suo aiuto. – La storia che raccontò quella prima sera fu lunga e confusa. Come spesso accade nei primi incontri, la narrazione dei suoi malesseri fu più uno sfogo che un insieme di fatti da poter analizzare. Il dottore non prese neanche appunti, sapeva per esperienza che avrebbe dovuto incontrare altre volte ancora la ragazza prima di trovare il bandolo di una matassa emotiva tanto ingarbugliata. Lucina si trattenne un’oretta e poi, improvvisamente, come se le fosse venuto in mente un impegno improrogabile, si alzò di scatto dal lettino.

-Devo andare. - Disse solamente, e senza neanche salutare si diresse in fretta verso l’uscita chiudendosi poi la porta alle spalle. Di comportamenti strani erano pieni i suoi schedari e Gregori non se ne stupì più di tanto. Non le aveva dato neanche un successivo appuntamento, chissà se sarebbe tornata.

Nei giorni successivi la paziente non si fece viva e il professore catalogò nella sua mente quell’incontro come un episodio fra tanti nella sua lunga carriera, ma niente di più. In realtà, lo strano incontro l’aveva incuriosito e decise di scriverne la sera successiva nelle sue schede. “Lucina presenta una sindrome non definita, ma prima della diagnosi, vorrei descriverla.” Come al solito, si fece prendere dalla fantasia e cominciò a romanzare. “E’ una giovane di bell’aspetto, gli occhi verdi come le fronde di una foresta in primavera e le mani lunghe da pianista. Si nota la sua sensibilità, mi ha parlato di piccole cose che le hanno fatto salire le lacrime agli occhi e stava seduta protesa verso di me come stesse aspettando una sentenza, che non le impartirò mai. Deve essere agiata, indossava un abito di buon taglio e qualche piccolo gioiello forse antico. Giocava spesso con un pendente della collana che rappresentava un fiore fatto di piccoli diamanti e perle, si vedeva che ne era affezionata.” Tutti particolari inventati, ma funzionali al racconto che stava scrivendo. “…” Nuovamente dei colpi alla porta.

-Chi è? – Non c’era niente di più fastidioso che essere interrotti mentre si scriveva.  

-Sempre io, professore. Non mi cacci!

-Lucina?  Cosa ci fa lei qui? Era sparita, pensavo non le interessassero più i nostri incontri.

-No, vede professore…posso entrare? – Così dicendo la donna fece qualche passo dentro allo studio. Alla fioca luce delle abat-jour sparse nella stanza sembrava ancora più giovane. Gregori notò qualcosa di scintillante al collo di Lucina e aguzzò la vista per capire di cosa si trattasse. Il professore rimase per un momento esterrefatto ed incredulo. Si trattava di un monile corrispondente esattamente al gioiello a forma di fiore che lui si era immaginato scrivendo poco prima. Spaventato per quella inspiegabile coincidenza, gli venne spontaneo di cacciare l’intrusa per mettere ordine nelle sue idee.

-No, no. Via, via! Ho daffare, adesso non posso. Torni un’altra volta. – La ragazza si ritrasse sgranando gli occhi, non si aspettava una reazione simile, chiuse la porta e se ne andò.

La sera successiva Gregori riprese in mano la scheda della misteriosa paziente per continuare la narrazione anche in considerazione dell’ultima visita. “Lucina entrò spavalda nel mio studio quasi aggredendomi. Mi disse: lei deve ascoltarmi! Non accetto rifiuti, tenga fede alla sua missione!” Sicuramente, pensò il medico, non sono parole confacenti a quella paziente così timida ed educata, ma voleva provare, letterariamente, a modificarle un po’ il carattere. In quel momento la porta dello studio si aprì di scatto e, come una furia, Lucina si precipitò nella stanza.

-Lei deve ascoltami! Non accetto rifiuti… - Il professore cominciò a tremare come una foglia. Sembrava che le sue parole messe per iscritto creassero una realtà che si manifestava successivamente. Non rispose e chiuse gli occhi. Sentì dei passi concitati e la porta sbattere con violenza. Tornò a guardare: non c’era più nessuno e Gregori temette per la “sua” sanità mentale. Il giorno successivo lo psicologo annullò tutti gli appuntamenti, troppi pensieri gli frullavano per la testa e doveva cercare di capire se stesse impazzendo o fosse vittima della sua fantasia. Forse, dopo anni di professione, era solamente stanco e aveva bisogno di una vacanza. Ma non poteva vivere nel dubbio e quindi la sera stessa, si rimise al computer per proseguire nella scrittura. Decise di descrivere qualcosa di talmente pazzo che non avrebbe potuto in alcun modo confondersi con la realtà. “Lucina, nel quarto incontro, si presentò vestita da Guardia Svizzera…” Un leggero picchiettio sull’uscio. Timidamente la ragazza entrò senza aspettare il permesso. Era vestita con i colori blu, rosso e giallo scuro. Il professore ebbe un mancamento e si accasciò sulla scrivania.

“Strano, – pensò Lucina – forse Gregori è un po’ esaurito. Non tornerò più e non scriverò più di lui sul mio diario.” Con una alzata di spalle si chiuse ancora la porta dietro e se ne andò. In quel momento si spensero le luci e nello studio del professore non ci fu più alcuna presenza. Sulla poltrona dietro alla scrivania non sedeva nessuno, uno spesso velo di polvere apparve ricoprendo ogni cosa e tutti i diplomi appesi alle pareti si scolorirono cancellando ogni nome.   

