Stefano e sua madre arrivavano al mare sempre nella tarda
mattinata. Il bambino si buttava subito in acqua tuffandosi fra le onde e
sguazzando finché non gli venivano i “rughetti” sulle dita, poi con gli amici
organizzava interminabili partite di pallone che duravano fino allo sfinimento.
All’ora di pranzo, i suoi compagni andavano a casa per mangiare e fare il
riposino mentre lui restava da solo a leggere un giornaletto sotto
l’ombrellone. La mamma faceva arrivare dal bar sontuosi panini e bibite varie, ma
il pasto finiva presto ed il tempo non passava mai. Nell’ora di maggior
canicola, tutto si chetava e si sentiva solo la risacca in sottofondo che
mormorava una nenia soporifera. Il bambino durante la siesta si annoiava
mortalmente. All’epoca di questi avvenimenti e dell’avventura fantastica di cui
fu protagonista, Stefano aveva all’incirca dieci anni. Andava al “Cavalluccio
Marino” tutte le estati, conosceva ogni angolo della spiaggia ed aveva fatto
amicizia con tutti i bagnini che lo trattavano ormai come uno di famiglia.
Dalla madre aveva il permesso di girare ovunque volesse, bastava che si facesse
vivo ogni tanto senza sparire per ore. Così, per passare il tempo mentre tutti
dormivano, andava in esplorazione. Il territorio più interessante si trovava dietro
le cabine dove una stretta lingua di sabbia divideva il retro dei casotti dalla
recinzione esterna. Non c’era nessuno, i bagnanti non avevano motivo d’andarci,
serviva più che altro come deposito dei rimasugli dello stabilimento. Veniva
portato lì tutto quello che i villeggianti lasciavano incustodito o
dimenticavano andandosene: giochi, materassini, ciambelle gonfiabili, palloni
in quantità, qualche indumento e strani oggetti apparentemente inutili. Non
mancavano sedie a sdraio da aggiustare, ombrelloni privi di telo e perfino un pedalò
andato in pensione; insomma: un mondo da scoprire. La parete posteriore delle
cabine costruite in legno mostrava spesso delle fessure, addirittura dei buchi,
e anche quello era un motivo di stimolo per la curiosità del bambino. Quando
Stefano, da dietro, sentiva che qualcuno stava per entrare dalla porta
anteriore, si affrettava ad accostare l’occhio al pertugio, ma senza
particolare malizia. Quella sarebbe arrivata qualche anno dopo, a quel tempo
era divertente spiare senza essere visti facendo qualcosa di vagamente
proibito. Nella penombra vedeva più che altro piedi e braccia, ma una volta
scorse chiaramente il sedere di una signora, tondo e pallido come una luna
piena. Lo raccontò a tutti i suoi amici, con particolari inventati non
difficili da immaginare, e per un pomeriggio non parlarono d’altro.
Anche quel giorno, mentre stava facendo un sopralluogo nella
“terra di nessuno” in cerca di nuovi tesori o di qualche gioco da recuperare, distrattamente
fece un giro per capire se gli spogliatoi fossero occupati. Camminando,
controllava i vari spiragli e con il pugno batteva sul legno, così tanto per
far rumore, finché non arrivò all’ultima cabina della fila che rimaneva sempre
chiusa, forse era riservata a qualcuno che non veniva mai o conteneva attrezzi
da non lasciare incustoditi. Si accorse per la prima volta che, giusto
all’altezza del suo sguardo, si apriva un foro abbastanza grande e ben definito,
come fatto da un trapano. Era un invito imperdibile: accostò l’occhio
destro. Là dentro era tutto buio, solo
un vago chiarore arrivava dall’alto, probabilmente dalla grata sopra la porta.
Stava per passare oltre quando improvvisamente vide una lucetta bianca accendersi
ad intermittenza: click, click, cliiiiick e buio; click, click, cliiiick e
buio. Sembrava una specie di segnale che si ripeteva a distanza di pochi
secondi, senza fermarsi. Stefano pensò ad un gioco lasciato in funzione dentro la
cabina e guardò con più attenzione. Aguzzò la vista e mentre la piccola lampada
rimaneva accesa vide che la luce proveniva da un faro in miniatura, fatto
esattamente come quelli che aveva visto nelle illustrazioni di geografia: una
torretta dipinta a righe orizzontali bianche e blu, con la lanterna di vetro in
cima, costruita sopra una specie di scoglio. “Bellissima!” pensò e rimase
incantato a guardare. Man mano che si abituava all’oscurità, riuscì a
distinguere altri particolari. Si accorse che il faro era circondato da una
distesa d’acqua in movimento come un mare in tempesta. La luce colpiva la
superfice delle onde e bianche creste di spuma s’innalzavano rampanti come
cavalli imbizzarriti. Adesso percepiva anche il rumore dei marosi mentre
s’infrangevano sulla roccia, lo stridio dei gabbiani e l’ululare del vento.