 

giovedì 13 aprile 2023

Il Mistero Della Cabina 38

 

Stefano e sua madre arrivavano al mare sempre nella tarda mattinata. Il bambino si buttava subito in acqua tuffandosi fra le onde e sguazzando finché non gli venivano i “rughetti” sulle dita, poi con gli amici organizzava interminabili partite di pallone che duravano fino allo sfinimento. All’ora di pranzo, i suoi compagni andavano a casa per mangiare e fare il riposino mentre lui restava da solo a leggere un giornaletto sotto l’ombrellone. La mamma faceva arrivare dal bar sontuosi panini e bibite varie, ma il pasto finiva presto ed il tempo non passava mai. Nell’ora di maggior canicola, tutto si chetava e si sentiva solo la risacca in sottofondo che mormorava una nenia soporifera. Il bambino durante la siesta si annoiava mortalmente. All’epoca di questi avvenimenti e dell’avventura fantastica di cui fu protagonista, Stefano aveva all’incirca dieci anni. Andava al “Cavalluccio Marino” tutte le estati, conosceva ogni angolo della spiaggia ed aveva fatto amicizia con tutti i bagnini che lo trattavano ormai come uno di famiglia. Dalla madre aveva il permesso di girare ovunque volesse, bastava che si facesse vivo ogni tanto senza sparire per ore. Così, per passare il tempo mentre tutti dormivano, andava in esplorazione. Il territorio più interessante si trovava dietro le cabine dove una stretta lingua di sabbia divideva il retro dei casotti dalla recinzione esterna. Non c’era nessuno, i bagnanti non avevano motivo d’andarci, serviva più che altro come deposito dei rimasugli dello stabilimento. Veniva portato lì tutto quello che i villeggianti lasciavano incustodito o dimenticavano andandosene: giochi, materassini, ciambelle gonfiabili, palloni in quantità, qualche indumento e strani oggetti apparentemente inutili. Non mancavano sedie a sdraio da aggiustare, ombrelloni privi di telo e perfino un pedalò andato in pensione; insomma: un mondo da scoprire. La parete posteriore delle cabine costruite in legno mostrava spesso delle fessure, addirittura dei buchi, e anche quello era un motivo di stimolo per la curiosità del bambino. Quando Stefano, da dietro, sentiva che qualcuno stava per entrare dalla porta anteriore, si affrettava ad accostare l’occhio al pertugio, ma senza particolare malizia. Quella sarebbe arrivata qualche anno dopo, a quel tempo era divertente spiare senza essere visti facendo qualcosa di vagamente proibito. Nella penombra vedeva più che altro piedi e braccia, ma una volta scorse chiaramente il sedere di una signora, tondo e pallido come una luna piena. Lo raccontò a tutti i suoi amici, con particolari inventati non difficili da immaginare, e per un pomeriggio non parlarono d’altro.  

Anche quel giorno, mentre stava facendo un sopralluogo nella “terra di nessuno” in cerca di nuovi tesori o di qualche gioco da recuperare, distrattamente fece un giro per capire se gli spogliatoi fossero occupati. Camminando, controllava i vari spiragli e con il pugno batteva sul legno, così tanto per far rumore, finché non arrivò all’ultima cabina della fila che rimaneva sempre chiusa, forse era riservata a qualcuno che non veniva mai o conteneva attrezzi da non lasciare incustoditi. Si accorse per la prima volta che, giusto all’altezza del suo sguardo, si apriva un foro abbastanza grande e ben definito, come fatto da un trapano. Era un invito imperdibile: accostò l’occhio destro.  Là dentro era tutto buio, solo un vago chiarore arrivava dall’alto, probabilmente dalla grata sopra la porta. Stava per passare oltre quando improvvisamente vide una lucetta bianca accendersi ad intermittenza: click, click, cliiiiick e buio; click, click, cliiiick e buio. Sembrava una specie di segnale che si ripeteva a distanza di pochi secondi, senza fermarsi. Stefano pensò ad un gioco lasciato in funzione dentro la cabina e guardò con più attenzione. Aguzzò la vista e mentre la piccola lampada rimaneva accesa vide che la luce proveniva da un faro in miniatura, fatto esattamente come quelli che aveva visto nelle illustrazioni di geografia: una torretta dipinta a righe orizzontali bianche e blu, con la lanterna di vetro in cima, costruita sopra una specie di scoglio. “Bellissima!” pensò e rimase incantato a guardare. Man mano che si abituava all’oscurità, riuscì a distinguere altri particolari. Si accorse che il faro era circondato da una distesa d’acqua in movimento come un mare in tempesta. La luce colpiva la superfice delle onde e bianche creste di spuma s’innalzavano rampanti come cavalli imbizzarriti. Adesso percepiva anche il rumore dei marosi mentre s’infrangevano sulla roccia, lo stridio dei gabbiani e l’ululare del vento. “No, non è possibile che dentro la cabina ci sia tutto quello, forse il buco nella parete corrisponde allo schermo di un portatile che sta trasmettendo un documentario.” Stefano si ritrasse per un momento stupito, perplesso. Non riusciva a capire cosa avesse visto esattamente, o meglio come fosse possibile che la cabina n. 28 contenesse un uragano. Doveva scoprirlo. Fece di corsa il giro della fila delle cabine e si ritrovò davanti all’ultima porta dello schieramento. Non si udiva alcun rumore provenire da dietro l’uscio chiuso e tutto sembrava rientrare nella normalità. Eppure non aveva sognato, si arrampicò sulla balaustra laterale per sbirciare all’interno da sotto il tettino. Vide quello che c’era da aspettarsi: attrezzi da giardinaggio. Balzò per terra e, sempre di corsa, tornò al buco sul retro appiccicandoci l’occhio. Il fortunale infuriava più che mai, mentre il faro lanciava i suoi segnali d’avvertimento come una sentinella a difesa dei naviganti. Stefano si accasciò sulla sabbia con la testa fra le mani. Rimase così per qualche minuto, indeciso se chiamare qualcuno o dimenticare tutto facendo finta di niente. Nessuna delle due possibilità sembrava soddisfacente: nel primo caso se avesse detto a Peppe, il bagnino, che c’era un faro in cabina non sarebbe stato sicuramente creduto, ed anzi l’avrebbe preso in giro, se invece avesse ignorato quanto era sicuro d’aver visto, sarebbe rimasto tutta la vita col dubbio di aver avuto una allucinazione o di aver mancato una scoperta. L’unica soluzione era indagare, e per un patito dei racconti polizieschi si trattava, come si suol dire, di un invito a nozze. Doveva entrare nella cabina. Non era poi così difficile, le chiavi dei vari gabbiotti si differenziavano l’una dall’altra, ma ormai da tempo aveva scoperto che ogni cinque o sei esemplari la sequenza dei dentini si ripeteva e quindi, con pazienza, si poteva trovare quella giusta per ogni porta. Andò dalla madre presso la riva e si fece dare la chiave della loro cabina per cominciare da quella. Tornò davanti alla 28 aspettandosi di dover proseguire con i tentativi ma, infilata la chiave nella toppa, la serratura scattò subito. Stefano ebbe un balzo al cuore. E’ facile fare lo spavaldo quando l’avventura è solo ipotetica, altro è varcare la soglia del mistero. Non negò a se stesso di avere paura, ma la curiosità vinse il timore e Stefano spinse l’uscio fatale. Bastarono pochi centimetri e il bambino si ritrovò dall’altra parte, ma non ebbe neanche tempo di capire cosa stesse succedendo che provò la medesima sensazione di quando affrontò il grande scivolo al Parco Giochi Acquatici: il cuore gli arrivò in gola. Si sentì cadere a tutta velocità mentre intorno vedeva luci, ombre e tutti i colori dell’arcobaleno mischiarsi come in un enorme frullato ai gusti di frutta. L’accompagnava una cacofonia strana dove riconosceva voci di parenti, il richiamo della suora a scuola, lo scoppio dei mortaretti a capodanno, la musica di un organetto e tanti altri rumori che facevano lampeggiare frammenti di ricordi. Com’era iniziato finì tutto improvvisamente con un tuffo in un mondo blu dove non c’era più ne sopra né sotto, né presente né futuro solo acqua e silenzio. Forse perse i sensi perché poi non seppe spiegare come fece a ritrovarsi a faccia in giù steso sopra una delle rocce ai piedi del faro.