“No, non è possibile che dentro la cabina ci sia tutto quello, forse il buco
nella parete corrisponde allo schermo di un portatile che sta trasmettendo un
documentario.” Stefano si ritrasse per un momento stupito, perplesso. Non
riusciva a capire cosa avesse visto esattamente, o meglio come fosse possibile
che la cabina n. 28 contenesse un uragano. Doveva scoprirlo. Fece di corsa il
giro della fila delle cabine e si ritrovò davanti all’ultima porta dello
schieramento. Non si udiva alcun rumore provenire da dietro l’uscio chiuso e
tutto sembrava rientrare nella normalità. Eppure non aveva sognato, si
arrampicò sulla balaustra laterale per sbirciare all’interno da sotto il tettino.
Vide quello che c’era da aspettarsi: attrezzi da giardinaggio. Balzò per terra
e, sempre di corsa, tornò al buco sul retro appiccicandoci l’occhio. Il fortunale
infuriava più che mai, mentre il faro lanciava i suoi segnali d’avvertimento
come una sentinella a difesa dei naviganti. Stefano si accasciò sulla sabbia
con la testa fra le mani. Rimase così per qualche minuto, indeciso se chiamare
qualcuno o dimenticare tutto facendo finta di niente. Nessuna delle due possibilità
sembrava soddisfacente: nel primo caso se avesse detto a Peppe, il bagnino, che
c’era un faro in cabina non sarebbe stato sicuramente creduto, ed anzi
l’avrebbe preso in giro, se invece avesse ignorato quanto era sicuro d’aver
visto, sarebbe rimasto tutta la vita col dubbio di aver avuto una allucinazione
o di aver mancato una scoperta. L’unica soluzione era indagare, e per un patito
dei racconti polizieschi si trattava, come si suol dire, di un invito a nozze. Doveva
entrare nella cabina. Non era poi così difficile, le chiavi dei vari gabbiotti
si differenziavano l’una dall’altra, ma ormai da tempo aveva scoperto che ogni
cinque o sei esemplari la sequenza dei dentini si ripeteva e quindi, con
pazienza, si poteva trovare quella giusta per ogni porta. Andò dalla madre presso
la riva e si fece dare la chiave della loro cabina per cominciare da quella.
Tornò davanti alla 28 aspettandosi di dover proseguire con i tentativi ma,
infilata la chiave nella toppa, la serratura scattò subito. Stefano ebbe un
balzo al cuore. E’ facile fare lo spavaldo quando l’avventura è solo ipotetica,
altro è varcare la soglia del mistero. Non negò a se stesso di avere paura, ma
la curiosità vinse il timore e Stefano spinse l’uscio fatale. Bastarono pochi
centimetri e il bambino si ritrovò dall’altra parte, ma non ebbe neanche tempo
di capire cosa stesse succedendo che provò la medesima sensazione di quando
affrontò il grande scivolo al Parco Giochi Acquatici: il cuore gli arrivò in
gola. Si sentì cadere a tutta velocità mentre intorno vedeva luci, ombre e tutti
i colori dell’arcobaleno mischiarsi come in un enorme frullato ai gusti di
frutta. L’accompagnava una cacofonia strana dove riconosceva voci di parenti,
il richiamo della suora a scuola, lo scoppio dei mortaretti a capodanno, la
musica di un organetto e tanti altri rumori che facevano lampeggiare frammenti
di ricordi. Com’era iniziato finì tutto improvvisamente con un tuffo in un
mondo blu dove non c’era più ne sopra né sotto, né presente né futuro solo
acqua e silenzio. Forse perse i sensi perché poi non seppe spiegare come fece a
ritrovarsi a faccia in giù steso sopra una delle rocce ai piedi del faro.
-Ehi, svegliati. – Stefano sentì una mano appoggiata sulla
sua schiena che lo scuoteva violentemente. – Sei morto? – Sputacchiando e
imprecando il bambino aprì gli occhi.
-Nossignore, almeno non credo.