-Ehi, svegliati. – Stefano sentì una mano appoggiata sulla sua schiena che lo scuoteva violentemente. – Sei morto? – Sputacchiando e imprecando il bambino aprì gli occhi.

-Nossignore, almeno non credo.

-Bene, i funerali mi mettono tristezza e poi non ho crisantemi a diposizione. – Chi parlava era un ometto piccolo e rincagnato con due occhietti vivaci e ironici che spuntavano da una massa di peli bianchi che gli ricoprivano quasi tutto il viso. Era vestito da marinaio, con una casacca logora di panno blu e un berretto con la visiera adornato da una moltitudine di ami da pesca dalle piume variopinte attaccati tutt’intorno. L’effetto era una via di mezzo tra un capo indiano e un vecchio vagabondo, ma l’odore forte di pesce lo qualificava come un uomo di mare. Intanto la bufera intorno all’isola sembrava essersi placata e le onde carezzavano le grandi pietre con una dolcezza infida ed ingannevole.

-Dove sono? Dentro la cabina? – Chiese il bambino.

-Ehh? Cosa? Quale cabina? Sei impazzito o sei stato sempre pazzo? Guarda chi mi doveva capitare, un ragazzo pazzo, un pazzo ragazzo, pazzo e ragazzo, ragazzo e pazzo. – Continuando a ripetere quella cantilena che sembrava divertirlo molto, il marinaio s’incamminò verso il faro. La torre, che dal buco sembrava piccola, in realtà doveva essere alta almeno una quindicina di metri e il fascio di luce che balenava ritmicamente era potente come un riflettore del cinema. Sulla tonda parete dell’edificio si aprivano tre finestrelle, forse in corrispondenza di alcune stanze ed una porta alla base con i battenti di quercia scura.

-Aspettami! – disse Stefano e, con un certo sforzo, verificando di non avere niente di rotto, si tirò in piedi seguendo lo strano tipo.

-Sbrigati, vieni, pazzo ragazzo, che il tè è pronto.

Il giovane entrò nella casa del vecchio marinaio e la prima cosa che notò fu l’odore. Se quello che l’uomo spandeva dalla sua persona era un olezzo marino, dentro la stanza l’aria era quasi irrespirabile per il tanfo di pesce marcio.

-Che puzza! – Se ne uscì spontaneamente il ragazzo.

-Puzza, ragazzo pazzo? Non avverto alcuna puzza, forse viene dal pozzo!  Ci saranno caduti un pezzo di pizza, una tazza di cozze o un mazzo di pezze. Non farci caso son solo frizzi e lazzi.

-Basta! Ti ha dato di volta il cervello, vecchio? Cerca di fare la persona seria e dimmi dove sono e come ci sono arrivato. A proposito, come ti chiami?

-Sono Capitan Fracassa! No, ho detto una bugia, mi piacerebbe avere un nome tanto altisonante, in verità mi chiamo Gennaro e non ho mai comandato niente. E tu come ti chiami?

-Stefano e sono capitato qui senza sapere come.

-Caro ragazzo, sicuramente avrai letto “Alice” oppure qualche romanzo di fantascienza, magari quella serie noiosissima di quel bambino sfigato, come si chiamava…Potter. Ebbene tutti i protagonisti passano attraverso un varco temporale che li collega ad un mondo parallelo. Il fatto che questi passaggi di dimensione siano descritti in tante storie, ti dovrebbe far capire che c’è un fondo di verità e che, ogni tanto, a qualcuno succede di imbattersi in questi fenomeni. Ecco, tu hai fatto questa esperienza e…plof sei giunto qui.

-Ma io non volevo.

-Questa è una scusa stupida, non me l’aspettavo da te. Intanto siediti al tavolo e bevi il tè finché è caldo, altrimenti l’infuso di alghe secche freddandosi diventa come il piscio di balena: schifoso. – Per cortesia, il ragazzo ne ingerì un sorso, non era poi così male. – Dicevo, non è corretto dire che non volevi, anzi hai fatto di tutto per entrare, non è vero?

-Si, hai ragione Gennaro. Ma adesso come faccio a tornare? Mia madre non vedendomi si preoccuperà.

-Questo è un problema secondario. Vedi, da questa parte il tempo ha un’altra valenza. Quello che di là è un minuto qui sono dieci anni e quindi puoi rimanere per un periodo anche molto lungo senza che a nessuno venga in mente di cercarti. Per quanto riguarda il tornare, beh non è così semplice. Vedremo, ma per il momento non ci pensare e facciamo amicizia, l’ultimo essere parlante che ho incontrato è stata una sirena spiaggiata sulle rocce. Carina, per carità, ma dalla vita in giù viscida e piena di squame, dalla vita in su si poteva guardare però a me le mezze cose non sono mai piaciute. Deve essere successo almeno sei o sette anni fa e da allora mai una parola con nessuno. E’ una vita dura la mia.

-Capisco. – disse il ragazzo. – Ma non sbarca proprio mai nessuno sull’isola?

-Oh, no. – rispose il guardiano. – Qualcuno in realtà viene, ma vorrei tanto non lo facesse.

-Spiegati.

-Devi saper che il mare intorno è infestato dai pirati e ogni tanto uno di loro sbarca qui alla ricerca di un bottino da rapinare. Cascano male perché da queste parti non c’è niente di valore, ma proprio l’andarsene a mani vuote li fa andare su tutte le furie e spesso sfogano la rabbia rompendo tutto o facendo danni. Io, quando arrivano, mi nascondo per non andarci di mezzo.

-Se la prendono anche con te?

-Una volta ero andato a pescare dall’altra parte dello scoglio e non li vidi arrivare, me li trovai in casa furenti e il loro capo, Abeijon, mi prese per i capelli e voleva sgozzarmi. Per fortuna successe qualcosa che lo distrasse, mi scaraventò in un angolo e se ne andò promettendo che avrebbe finito il lavoro la volta successiva. Da allora sto molto attento, ma vivo sempre con la paura.

-Che brutti ceffi! E non c’è modo di allontanarli definitivamente?

-Ah, magari! Sono alti quasi due metri e tanto grossi da passare a malapena dalla porta del faro. Hanno l’aspetto di belve feroci con gli occhi spiritati e la bava che esce dalla bocca. Grugniscono più che parlare e il sangue è la bevanda che preferiscono. Quindi è impossibile contrastarli, bisogna solo scappare, anche se così si lascia tutto a disposizione delle loro razzie. Però…

-Cosa?

-Un punto debole ce l’hanno.

-Ah, lo vedi? Non esiste nessuno invulnerabile. Allora perché non li colpisci lì?

-Mi sta venendo un’idea.

-Parla. – Il guardiano rimuginava tra se, sembrava perso nei suoi pensieri. Aveva cominciato ad andare avanti e indietro per la piccola stanza con la testa bassa e le mani dietro la schiena, emettendo ogni tanto strani versi e risatine. Sembrava improvvisamente in preda ad una forte eccitazione. Poi di colpo si fermò e si rimise a sedere di fronte a Stefano.

-Stammi bene a sentire, ragazzo pazzo. Ti dicevo che hanno un punto debole, eccolo: non sanno ridere. Se Abeijon ci provasse, gli verrebbero le convulsioni e forse morirebbe soffocato. La prossima volta che viene, bisognerebbe farlo ridere e sono sicuro che starebbe tanto male da scappare via o lasciarci le penne. Comunque sicuramente non si azzarderebbe più a tornare.

-Beh, fargli il solletico mi sembra alquanto difficoltoso, si potrebbe provare con qualche barzelletta. E allora fallo, no?

-Io? – Sgranò gli occhi Gennaro. - Impossibile! Quando lo vedo mi prende il panico, va via la voce e la mente mi va in pappa. Non ne sarei mai capace, però…

-Ancora co sto’: però! Però cosa? – Il vecchio prese per la maglietta il ragazzo e avvicino il viso all’altro fissandolo negli occhi.

-Lo potresti fare tu! – Gridò come colpito da una folgorazione.

-Io? Sei scemo? Contro quel, come si chiama…

- Abeijon.

-Quello! Gli dovrei raccontare una barzelletta per farlo stramazzare col rischio che se non ride sgozza anche me? Scordatelo!

-No, nessun rischio. E’ sicuro che se tu gli racconti una storiella divertente quello si scompiscia e muore: matematico! E poi, la gratitudine mi potrebbe rinfrescare la memoria e mi ricorderei come si fa a tornare indietro nel tuo mondo, così te ne potresti andare.

-Un ricatto?

-E’ piuttosto un contratto da stipulare con la soddisfazione di entrambe le parti. – Stefano si sentiva con le spalle al muro. Se non avesse acconsentito, Gennaro per dispetto non l’avrebbe fatto partire e lui ne aveva abbastanza di quella avventura. Ci pensò ancora un attimo e poi:

-Ok, hai vinto. Lo farò, ma sappi che ho una fifa fregata!

-Su, su, non c’è niente da aver paura: è matematico. – In quel momento si sentì il rombo di un cannone provenire dal mare.

-Eccoli! Sbrigati ragazzo, nasconditi dentro l’armadio e aspetta che entri Abeijon. Poi quando sta a tiro di voce, spara la prima barzelletta, vedrai che effetto avrà su di lui.

-Siamo sicuri, eh?

-Matematico! – Mentre il vecchio scappava per andarsi a rintanare chissà dove, Stefano aprì le ante di un specie di credenza e restò in attesa. Là dentro, al buio, sentiva solo il suo cuore battere all’impazzata, mentre goccioloni di sudore gli bruciavano gli occhi. Non dovette aspettare molto, dopo qualche minuto sentì provenire da fuori della porta strane parole e versi animaleschi come se ci fosse un branco di cinghiali inferociti. Battevano le mani, pestavano i piedi e, ogni tanto, si sentiva il rumore di qualche pistolettata. Era difficile capire cosa stessero facendo, perché non fossero entrati subito, forse stavano decidendo che fine far fare al povero Gennaro se l’avessero trovato.  Il ragazzo supponeva che sarebbe stata la stessa sorte che avrebbero riservato a lui e provava la voglia irresistibile di scappare o farsi piccolo piccolo nella speranza di non farsi scoprire. Ma doveva tener fede alla promessa, sia per salvare il povero guardiano che per poter tornare a casa, quindi raccolse ogni briciola di coraggio che riuscì a trovare nel suo corpo di bambino e rimase in attesa. L’uscio del faro sbatté violentemente e Stefano, dentro l’armadio, fece un salto che a momenti ruzzolava fuori.

-Sgrunt, gronf, Aspettate, entro io per primo e vedo se c’è quell’ometto. – La voce cavernosa proveniente dal centro della stanza doveva appartenere al capo dei pirati. –No, qui non si vede, il topo di fogna. Deve essersi cacciato in qualche buco, lo troveremo. – Stefano sentiva Abeijon muoversi per la stanza urtando le suppellettili e facendo versi stizziti. Era il momento! Il ragazzo prese fiato il più possibile e cominciò a gridare:

- Qual è il ballo preferito dagli scimmioni? L’orango-tango. – Ogni rumore dalla stanza si placò, ma non ci fu alcuna reazione. “Lo sapevo, non funziona!” pensò il ragazzo quasi in preda al panico. Ma insistette:

- Mamma, la liquerizia ha le zampe? – No, di certo! – Allora mi sono mangiato uno scarafaggio. - Qualcosa si agitò, Abeijon sembrava lamentarsi e questo incoraggiò gli sforzi di Stefano:

-Dottore, mi aiuti, tutte le volte che bevo il latte sento un dolore fortissimo all’occhio destro. – Ha provato a togliere il cucchiaino dalla tazza? – Una specie di ruggito e il tonfo di un corpo pesante caduto a terra. Il pirata con lo stimolo della risata, ma impossibilitato a ridere, stava soffocando. Il ragazzo aprì uno spiraglio e guardò fuori. Vide una specie di bisonte vestito con mille colori che rantolava a terra. Non ebbe pietà e continuò:

-Mangia le carote, fanno bene alla vista. – Davvero? – Certo, hai mai visto un coniglio con gli occhiali? – Questo fu il colpo di grazia. Abeijon, per non morire, si trascinò fuori della casa ed aiutato dai compagni si allontanò rapidamente imbarcandosi sulla sua nave.