-Bene, i funerali mi mettono tristezza e poi non ho
crisantemi a diposizione. – Chi parlava era un ometto piccolo e rincagnato con
due occhietti vivaci e ironici che spuntavano da una massa di peli bianchi che
gli ricoprivano quasi tutto il viso. Era vestito da marinaio, con una casacca
logora di panno blu e un berretto con la visiera adornato da una moltitudine di
ami da pesca dalle piume variopinte attaccati tutt’intorno. L’effetto era una
via di mezzo tra un capo indiano e un vecchio vagabondo, ma l’odore forte di
pesce lo qualificava come un uomo di mare. Intanto la bufera intorno all’isola
sembrava essersi placata e le onde carezzavano le grandi pietre con una
dolcezza infida ed ingannevole.
-Dove sono? Dentro la cabina? – Chiese il bambino.
-Ehh? Cosa? Quale cabina? Sei impazzito o sei stato sempre
pazzo? Guarda chi mi doveva capitare, un ragazzo pazzo, un pazzo ragazzo, pazzo
e ragazzo, ragazzo e pazzo. – Continuando a ripetere quella cantilena che sembrava
divertirlo molto, il marinaio s’incamminò verso il faro. La torre, che dal buco
sembrava piccola, in realtà doveva essere alta almeno una quindicina di metri e
il fascio di luce che balenava ritmicamente era potente come un riflettore del
cinema. Sulla tonda parete dell’edificio si aprivano tre finestrelle, forse in
corrispondenza di alcune stanze ed una porta alla base con i battenti di
quercia scura.
-Aspettami! – disse Stefano e, con un certo sforzo,
verificando di non avere niente di rotto, si tirò in piedi seguendo lo strano
tipo.
-Sbrigati, vieni, pazzo ragazzo, che il tè è pronto.
Il giovane entrò nella casa del vecchio marinaio e la prima
cosa che notò fu l’odore. Se quello che l’uomo spandeva dalla sua persona era
un olezzo marino, dentro la stanza l’aria era quasi irrespirabile per il tanfo
di pesce marcio.
-Che puzza! – Se ne uscì spontaneamente il ragazzo.
-Puzza, ragazzo pazzo? Non avverto alcuna puzza, forse viene
dal pozzo! Ci saranno caduti un pezzo di
pizza, una tazza di cozze o un mazzo di pezze. Non farci caso son solo frizzi e
lazzi.
-Basta! Ti ha dato di volta il cervello, vecchio? Cerca di
fare la persona seria e dimmi dove sono e come ci sono arrivato. A proposito,
come ti chiami?
-Sono Capitan Fracassa! No, ho detto una bugia, mi
piacerebbe avere un nome tanto altisonante, in verità mi chiamo Gennaro e non ho
mai comandato niente. E tu come ti chiami?
-Stefano e sono capitato qui senza sapere come.
-Caro ragazzo, sicuramente avrai letto “Alice” oppure
qualche romanzo di fantascienza, magari quella serie noiosissima di quel
bambino sfigato, come si chiamava…Potter. Ebbene tutti i protagonisti passano
attraverso un varco temporale che li collega ad un mondo parallelo. Il fatto
che questi passaggi di dimensione siano descritti in tante storie, ti dovrebbe
far capire che c’è un fondo di verità e che, ogni tanto, a qualcuno succede di
imbattersi in questi fenomeni. Ecco, tu hai fatto questa esperienza e…plof sei
giunto qui.
-Ma io non volevo.
-Questa è una scusa stupida, non me l’aspettavo da te. Intanto
siediti al tavolo e bevi il tè finché è caldo, altrimenti l’infuso di alghe
secche freddandosi diventa come il piscio di balena: schifoso. – Per cortesia,
il ragazzo ne ingerì un sorso, non era poi così male. – Dicevo, non è corretto
dire che non volevi, anzi hai fatto di tutto per entrare, non è vero?
-Si, hai ragione Gennaro. Ma adesso come faccio a tornare?
Mia madre non vedendomi si preoccuperà.
-Questo è un problema secondario. Vedi, da questa parte il
tempo ha un’altra valenza. Quello che di là è un minuto qui sono dieci anni e
quindi puoi rimanere per un periodo anche molto lungo senza che a nessuno venga
in mente di cercarti. Per quanto riguarda il tornare, beh non è così semplice.
Vedremo, ma per il momento non ci pensare e facciamo amicizia, l’ultimo essere
parlante che ho incontrato è stata una sirena spiaggiata sulle rocce. Carina,
per carità, ma dalla vita in giù viscida e piena di squame, dalla vita in su si
poteva guardare però a me le mezze cose non sono mai piaciute. Deve essere successo
almeno sei o sette anni fa e da allora mai una parola con nessuno. E’ una vita
dura la mia.