Stefano uscì urlando dall’armadio: - Gennaro, Gennaro, vieni, sono scappati! – Il guardiano ricomparve saltellando e gridando dalla gioia.

-Grazie, amico mio, grazie. Mi hai salvato!

-Si, però sono esausto. Adesso mantieni la tua promessa e dimmi come si fa per tornare nel mio mondo.

-Ok, ascolta… - gli rispose il guardiano del faro.

 

Sulla spiaggia, sotto l’ombrellone:

-Stefano, amore, hai mangiato il panino?

-Si, mamma.

-Bene, mi dispiace se ti stai annoiando. Non c’è molto da fare qua, vero?

-Si, mamma – Disse Stefano, ma pensò: “a parte viaggiare in mondi paralleli, combattere i pirati e salvare vite umane” Si mise distrattamente una mano nella tasca del costume e trovò un foglietto. Lo prese, era piegato in quattro e sopra un lato c’era scritto: “Come ringraziamento per avermi aiutato, Gennaro”. Lo aprì e vide una mappa sulla quale si notava un punto con la dicitura: “tesoro”. Rappresentava una terra che non riconobbe, ma la strada per arrivarci partiva dalla cabina 28.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L'Ultimo Colpo

 

Quella maledetta pallina mi prendeva per il culo. Un ampio swing all’inizio, con la forza giusta, e lei spiccò il volo. Sembrava avesse puntato la piazzola del green e la volesse raggiungere a tutti i costi, inesorabile e determinata. Si librò alta, indifferente agli sbuffi del vento e quasi irridendo i rami protesi per ostacolarla, docile e precisa come il meglio addestrato fra i segugi. Toccò terra rotolando graziosamente come una ginnasta all’uscita di un esercizio. Le mie aspettative non sembravano in quel momento mal riposte mentre mi illudevo che il golf non fosse uno sport poi tanto difficile. Con allegrezza percorsi le poche centinaia di metri che mi separavano dal nuovo incontro con la mia piccola amica lucida e tonda. Stavo gareggiando su un par 4, mentre il sole illuminava il sentiero della prossima gloria e ondivaghi stormi di volatili canterini disegnavano forme sempre nuove su una tela dipinta di blu. Il secondo colpo fu abbastanza soddisfacente. La pallina non si rivelò altrettanto volenterosa come nel primo, ma svolse il suo compito con diligenza posizionandosi ad appena un paio di metri dalla buca. Giulio Cesare non appena varcato il Rubicone non ebbe dubbi sulla vittoria, anche se ancora non aveva combattuto la battaglia, così io mi sentivo, fiducioso e sereno, sicuro che la mia perizia unita alla benevolenza del fato avrebbero condotto al trionfo. Il mio avversario sul green, lo chiamerò fittiziamente Severiano per non urtare alcuna suscettibilità, sembrava ormai rassegnato a fare da comparsa in una recita che mi vedeva da solo alla ribalta, protagonista e mattatore. Mi avvicinai alla pallina con la ragionevole certezza di centrare un “birdie”, il primo della giornata ed anche della stagione. Chi mi conosce sa che sulle questioni importanti non mento, e se dico che postura, forza e orientamento del colpo furono quanto di meglio si richieda, mi si può credere. Impattai e lei partì. Non doveva far altro che andare dritta per una manciata di centimetri e poi lasciarsi cadere in buca come una fanciulla innamorata tra le braccia dell’amante. Ma la pallina, lo dice il nome stesso, è femmina e quindi capricciosa. Mi illuse per il primo metro rotolando composta e diligente, ma poi come una signora a passeggio lungo una via dello shopping che si accorge di una nuova borsa nella vetrina di un negozio, improvvisamente deviò il suo percorso distraendosi dalla meta. Un gentiluomo perdona sempre la propria compagna e quindi, solo leggermente deluso, mi apprestai al quarto colpo per chiudere in parità col par; andava bene lo stesso. Presi il mio tempo e andai a colpire ancora, comunque fiducioso. Severiano, appoggiato sulla spalla del caddie, guardava sogghignando. Dall’alto della sua maggiore esperienza sapeva che si stavano manifestando i prodromi del dramma e voleva goderselo tutto. La pallina sentì la carezza della mazza, ma ormai sembrava essersi innervosita e non gradì. Partì, piano piano, e si avvicinò alla buca, scarrocciò sul bordo e proseguì sul green rifiutandosi di entrare. Che avrebbe detto Giobbe? Probabilmente avrebbe alzato le spalle, si sarebbe aggiustato il berretto, una sistematina al guanto e avrebbe serenamente continuato. A me venne spontaneo un rigurgito di rabbia e, se non ci fosse stato Severiano, avrei volentieri preso a morsi la pallina, anche col rischio di compromettere il lavoro del mio dentista. Ma bisogna mostrare fair play e quindi, appena un po’ più vermiglio del solito, andai appresso alla pallina per il tiro finale. Trenta centimetri? Forse meno, questa era la distanza da coprire. Un tocchettino. Lo so, è la mia immaginazione forse esaltata da un goccio di whisky, ma mentre la fissavo per colpirla, mi sembrò che la pallina mi guardasse sfidando la mia supposta padronanza, come una suffragetta nei confronti del potere maschilista. Non si sarebbe piegata al mio volere, e infatti nonostante la poca forza, la pallina sorvolò la buca per posizionarsi dall’altra parte. Siamo uomini o caporali (cit. Totò)? Mi avvicinai a lei brandendo la mazza come un cavernicolo con la clava e, senza por tempo in mezzo colpii ancora. E ancora, e ancora e ancora. Severiano si stava sganasciando mentre il caddie segnò + 8 sul blocchetto dello score. All’ultimo colpo, con l’asta della bandierina in mano e guardando il fondo della buca dove finalmente giaceva la mia nemica, ruggii a piena voce: “Fuck!!!” Non fu una scena elegante, ma mi sembrò il minimo.

Il Ragazzo Di Pietra

 

Quel ragazzo è solo, nudo come la verità e senza vergogna come l’innocenza. Ha le braccia lungo il corpo con qualcosa stretto in una mano, forse i fogli di un compito appena finito o un disegno fatto per gioco; l’attenzione del giovane adesso è rivolta ai suoi pensieri. Con la testa china, avanza a brevi passi sulle rocce di un percorso che appare impervio. Forse è l’allegoria della vita nella quale nasciamo nudi e senza averi e che dobbiamo percorrere tra inevitabili ostacoli, una strada che inizia per miracolo e finisce nel mistero. Il ragazzo è serio, non accenna ad alcun sorriso, guarda avanti di sottecchi con un’aria di sfida, tira indietro le spalle e si apre al mondo, molto più consapevole di quanto la sua giovane età lascerebbe supporre. E’ vulnerabile, a piedi scalzi si potrebbe ferire su qualche sasso, le intemperie potrebbero coglierlo senza riparo o una natura ostile potrebbe rivolgerglisi contro, ma non sembra avere paura. Non esita a proseguire seguendo un destino che per lui è già tracciato; magari viaggia nella fantasia e nella sua mente si immagina protagonista delle avventure lette nei libri di un certo Salgari che, al tempo, faceva sognare i fanciulli. Oppure l’espressione accigliata racconta di un litigio con un compagno dal quale si sta separando, le prime delusioni dell’amicizia e, in seguito, dell’amore. Ma, più drammaticamente, quell’aura di mestizia potrebbe appartenere a un piccolo profugo dolente con una carta in mano che l’accompagna attraverso frontiere fatte per escludere, che non avrebbe mai voluto attraversare e che l’allontanano da casa. O, Dio non voglia, a un giovane che fugge dalla guerra senza mostrare disperazione ma solo l’inebetita e stupefatta rassegnazione di tante piccole vittime, tanto più dolenti quanto ormai prive di lacrime. Quella scultura, anonima e senza riferimenti, probabilmente scaturì da un bel blocco di marmo, bianco come i suoi emuli più grandi che fanno mostra di loro tutt’intorno agli stadi del Foro Italico e fu poi relegata in un angolo nascosto, all’ombra di un grande edificio razionalista. Le intemperie e l’incuria hanno distribuito sporcizia e muffe sulla sua superfice e adesso si presenta ingrigita e segnata, simile allo specchio di Dorian Grey dove l’immagine veniva riflessa sempre giovane, ma il tempo lasciava il suo segno. Se ne infischia, la statua, di non essere considerata tra le attrazioni di un luogo che esalta la forza trionfante di una razza solo ipotetica, sa bene che, come Davide con Golia, la sua innocenza risulterà sempre vincente contro chi vuole prevalere con il sopruso. E, se anche non fosse vero, bisogna credere che valga comunque la pena di lottare e di ribellarsi alle ingiustizie, anche quando sembrano battaglie perse. La figura rappresenta un fanciullo dal corpo acerbo, ma nel cuore di quel fantomatico giovane c’è l’universo e la speranza per tutta l’umanità.

Il ragazzo di pietra sa bene che rimarrà nascosto in quel ritaglio di giardino, ignorato dai tifosi che vanno allo stadio, da chi da quelle parti fa qualche attività fisica e dagli scatti dei fotografi in cerca di inquadrature epiche. Forse un giorno verrà rimosso per finire in qualche magazzino, ma non se ne cura.

 

 

ENRICO E ELISABETTA

 