-Capisco. – disse il ragazzo. – Ma non sbarca proprio mai
nessuno sull’isola?
-Oh, no. – rispose il guardiano. – Qualcuno in realtà viene,
ma vorrei tanto non lo facesse.
-Spiegati.
-Devi saper che il mare intorno è infestato dai pirati e
ogni tanto uno di loro sbarca qui alla ricerca di un bottino da rapinare.
Cascano male perché da queste parti non c’è niente di valore, ma proprio
l’andarsene a mani vuote li fa andare su tutte le furie e spesso sfogano la
rabbia rompendo tutto o facendo danni. Io, quando arrivano, mi nascondo per non
andarci di mezzo.
-Se la prendono anche con te?
-Una volta ero andato a pescare dall’altra parte dello
scoglio e non li vidi arrivare, me li trovai in casa furenti e il loro capo, Abeijon,
mi prese per i capelli e voleva sgozzarmi. Per fortuna successe qualcosa che lo
distrasse, mi scaraventò in un angolo e se ne andò promettendo che avrebbe
finito il lavoro la volta successiva. Da allora sto molto attento, ma vivo
sempre con la paura.
-Che brutti ceffi! E non c’è modo di allontanarli
definitivamente?
-Ah, magari! Sono alti quasi due metri e tanto grossi da
passare a malapena dalla porta del faro. Hanno l’aspetto di belve feroci con gli
occhi spiritati e la bava che esce dalla bocca. Grugniscono più che parlare e
il sangue è la bevanda che preferiscono. Quindi è impossibile contrastarli,
bisogna solo scappare, anche se così si lascia tutto a disposizione delle loro
razzie. Però…
-Cosa?
-Un punto debole ce l’hanno.
-Ah, lo vedi? Non esiste nessuno invulnerabile. Allora
perché non li colpisci lì?
-Mi sta venendo un’idea.
-Parla. – Il guardiano rimuginava tra se, sembrava perso nei
suoi pensieri. Aveva cominciato ad andare avanti e indietro per la piccola
stanza con la testa bassa e le mani dietro la schiena, emettendo ogni tanto
strani versi e risatine. Sembrava improvvisamente in preda ad una forte
eccitazione. Poi di colpo si fermò e si rimise a sedere di fronte a Stefano.
-Stammi bene a sentire, ragazzo pazzo. Ti dicevo che hanno
un punto debole, eccolo: non sanno ridere. Se Abeijon ci provasse, gli
verrebbero le convulsioni e forse morirebbe soffocato. La prossima volta che
viene, bisognerebbe farlo ridere e sono sicuro che starebbe tanto male da
scappare via o lasciarci le penne. Comunque sicuramente non si azzarderebbe più
a tornare.
-Beh, fargli il solletico mi sembra alquanto difficoltoso,
si potrebbe provare con qualche barzelletta. E allora fallo, no?
-Io? – Sgranò gli occhi Gennaro. - Impossibile! Quando lo
vedo mi prende il panico, va via la voce e la mente mi va in pappa. Non ne
sarei mai capace, però…
-Ancora co sto’: però! Però cosa? – Il vecchio prese per la
maglietta il ragazzo e avvicino il viso all’altro fissandolo negli occhi.
-Lo potresti fare tu! – Gridò come colpito da una
folgorazione.
-Io? Sei scemo? Contro quel, come si chiama…
- Abeijon.
-Quello! Gli dovrei raccontare una barzelletta per farlo
stramazzare col rischio che se non ride sgozza anche me? Scordatelo!
-No, nessun rischio. E’ sicuro che se tu gli racconti una
storiella divertente quello si scompiscia e muore: matematico! E poi, la
gratitudine mi potrebbe rinfrescare la memoria e mi ricorderei come si fa a
tornare indietro nel tuo mondo, così te ne potresti andare.
-Un ricatto?
-E’ piuttosto un contratto da stipulare con la soddisfazione
di entrambe le parti. – Stefano si sentiva con le spalle al muro. Se non avesse
acconsentito, Gennaro per dispetto non l’avrebbe fatto partire e lui ne aveva abbastanza
di quella avventura. Ci pensò ancora un attimo e poi:
-Ok, hai vinto. Lo farò, ma sappi che ho una fifa fregata!
-Su, su, non c’è niente da aver paura: è matematico. – In
quel momento si sentì il rombo di un cannone provenire dal mare.
-Eccoli! Sbrigati ragazzo, nasconditi dentro l’armadio e
aspetta che entri Abeijon. Poi quando sta a tiro di voce, spara la prima
barzelletta, vedrai che effetto avrà su di lui.