Il signor Enrico svolgeva lo stesso lavoro da quarant’anni. Era stato assunto appena ventenne, dopo un diploma alle Belle Arti, e aveva conservato l’impiego per il resto della vita. Forse non era quello a cui aspirava quando sognava di diventare un pittore famoso, ma finiti gli studi aveva cercato di impegnarsi in un’attività che fosse in qualche modo attinente alla sua passione. Superato un facile concorso, entrò con la qualifica di custode nella locale pinacoteca; l’occupazione doveva consentirgli di sopravvivere per un tempo che pensava breve, ma da stagionale divenne a contratto e poi definitiva. Le sue mansioni erano semplici: doveva sorvegliare le sale, verificare che tutto fosse in ordine e vigilare sui visitatori tenendoli a debita distanza dai quadri. Poca fatica e stipendio modesto. Il museo non era grande, una decina di sale, ma era stato oggetto di una donazione da parte di un industriale del luogo che le malelingue dicevano obbligata da un concordato col fisco. Il “mecenate suo malgrado” aveva specializzato la sua collezione concentrandola su un movimento pittorico particolare: i preraffaelliti. Come Enrico ben sapeva, questi erano stati un gruppo di pittori, perlopiù inglesi, che avevano operato sul finire del diciannovesimo secolo ispirandosi alle figure ed ai temi del Rinascimento italiano. Proprio su di loro il custode aveva scritto la sua tesi di diploma e ritrovarne qualche esponente sotto la sua tutela fu per lui una sorpresa inaspettata. L’innegabile fascino delle tele e l’atmosfera fuori del tempo gli fecero gradire ogni giorno di più quel lavoro che ad altri sarebbe apparso noiosissimo. Finì quindi per non cercare più un altro impiego, mentre le ore passate al museo gli sembravano più una riunione tra amici che un mero dovere. Arrivava alla mattina, faceva un giro con lo sguardo accigliato e attento, come per controllare se tutti si fossero svegliati in piena forma, e poi si sedeva in un angolo aspettando l’orario d’apertura al pubblico. Le presenze non erano mai eccessive, anzi il flusso dei visitatori risultava alquanto scarso, ed Enrico, mentre svolgeva i suoi compiti, lasciava spaziare la fantasia. Si immaginava catapultato al Greenwich Village per unirsi alla “Factory” di Wharol e poi disegnare qualche schizzo a carboncino seduto sul prato di Union Square; viaggiare nel tempo per ritrovarsi a Montmartre discutendo con Manet e Renoir sull’uso del colore e della luce, o a passeggio per le Ramblas chiedendo a Picasso il dannato motivo per il quale avesse smesso la pittura figurativa per buttarsi sul cubismo che sicuramente fu molto innovativo, ma vuoi mettere la bellezza di quell’arlecchino tutto blu? Fantasticando, il tempo passava abbastanza velocemente, l’unico inconveniente era che non scambiava quasi mai quattro parole con nessuno. Qualche indicazione a turisti distratti, una breve chiacchiera con l’altro impiegato alla biglietteria, ma nient’altro. E così, per alleviare la solitudine e trovare un po’ di svago, incominciò ad interagire con i soggetti dei quadri intono a lui. Grazie ai i suoi passati studi sapeva riconoscere le vicende raffigurate dai pittori ed anche qualche personaggio che si richiamava alla storia. Si perdeva ammaliato dalla grazia delle figure femminili, dalle loro chiome mosse dal vento e da quell’aria al tempo stesso algida e sensuale. Gli capitava di commuoversi di fronte ad una copia dell’Ofelia morente partecipando al dramma della sfortunata e romantica fanciulla. In altri gruppi, giovani donne danzanti ornate di ghirlande floreali inneggiavano alla primavera della loro vita, mentre il custode, non visto, accennava un passo di ballo per partecipare a quel gioioso girotondo. Non mancavano guerrieri con gli spadoni, ma a loro Enrico non si rivolgeva, non avevano l’animo abbastanza gentile per capire i suoi pensieri. Tra la finestra e il cantone della sala, era appeso il ritratto in primo piano di una fanciulla fulva di capelli e con gli occhi verde smeraldo, presa di tre quarti, come stesse rispondendo ad un richiamo giunto inaspettato. Il viso squadrato dagli zigomi alti, la bocca appena socchiusa forse per il breve ansimare dopo una corsa a piedi nudi. La tela finiva all’altezza della scollatura mostrando un incarnato pallido dalla cui trasparenza si intuivano le vene del collo e il battito del cuore. Una catena d’oro ornava il decolté, ma era quasi fuori posto, un manufatto greve su una pelle delicata. Lo sfondo era scuro, per far risaltare meglio la figura e contribuiva all’alone di mistero che avvolgeva la protagonista. Chi era? Da dove veniva? Sarà stata felice o avrà avuto una storia drammatica come Ofelia? Il custode si poneva queste domande ed altre senza senso, mentre diventava sempre più amico della fanciulla del quadro. Era difficile rivolgersi a lei in maniera sempre impersonale e quindi decise di chiamarla Elisabetta. Una volta battezzata, cominciarono i loro dialoghi mentali. La salutava sempre al suo arrivo e non mancava di raccomandarle la buona notte prima di andare a casa, la sera. Durante la giornata, seduto di fronte a Elisabetta, le raccontava i suoi pensieri, le domandava se le piacesse De André o scherzava chiedendole quando fosse andata l’ultima volta dal parrucchiere. Se ne innamorò. Cominciò a dedicarle poesie, che lei gradiva sempre, ogni tanto le offriva un piccolo dono che poi riportava a casa conservandolo per il futuro. Avrebbe voluto che il quadro fosse almeno a mezzo busto per vederle le mani, era sicuro che avessero le dita affusolate e gli sarebbe piaciuto tanto poterle stringere tra le sue. Chissà quanti anni avrà avuto? Elisabetta, una signora, a questa domanda non rispondeva mai, ma lo scorrere del tempo non lasciava segni sul suo volto, mentre con l’avvicendarsi delle stagioni Enrico passò la giovinezza e poi la maturità. Ormai ingobbito, le rughe e i capelli bianchi, indossava ancora, tutte le mattine, la divisa da custode e si recava all’appuntamento con la sua ragazza. L’amava come il primo giorno e nessuna donna reale aveva mai potuto competere con lei, rendendo la sua vita solitaria ma non infelice. L’ultimo dei suoi colleghi, un giovane sguaiato e ignorante, un giorno gli consegnò una busta. E’ per te, gli disse, dalla direzione. Enrico non se l’aspettava, con una certa trepidazione aprì la lettera. Congratulazioni, c’era scritto, alla fine di questo mese avrà raggiunto l’età pensionabile. L’amministrazione la ringrazia e la invita a lasciare il suo posto alla data indicata. L’uomo fece scivolare la missiva dalle mani tremanti e il collaboratore la raccolse buttando lo sguardo sul contenuto. Contento, eh? Finalmente te ne starai a casa! Enrico, con le lacrime agli occhi, andò di fronte al quadro di Elisabetta e le annunciò la novità. Le disse che avrebbe dovuto lasciarla, ma sarebbe tornato spesso a trovarla, non si preoccupasse. Gli sembrava che in quel momento l’amasse tanto intensamente quanto mai prima. Si sarebbe strappato il cuore per lasciarlo lì, vicino a lei, alla quale apparteneva.



Questa è la storia di quel vecchietto che fino a poco tempo fa si vedeva entrare tutti i giorni al museo, col vestito da festa e un mazzetto di fiori in mano. Ed è anche spiegato perché sulla sua lapide nel piccolo cimitero del paese è scritto: qui giacciono Enrico e Elisabetta, mentre tutti sanno che lui non si sposò mai.

mercoledì 2 novembre 2022

Il Cecere

 

Studiare gli piaceva, ma non più di tanto. Faceva i compiti diligentemente: lettura, matematica, storia e religione, ma solo il lunedì, poi metteva tutto in cartella e scendeva nel giardinetto sulla piazza. C’era sempre qualche amichetto e, a seconda del numero, si organizzavano partite a pallone o gare di nasconderella e chi s’accecava doveva contare dietro al tronco di uno dei tanti carrubi del parco. I carrubi facevano cadere in terra le carrube, una specie di grandi fagioloni dall’odore dolciastro. Si diceva che fossero commestibili, ma nessuno le aveva mai assaggiate né aveva la minima intenzione di farlo. Nel pomeriggio dei giorni feriali il giardinetto era frequentato solo da bambini accompagnati dalle madri o da qualche servetta. Le tate professionali si riconoscevano per la figura paciosa e sovrabbondante, l’immancabile collana di corallo, dono della padrona alla nascita del pargoletto, e per la “crocchia” di capelli ben stretta sulla nuca. Prevalentemente si sentiva parlare in ciociaro, ma non mancava qualche balia veneta che ogni tanto sbrodolava un’invocazione somigliante tanto a una affettuosa bestemmia. All’epoca il bambino aveva sette o otto anni e, come per tutti i suoi coetanei, il mondo gli sembrava una continua scoperta. Quell’appezzamento di prato e ghiaia ritagliato in mezzo al traffico cittadino era per lui un microcosmo. Osservava le formiche in fila con il carico di un filo d’erba o giocava con un girino nella piccola vasca della fontanella. Scopriva la ritrosia delle lumache che, toccate sulle corna, si rintanavano nella loro casetta fatta di guscio e la fatica di qualche bacherozzo intento a spingere una palla di “cacca” più grande di lui. Su qualche ramo più basso dei grandi alberi guardava i nidi degli uccelli e a volte capitava che scoprisse un passerottino caduto per terra che sembrava implorasse aiuto. Una volta ne aveva raccolto uno organizzando una specie di pronto soccorso in una scatola di scarpe, ma l’esito delle cure si era rivelato infausto per il piccolo paziente, e quindi decise di non intervenire più lasciando la natura libera di tessere i suoi disegni. Accadeva che talvolta i suoi amichetti non andassero al giardino o che dovessero tornare presto a casa, e allora lui restava solo con la tata. Si sedeva su una panchina e studiava i “grandi”. In quelle ore dedicate al lavoro, oltre alle accompagnatrici dei bambini, solo qualche persona anziana sostava nel giardino con la sporta della spesa o vecchi, più sperduti dei passerotti, con lo sguardo vacuo di chi non sa cosa fare e col dubbio se valga la pena di farlo. Ma, quasi sempre, c’era l’uomo col “cecere”. L’aveva chiesto alla tata, quell’escrescenza sul volto, prominente e pendula, si chiamava così, quasi a ricordare un cecio buttato in faccia alle persone. Era un omone, almeno per lui che era così piccolo, sempre vestito con un paltò di colore indefinito e col cappello in testa. Sedeva, leggeva il giornale, si alzava per fare un giretto, sorrideva a chi incrociava, poi si accomodava nuovamente su una panchina…col cecere pendulo. Non sembrava cattivo, forse non aveva famiglia, ma quel ciccio di carne era qualcosa che al bambino metteva i brividi. Il piccolo immaginava l’uomo farsi la barba e circumnavigare quel promontorio di carne prominente sulla guancia, con circospezione e prudenza. E poi chissà se lo strano polipo sarebbe cresciuto ancora, a dismisura, senza limiti. Forse un giorno l’uomo si sarebbe presentato ai giardinetti con delle bretelle attaccate alla nuca per sorreggere la massa estroflessa o con una carriola adatta a portare l’indesiderato peso. Magari quel cecere era il baby di una forma aliena o una specie di peste che si sarebbe trasmessa a tutto il genere umano, chissà? Il ragazzino era seriamente preoccupato e anche un po’ schifato. Finché un giorno, guardando attentamente, ma senza farsi accorgere, la guancia dell’uomo, il bambino vide che, alla base del ciccio, l’uomo aveva stretto un filo bianco, come quello da cucire. Lo sta strozzando, pensò. Sta togliendo vita all’alieno e combatte per estirpare quel parassita aggrappato ai suoi succhi vitali. Per qualche giorno l’uomo non si presentò da quelle parti, ma era comprensibile: la battaglia stava divampando cruenta e senza pietà. Poi tornò, senza cecere. Aveva avuto la meglio! Il bambino ne fu felice. Non disse niente alla tata, ma da quel giorno ebbe una preoccupazione in meno: gli umani potevano stare tranquilli, gli alieni non avrebbero vinto!

venerdì 7 ottobre 2022

Un Fiore


Mi piacerebbe che sul nostro pianerottolo ci fosse un banchetto di fiori. Fisso, ventiquattr’ore al giorno, con un omino gentile che non si stancasse mai di aspettare e rimanesse sempre disponibile per chi avesse bisogno di lui. Dovrebbe essere fornito di fresie in primavera e grandi peonie, di quelle sfumate sul colore del rosa e con l’aspetto un po’ decadente, verso maggio. Mazzi di lavanda nel mese di luglio, ciclamini all’inizio dell’inverno e rose tutto l’anno. Sotto Natale non dovrebbe offrire quelle piante rosse abbastanza banali, ma proporre composizioni di agrifoglio e bacche con rami di abete e stecche di cannella per spargere intorno l’odore delle Feste. Visto lo spazio disponibile, non mi aspetterei di trovare un vasto assortimento, ma sarebbe sufficiente che, come nei migliori negozi di alimentari, esponesse sempre delle primizie o delle ricercatezze selezionate fra le migliori sul mercato in quel momento. Il fioraio dovrebbe anche essere una persona provvista di un certo gusto estetico poiché sarebbe suo compito abbinare la tinta della carta crespa con i nastri ed fiori tra loro, in una armonica composizione di colori e profumi. A disposizione terrebbe dei semplici biglietti per accompagnare il dono floreale con brevi dediche o pensieri affettuosi. Non dovrebbero essere dozzinali, ma fatti con un bel cartoncino color crema che resistesse al tempo, magari in fondo ad un cassetto, per ricordare un momento o quella persona cara. Insomma, tutto molto curato e ben tenuto. Già, ma l’obiezione del venditore di fiori sarebbe inevitabile ed ovvia: per i miei affari non c’è abbastanza passaggio sul pianerottolo, direbbe. Ed avrebbe ragione, al nostro piano ci sono solo due appartamenti e il mio dirimpettaio ha una bella terrazza con molte piante e non credo sarebbe un gran cliente. Però, caro fioraio, io le vorrei spesso regalare un fiore quando di notte la guardo dormire, e poi quando torno a casa le vorrei portare un fiore che parlasse per me. Ancora un fiore quando, come adesso, scrivo pensando a lei, ed un altro da lasciare sul tavolo in cucina per accompagnare la colazione. Un fiore per ogni parola non detta, un fiore per ogni pensiero tenuto segreto, un fiore per ogni volta che la rivedo, un fiore per quando mi sta vicino. Ancora fiori che dicano: grazie, che dicano: il tempo non esiste, che dicano: sono qui. E poi fiori per festeggiare una ricorrenza o solo un altro giorno vissuto insieme, per rallegrare la casa o per vederla sorridere. Fiori da lasciare in un piccolo vaso di vetro sul lavandino, sulla scrivania dove lavora, da infilare tra le pagine della sua agenda fitta di impegni. Un altro fiore, solo uno, per non finire mai di darle un fiore.
Come vedi, caro fioraio, sul mio pianerottolo la clientela sarebbe sicuramente poco numerosa, ma se il tuo mestiere è anche spargere un po’ di amore, qui non ti mancherebbe il lavoro.