-Siamo sicuri, eh?
-Matematico! – Mentre il vecchio scappava per andarsi a
rintanare chissà dove, Stefano aprì le ante di un specie di credenza e restò in
attesa. Là dentro, al buio, sentiva solo il suo cuore battere all’impazzata,
mentre goccioloni di sudore gli bruciavano gli occhi. Non dovette aspettare molto,
dopo qualche minuto sentì provenire da fuori della porta strane parole e versi
animaleschi come se ci fosse un branco di cinghiali inferociti. Battevano le
mani, pestavano i piedi e, ogni tanto, si sentiva il rumore di qualche
pistolettata. Era difficile capire cosa stessero facendo, perché non fossero
entrati subito, forse stavano decidendo che fine far fare al povero Gennaro se
l’avessero trovato. Il ragazzo supponeva
che sarebbe stata la stessa sorte che avrebbero riservato a lui e provava la
voglia irresistibile di scappare o farsi piccolo piccolo nella speranza di non
farsi scoprire. Ma doveva tener fede alla promessa, sia per salvare il povero guardiano
che per poter tornare a casa, quindi raccolse ogni briciola di coraggio che
riuscì a trovare nel suo corpo di bambino e rimase in attesa. L’uscio del faro
sbatté violentemente e Stefano, dentro l’armadio, fece un salto che a momenti ruzzolava
fuori.
-Sgrunt, gronf, Aspettate, entro io per primo e vedo se c’è
quell’ometto. – La voce cavernosa proveniente dal centro della stanza doveva appartenere
al capo dei pirati. –No, qui non si vede, il topo di fogna. Deve essersi
cacciato in qualche buco, lo troveremo. – Stefano sentiva Abeijon muoversi per
la stanza urtando le suppellettili e facendo versi stizziti. Era il momento! Il
ragazzo prese fiato il più possibile e cominciò a gridare:
- Qual è il ballo preferito dagli scimmioni? L’orango-tango.
– Ogni rumore dalla stanza si placò, ma non ci fu alcuna reazione. “Lo sapevo,
non funziona!” pensò il ragazzo quasi in preda al panico. Ma insistette:
- Mamma, la liquerizia ha le zampe? – No, di certo! – Allora
mi sono mangiato uno scarafaggio. - Qualcosa si agitò, Abeijon sembrava
lamentarsi e questo incoraggiò gli sforzi di Stefano:
-Dottore, mi aiuti, tutte le volte che bevo il latte sento un
dolore fortissimo all’occhio destro. – Ha provato a togliere il cucchiaino
dalla tazza? – Una specie di ruggito e il tonfo di un corpo pesante caduto a
terra. Il pirata con lo stimolo della risata, ma impossibilitato a ridere,
stava soffocando. Il ragazzo aprì uno spiraglio e guardò fuori. Vide una specie
di bisonte vestito con mille colori che rantolava a terra. Non ebbe pietà e
continuò:
-Mangia le carote, fanno bene alla vista. – Davvero? –
Certo, hai mai visto un coniglio con gli occhiali? – Questo fu il colpo di
grazia. Abeijon, per non morire, si trascinò fuori della casa ed aiutato dai
compagni si allontanò rapidamente imbarcandosi sulla sua nave.
Stefano uscì urlando dall’armadio: - Gennaro, Gennaro,
vieni, sono scappati! – Il guardiano ricomparve saltellando e gridando dalla
gioia.
-Grazie, amico mio, grazie. Mi hai salvato!
-Si, però sono esausto. Adesso mantieni la tua promessa e
dimmi come si fa per tornare nel mio mondo.
-Ok, ascolta… - gli rispose il guardiano del faro.
Sulla spiaggia, sotto l’ombrellone:
-Stefano, amore, hai mangiato il panino?
-Si, mamma.
-Bene, mi dispiace se ti stai annoiando. Non c’è molto da
fare qua, vero?
-Si, mamma – Disse Stefano, ma pensò: “a parte viaggiare in
mondi paralleli, combattere i pirati e salvare vite umane” Si mise
distrattamente una mano nella tasca del costume e trovò un foglietto. Lo prese,
era piegato in quattro e sopra un lato c’era scritto: “Come ringraziamento per
avermi aiutato, Gennaro”. Lo aprì e vide una mappa sulla quale si notava un
punto con la dicitura: “tesoro”. Rappresentava una terra che non riconobbe, ma
la strada per arrivarci partiva dalla cabina 28.